Regia – Gerard McMurray (2018)
A scanso di equivoci, lo diciamo subito, così poi non devo spiegarlo 400 volte: The First Purge non è un bel film, come del resto non lo sono mai stati i suoi predecessori, con la timida eccezione del terzo, che pure quello, a definirlo “bello” ci voleva coraggio, ma almeno si attestava entro i limiti della decenza.
Eppure non mi sono mai persa un solo film di questa saga prodotta dalla Blumhouse e dalla Platinum Dunes di Bay, un po’ perché volevo capire se sarebbero mai stati in grado di tirare fuori qualcosa di buono da una premessa tanto assurda quanto, in potenza, interessantissima; un po’ perché ero curiosa di capire quando la serie sarebbe diventata politica.
La prima cosa ancora non è accaduta, la seconda è accaduta in parte con The Purge: Election Year, ma ora lo sceneggiatore (e regista dei primi tre film) DeMonaco ha preso la sua creazione e l’ha buttata apertamente, smaccatamente e anche didascalicamente (così ci giochiamo tutti gli avverbi a disposizione per un articolo) in politica.
Perché, se Election Year rientrava ancora nei ranghi della distopia, pur con tutti i riferimenti alla contemporaneità del caso, The First Purge ci racconta come si edifica una distopia. In estrema sintesi, ci racconta quello che stiamo vivendo tutti i giorni, in parecchie zone del mondo.
L’idea di un popolo che vota in massa i futuri artefici della sua stessa distruzione, perché preda della paura non è nuova, anche perché è troppo reale e concreta per esserlo. Noi ci siamo passati da poco, per esempio, gli Stati Uniti poco meno di un paio di anni fa. Ricordiamo che, nella cronologia ufficiale della saga di The Purge (per quanto sia abbastanza ballerina), Lo Sfogo è stato abolito e il regime dei Nuovi Padri Fondatori è stato smantellato. In fin dei conti, DeMonaco era stato ottimista, aveva basato il suo film sul concetto di un sistema democratico che ha in sé gli anticorpi per far fronte anche alle minacce peggiori.
Il prequel è, per sua stessa natura, un esercizio di pessimismo: sappiamo che, nonostante gli sforzi degli abitanti di Staten Island (luogo prescelto per il primo Sfogo), la notte annuale in cui tutto sarà permesso e a rimetterci saranno al 90% le classi sociali più basse e disagiate, è destinata a diventare una sorta di festività, alla stregua del Ringraziamento; e va bene, avrà una fine, ma al prezzo di una montagna di morti ammazzati per le strade d’America.
Non c’è più tempo o modo per scommettere sull’autodifesa dei meccanismi democratici, sembra voler dire DeMonaco: Election Year coglieva alla perfezione un determinato momento storico; oggi The First Purge è la miglior fotografia, anche se non va mai per il sottile, del cosiddetto spirito dei tempi.
Una formazione populista va al potere promettendo tutto ciò che sa di non poter mantenere e, mentre ha già pronta la scusa di aver ereditato una brutta situazione (“è colpa delle amministrazioni precedenti”, disse qualcuno), si ritrova con una soluzione piovuta dal cielo, anzi, da un ceto intellettuale divenuto zerbino acquiescente del potere: una psicologa, interpretata da Marisa Tomei, propone al governo dei Nuovi Padri Fondatori appena insediato, un esperimento sociale da tenersi in un solo quartiere di una grande città. L’esperimento lo conosciamo bene: rendere legali, per 12 ore, tutti i crimini, anche quelli più violenti come l’omicidio.
Il governo, alle prese con una crisi economica devastante, coglie la palla al balzo e decide di finanziare il test; agli abitanti del quartiere scelto, Staten Island, vengono offerti 5000 dollari per non andarsene durante lo Sfogo, insieme alla promessa che il compenso aumenterà qualora volessero prendervi parte attiva.
Subito si nota che il piano dei Nuovi Padri Fondatori è svuotare il quartiere da chi se lo può permettere e di lasciare a Staten Island solo chi è così disperato da giocarsi la vita per una cifra tutto sommato abbastanza irrisoria.
Che poi, magari quei 5000 neanche dovranno essere consegnati, se il povero disgraziato di turno ti fa il favore di crepare, giusto?
Il problema è proprio che non crepano. E ora, se permettete, mi scateno con gli SPOILER!

E allora il PD?
L’unica idea davvero geniale del film è che la gente comune, quando le dai la possibilità di fare il cazzo che vuole, senza temere le punizioni, non se ne va in giro ad ammazzare, a torturare e a stuprare: rapina un bancomat, saccheggia un negozio, partecipa a una festa.
Per creare la violenza di cui si ha bisogno affinché l’esperimento abbia successo e venga poi introdotto annualmente in ogni parte degli Stati Uniti, la devi fabbricare, questa violenza, devi far intervenire un agente esterno, perché, nonostante le stime che vogliono i cittadini di bassa estrazione sociale più inclini a commettere atti brutali, quelli al massimo fanno scoppiare un paio di petardi.
Se ci pensate, è in controtendenza con molto cinema distopico e apocalittico, che di solito vede l’abbattimento dei freni morali una conseguenza immediata del crollo delle strutture politiche e descrive sempre l’essere umano come teso a far del male al prossimo per sua inclinazione naturale.
E invece, gli abitanti di Staten Island (quasi tutti di colore, quasi tutti poveri) vogliono solo farsi i fatti loro in santa pace, anche durante il primo Sfogo.
Ci devono pensare i Nuovi Padri Fondatori a inviare sul posto squadre d’assalto, tutti mascherati, tutti rigorosamente bianchi sotto le maschere, a far fuori questi recalcitranti proletari. E, quando la psicologa scopre che l’esperimento è truccato, il rappresentante del governo prima le fa un discorso riassumibile in “E allora il PD?” e poi le fa sparare in fronte.
Sono tutti spunti di riflessione, lo abbiamo già detto, molto didascalici, di una semplicità tale da risultare comprensibili anche a un analfabeta, ma io penso sia normale, considerando le serie difficoltà riscontrate dallo spettatore medio (americano come italiano) nel comprendere un testo. Credo che questo ridurre il tutto ai minimi termini sia un’operazione voluta e anche abbastanza ricercata, soprattutto se condotta da Blum e Bay, due personaggi a cui si può muovere ogni tipo di accusa, tranne quella di fare un cinema elitario.
Come horror politico, The First Purge centra abbastanza il suo obiettivo, considerando la linearità a prova di idiota con cui tocca tematiche anche abbastanza delicate. Peccato che Gerard McMurray sia un regista anonimo e quasi del tutto incapace di dare respiro alle sequenze d’azione. Considerando che The Purge è, almeno a partire dal secondo capitolo, per metà horror e per metà action, e che questo film in particolare è, purtroppo, del tutto sbilanciato sul lato action, non è proprio piacevolissimo da guardare.
E tuttavia, almeno fino agli ultimi 20 minuti, in cui diventa una versione black di Commando senza Schwarzenegger, The First Purge ce la mette tutta per avere un senso, tanta buona volontà, tanto cuore, tanta voglia di essere migliore dei film che lo hanno preceduto. Che poi la cosa non gli riesca, vuoi per incapacità nel reparto regia, vuoi per assenza di attori carismatici in ogni ruolo (la coppia Grillo – Mitchell del terzo film si fa rimpiangere spesso), è motivo di grande sconforto da parte mia, perché no, ancora non hanno sfruttato il potenziale immenso del concept della saga, ma non elimina la speranza che, in futuro, questa stramba tipologia di horror politico e di massa allo stesso tempo, possa trovare la sua direzione e sfornare anche qualche bel film, che non guasta mai.
Per il momento, io The First Purge lo proietterei nelle scuole, anche se è un esempio estetico perfetto di come non fare cinema: ha dalla sua la semplicità giusta, la giusta separazione netta e irrevocabile tra buoni e cattivi, che potrebbe fare breccia nella testa di un ragazzino e magari spingerlo a un paio di riflessioni. Non si sa mai.
O forse è solo l’ennesimo, sciocco B movie per decerebrati che infesta le sale estive e lo si carica di significati per stanchezza, disperazione, necessità di non sentirsi troppo soli.
Potrebbe essere.
Io ho sempre apprezzato la tematica di fondo di tutti i The Purge ed ero molto curioso per questo nuovo capitolo appunto perché riusciva a creare una situazione che oggi in tanti stanno vivendo. Mi dispiace solo che ancora non riescano a sfruttare questa bella idea in modo intelligente. Ma nonostante tutto riesco ad apprezzarli.
Da una parte si sa, la serializzazione a lungo andare difficilmente giova alla qualità complessiva di una saga. Dall’altra parte, però, la presenza di una svolta più dichiaratamente politica come questa potrebbe davvero fungere da stimolo anche alla futura realizzazione di un “signor” film con tutti i crismi…
E’ da un po’ che seguo avidamente questo blog, tantissimi complimenti per la capacità di scrivere, la lucidità d’analisi, l’humour, e i gusti cinematografici quasi sovrapponibili ai miei ^_^
Strano per me fare un primo commento su un film tutto sommato di minore interesse nel panorama horror di quest’anno. Però ecco, la parte che culmina in “E allora il PD?” mi ha steso. Pubblicamente. A lavoro. Male malissimo. Però grazie, che mi ci stava.
Grazie! Sono felicissima sia che il blog ti piaccia sia di averti steso 😀
Spero di rileggerti da queste parti!
Non ho ancora visto questo, ma tutti e tre precedenti si, e devo dire che comunque il forte messaggio di denuncia sociale (certo, mascherato da film distopico) è fin troppo evidente, soprattutto nel secondo. Sono curioso di vedere se a livello di “contenuti” questo prequel è degno dei predecessori.
a me questa serie è piaciuta, certo è una storia a parte, sicuramente ci sono film migliori di questo ^_^