Ci sono troppi pochi horror ispirati al folclore ebraico, ed è un peccato perché si potrebbe contare su un’ottima riserva di incubi. Prima che qualcuno obietti, non sto lamentando la mancanza di registi di origine ebraica che si cimentino nel genere, ma sto facendo un discorso di temi e iconografia, di un immaginario che è, soprattutto per quanto riguarda l’horror soprannaturale, monopolizzato dal cristianesimo, con tutto il suo armamentario di croci, acqua santa, satanassi ed esorcismi in latino.
C’è stato The Possession nel 2012 e The Golem nel 2018, ma mi viene in mente poco altro.
The Vigil è passato anche qualche giorno nei nostri cinema, o doveva passare poco prima della chiusura. MI ricordo che volevo andarlo a vedere ad Halloween, ma poi Conte ha deciso che no, e quindi l’ho recuperato qualche giorno fa, mandando sentitissimi ringraziamenti al solito Jason Blum, a cui giro anche un enorme in bocca al lupo, dato che si è beccato il Covid.
The Vigil è un esordio a basso costo, ed è anche la più classica delle produzioni Blumhouse: un solo ambiente in cui si svolge il 90% del film più un paio di sporadiche uscite all’esterno con il bonus di qualche flashback sparso; un attore principale sempre in scena e due comprimari di numero; uso abbastanza terroristico del sonoro, ma in questo caso con pochi jump scares propriamente detti. Il tutto a fare da sfondo a una vicenda soprannaturale e demoniaca che potrebbe essere la solita solfa, se non fosse filtrata attraverso una cultura che non siamo abituati a vedere in un contesto del genere.
Yakov (Dave Davis) ha da poco abbandonato la sua comunità di ebrei ortodossi, dopo un fattaccio traumatico che lo ha segnato nel profondo. In difficoltà nel costruirsi una nuova vita e a corto di soldi, viene avvicinato dal suo ex rabbino che gli affida un compito: lo shomer a pagamento.
Lo shomer è una figura preposta a vegliare un defunto tutta la notte, prima che le onoranze funebri vengano a portarlo via. Yakov lo ha già fatto altre volte per la sua comunità e, in questo caso, pare un lavoretto facilissimo: un anziano sopravvissuto all’Olocausto, che viveva solo con sua moglie affetta da demenza. Si tratta solo di far passare cinque ore e intascare il compenso.
Ma siamo in un horror, e non esistono lavoretti facili nell’horror. Anzi, più sembrano facili, più la fregatura che si nasconde dietro è di proporzioni gargantuesche.
Il povero Yakov, che già ha i suoi problemi (non vi rivelo quali), va in terapia e assume farmaci, si ritrova alle prese con un’entità malevola nota come dybbuk, di quelle particolarmente perniciose, che quando ti puntano non ti mollano più.
Ora, il suddetto dybbuk non è un demone come quelli di derivazione cristiana che possiede la sua vittima perché malvagio e basta: è l’anima di una persona morta che non riesce a trovare una collocazione si attacca (il termine significa proprio attaccare, appiccicare) a un vivente.
Nel film viene spiegato che il dybbuk ha bisogno di un nuovo corpo da possedere, dato che il suo vecchio ospite è appena passato all’altro mondo, ed è più facile essere presi da questa entità se delle esperienze pregresse sono arrivate a spezzarti nel profondo. Il signor Litvak (il cadavere che Yakov deve vegliare) era tornato dai campi di concentramento, e quindi non c’è bisogno di specificare cosa lo avesse spezzato; Yakov, oltre a un rapporto conflittuale con la sua religione, ha subito un qualcosa che avrebbe tagliato le gambe a chiunque, ed è quindi la vittima designata del dybbuk. The Vigil si regge tutto sull’empatia che il regista riesce a costruire intorno a questo personaggio maschile così fragile, e sul dubbio se finirà per soccombere al demone o se troverà le risorse per sconfiggerlo. È anche un conto alla rovescia, perché c’è un tempo prestabilito entro il quale dybbuk va sconfitto, oppure si è suoi per sempre.
Yakov ci viene presentato in maniera molto efficace nei primi minuti del film, ed è bravissimo Davis a portarlo sullo schermo, con tutti i suoi piccoli tic, le movenze goffe, come se non si trovasse del tutto a suo agio nel suo stesso corpo, un velo di tristezza nello sguardo e, in generale, un senso di inadeguatezza alla nuova esistenza che si è scelto lasciando la sua comunità. È facile volere bene a Yakov, ed è fondamentale che si crei una relazione immediata con lui: ci passeremo insieme l’ora e venti successiva, e per molto tempo la sua faccia sarà l’unica che vedremo.
Com’è tipico per la Blumhouse, la vecchia casa in cui si tiene la veglia funebre è la co-protagonista del film: è un luogo che, se non si considera il cadavere sotto al lenzuolo in salotto, di primo acchito non ha molto di sinistro. La tipica abitazione piccolo-borghese, dove si capisce che vivevano due persone molto anziane, carica di memoria, un po’ polverosa, non ancora in rovina, ma sulla strada di essere lasciata andare. Mentre il film avanza, acquisisce caratteristiche sempre più lugubri perché vista attraverso gli occhi atterriti di Yakov, e comincia a fare paura.
Il reparto spaventi oscilla tra gli sbalzi di volume, che qui in effetti sono un po’ troppi, e spesso anche a sproposito, e momenti di genuino orrore, legati soprattutto all’aspetto del dybbuk, che è semplicissimo ma a suo modo geniale. Il demone si vede poco, anzi si intravede poco, ma basta la sua descrizione a suscitare la giusta dose di brividi e, le rare volte in cui appare come una sagoma nell’ombra, riesce a essere particolarmente inquietante. Anche perché ormai ci siamo immedesimati nel povero Yakov: siamo in una situazione senza via d’uscita, e per una volta tanto, il fatto che il protagonista non se la dia a gambe levate è giustificato in maniera impeccabile; siamo da soli, in una vecchia casa piena di ricordi spiacevoli, con un demone che di quei ricordi si nutre e si appiccica al nostro dolore come una sanguisuga. Di più: va rimestare nei nostri, di brutti ricordi, per riportarli a galla e ferirci.
Più che con i trucchetti, anche dozzinali, di casa Blumhouse, The Vigil spaventa a livello concettuale. È, in altre parole, un horror gestito con grande intelligenza, che favorisce la totale immedesimazione e crea, con pochissimi soldi, un’atmosfera tetra e opprimente.
Sarà perché poche cose esercitano su di me il fascino che esercita la cultura ebraica, ma credo che gran parte dell’efficacia di The Vigil risieda nel modo in cui utilizza una struttura che crediamo di aver visto milioni di volte e ce la rivolta contro, cambiando i punti di riferimento sui quali di solito questo tipo di horror soprannaturale si poggia: cambia l’iconografia, appunto, cambiano le armi a disposizione del protagonista, cambia la natura dell’avversario, cambiano le liturgie. Cambia persino la lingua, che è yiddish per buona parte del minutaggio.
Dispiace che abbia avuto la sfiga immane di uscire in sala in piena pandemia, perché avrebbe meritato una visibilità maggiore. Il regista Keith Thomas potrebbe essere una piccola rivelazione e diventare uno dei nomi di punta per gli anni a venire. Staremo a vedere. Intanto, se potete, recuperatelo.
cmq anche il mai nato prende molto dalla cultura ebraica^^
uhm recupero anche questo
OK, me l’hai venduto 😉
Solo una spacciatrice esperta 🤣
[…] sala con l’horror the Vigil. Onestamente non mi ha impressionato – vi invito a leggere Lucia che invece gradì – ma si dimostrò comunque capace di gestire una sceneggiatura con dei […]