Era stato predetto da qualcuno molto più intelligente e preparato di me, ovvero Meagan Navarro, critica di Bloody Disgusting, nonché mio principale punto di riferimento del settore: sta per investirci un’ondata di film a tema lupi mannari, creature che non hanno una grossa fortuna al cinema da parecchi anni, a parte sporadiche apparizioni in saghe quantomeno discutibili, o altrettanto sporadici e ottimi film che però non hanno avuto la forza, da soli, di riportare la licantropia in auge com’è accaduto per un brevissimo periodo nei primi anni ’80. Non so se esista una risposta univoca per questo apparire per un breve lasso di tempo e poi scomparire dei licantropi dalla cultura popolare. Forse, una quarantina d’anni fa, è stato il body horror più astratto a oscurare il loro successo, e da allora non si sono più ripresi del tutto; c’è da dire che il lupo mannaro è un mostro complicato da mettere in scena, ma allo stesso tempo si presta a ogni tipo di metafora basata sul liberare la nostra parte primordiale e ferina; o sulle conseguenze che derivano dal volerla reprimere, quindi può darsi sia solo una questione di inquadrarli in un contesto sociale, il nostro, che si fonda sulla repressione.
Oggi, per celebrare il loro ritorno in grande stile, ci occupiamo di due film, entrambi diretti da donne, che affrontano il tema in maniera un po’ più intima del solito, facendo oltretutto i conti con restrizioni dovute a budget non proprio faraonici.
In un certo senso, si tratta di due film che anticipano l’ondata in dirittura d’arrivo: il primo è stato presentato al Fantastic Fest lo scorso ottobre, il secondo è andato in onda come episodio conclusivo della seconda stagione di Into the Dark nel marzo del 2021. Si tratta, rispettivamente, di Bloodthirsty, opera seconda di Amelia Moses, e di Blood Moon, terza regia della nostra vecchia conoscenza Emma Tammi.
Cominciamo con Bloodthirsty che, dei due, è quello a mio parere meno riuscito (poi magari a voi piace di più e io al solito faccio la figuretta), ma offre degli spunti molto interessanti, anche se non sfruttati a dovere. Uno di quei rari casi in cui il minutaggio sotto l’ora e mezza non è sufficiente a mettere tutto a fuoco, e avrebbe giovato quella decina di minuti in più per arrivare al finale senza andare in debito d’ossigeno. Altro piccolo problema di Bloodthirsty è che, come in molti hanno evidenziato, è quasi una versione meno viscerale di Raw, ma con i licantropi. Racconta di una giovane cantautrice, Grey, preoccupata per il suo secondo album e per una serie di allucinazioni che la vedono trasformarsi in una belva assetata di sangue, cosa molto strana per lei, vegana e incapace di fare del male a una mosca. Il suo psichiatra, Michael Ironside, le prescrive delle pillole, ma lei è convinta che compromettano la sua creatività e la capacità di scrivere canzoni. Un misterioso e famigerato produttore, Vaughn, che vive da recluso da anni, dopo essere stato assolto dall’accusa di omicidio di una ragazza con cui stava lavorando, scrive a Grey dicendole che gli piacerebbe moltissimo produrre il suo prossimo album. Grey, accompagnata dalla sua compagna Charlie, si reca in un villone disperso in mezzo alla neve, nella speranza che la collaborazione con Vaughn la aiuti a superare il proverbiale scoglio dell’opera seconda. C’è ovviamente un collegamento tra le allucinazioni, che allucinazioni non sono, di Grey e il personaggio luciferino del produttore musicale dal passato oscuro, come c’è un collegamento tra Grey e la cantante morta mentre stava incidendo un disco con Vaughn. Il collegamento è, facile facile, la licantropia, intesa sia come liberazione degli istinti primari di una persona, sia come mezzo per esprimere la propria furia creatrice.
Ciò esclude non soltanto Charlie dall’equazione, e infatti le due sono sempre più distanti mentre il film procede e Grey viene gradualmente attirata nell’orbita di Vaughn, ma pone anche il dubbio se Grey potrà ancora, in futuro, far parte del consesso civile.
Il parallelismo messo in campo dalla regista Moses tra creatività e licantropia è interessante ma non del tutto nuovo, soprattutto se non ci si ferma alla trasformazione in lupo ma si allarga la nostra prospettiva alla galleria di mutaforma che popolano il cinema dell’orrore da Cat People in giù.
Ancora più interessante, tuttavia, è il concetto non tanto di scoperta del sé (qui Raw è molto più compiuto e coerente), quanto di un personaggio maschile che decide, per motivazioni che scopriremo verso la fine del film, di plasmare un personaggio femminile a sua immagine, quasi fosse una sua esclusiva proprietà. Il corpo di Grey viene progressivamente spogliato di autonomia (accadeva la stessa cosa a Irena) e imprigionato in questa enorme, ma pur sempre limitata magione gotica, di cui Vaughn è signore e padrone. La presa di coscienza da parte di Grey della sua natura più profonda è quindi pilotata: Grey diventa, nella mani di Vaughn, l’idea che lui ha di una donna forte, liberata, carnefice e non vittima, pronta ad assecondare i suoi istinti.
E se ci fosse, per la nostra giovane mutaforma, una strada diversa, sia da quello che vuole Vaughn, sia da quella che ci anni e anni di film ci hanno insegnato deve essere la fine di Irena e delle sue colleghe?
Dando al film questa chiave di lettura, vanno al loro posto un sacco di pezzi che sembravano non combaciare. Resta sempre un’opera parzialmente irrisolta, ma è coraggiosa nel presentare un’alternativa.
Into the Dark è una serie antologica che fa uscire, puntuale come una cartella esattoriale, un lungometraggio ogni mese. Ogni episodio è, in teoria, legato a una determinata festività che cade nel mese in cui la puntata sbarca su Hulu, ma a volte, come nel caso di cui ci andiamo a occupare, la faccenda è un po’ tirata per i capelli: Blood Moon è infatti dedicato alla luna piena primaverile, ma credo soltanto perché la Festa della Mamma era già stata presa, dalla stessa Emma Tammi poi, nell’episodio di maggio 2020.
Blood Moon parla infatti anche di maternità, e soprattutto sposta il punto di vista della storia del licantropo dal licantropo stesso a chi gli vive accanto.
Esme (Megalyn Echikunwoke) è una giovane donna che vaga per gli Stati Uniti in compagnia del figlioletto Luna; non si ferma mai a lungo da nessuna parte, cerca di vivere il più possibile isolata, facendo lavori saltuari e chiedendo sempre un giorno di ferie a ogni luna piena.
Non è affatto uno spoiler se vi dico che Luna è un piccolo lupo mannaro. Non è spoiler perché nel corso del film non viene giocato come se fosse chissà quale sorpresa, ma lo si dà quasi per scontato, come un dato acquisito: assistiamo alle giornate che precedono la trasformazione di Luna, ai preparativi di Esme per tenere al sicuro non soltanto lui, ma anche il mondo esterno da lui. Gli costruisce una specie di gabbia in cantina, fa scorta di carne cruda (con metodi discutibili) con cui nutrirlo, e sa che, se il lupacchiotto dovesse riuscire a scappare, essere scoperto o fare del male a qualcuno, sarà costretta a ripartire, a trovare un altro luogo dove rifugiarsi. Almeno fino a quando Luna non sarà troppo grande, non si metterà a fare qualche domanda di troppo o, peggio, non sarà più possibile da tenere sotto controllo, e allora Esme dovrà ricorrere ad azioni drastiche.
Into the Dark è, da sempre, una serie dalla qualità molto altalenante, com’è del resto normale per un progetto del genere, prodotto con grande fretta e obbligato a rispettare una tabella di marcia micidiale. Blood Moon è rappresenta tuttavia uno dei picchi del prodotto Blumhouse e, se deve essere (come pare abbiano deciso) il suo ultimo episodio, ha chiuso alla grande.
Blood Moon ha una magnifica atmosfera da western di frontiera, piena di quella quieta disperazione della piccola città arroccata sull’orlo del deserto. In questo, si nota la mano di Tammi che ha proprio esordito con un western-horror nel 2019; è un film dal ritmo dilatato e come tramortito dal caldo, il cui letargo viene interrotto da improvvise esplosioni di panico e violenza.
È interessante perché guarda alla maledizione della licantropia da una prospettiva esterna, quella di chi ha sacrificato la propria vita per proteggere e accudire una creatura non del tutto umana, ed è disposta a tutto pur di preservare quel poco di serenità tra una luna piena e l’altra. Non è proprio adatto a tutti e potrebbe scoraggiare alcuni per la sua, a volte eccessiva, lentezza, ma resta un ottimo esempio di come si possa prendere un mostro del cinema classico e provare a inserirlo in un contesto nuovo, a dargli un significato diverso, più fresco.
Tammi ha le idee chiare, uno sguardo poetico sul paesaggio e la capacità di andare a fondo nell’interiorità dei personaggi usando tante immagini e poche parole. Io spero che, esaurita l’esperienza di Into the Dark, Blum le affidi un lungometraggio vero con cui sbizzarrirsi, e un budget più corposo.
Intanto, dedicate una serata ai lupacchiotti mannari con questi due film imperfetti ma estremamente sentiti, e aspettiamo che ne arrivino altri.
Vado a ululare alla luna. Alla prossima.
Che bello. Li metto in lista.
A proposito di teenage werewolf, pochi giorni fa ho rivisto col mio coinquilino Ginger Snaps (amo i primi due) e ogni volta mi sembra sempre più bello e più cupo (ma anche stratificato). E pensare che c’è stato un periodo della mia giovinezza in cui pensavo al lupo mannaro in modo “romantico”!
Guarda, io di Ginger Snaps amo anche il terzo, che è meno riuscito rispetto agli altri due, ma è pur sempre un ottimo racconto di formazione.
E il mio preferito è il secondo!
Assolutamente: il 3 è ottimo e quando parlo a qualcuno di GS consiglio sempre di vederli tutti. Anche per me il 2 è il più bello (e terribile), ha una atmosfera magnetica (tutti e tre a loro modo) e Ghost… beh… mamma mia!
Molto bello Blood Moon, l’ho trovato piacevole e ben narrato,pieno di dolcezza… negli ultimi anni ho visto un ottimo film a tema licantropi,Late Phases,da rivedere 😊👍
Sì, vero! Late Phases è un ottimo film a tema. Non ricordo perché non ne ho parlato, ai tempi. Dovrò rimediare, prima o poi!
Interessanti entrambi, per via delle prospettive adottate nei confronti della licantropia… prospettive che potrebbero aiutare a garantire un ritorno regolare delle nostre amate ululanti creature su grande schermo, o perlomeno è quello che spero.
P.S. Se avessi Michael Ironside come psichiatra, qualche sospetto che le cose non stiano proprio andando a meraviglia forse mi verrebbe… 😉
Più che altro, se avessi Ironside come psichiatra, credo che non mi azzarderei di contraddirlo ed eseguirei ogni suo ordine senza fiatare 😀
Il secondo mi incuriosisce, lo recupero