Regia – Ted Geoghegan (2017)
Non so se qualcuno di voi ricorda We Are Still Here, il gioiellino di tre anni fa che segnò l’esordio su grande schermo di Geoghegan, regista che pareva sbucato dal nulla e invece aveva già una lunga carriera come produttore (la sua casa di produzione, fondata nel 2007, è responsabile dei due volumi di The ABCs of Death), e non solo negli Stati Uniti, ma nell’undeground estremo tedesco, al fianco di psicopatici come Schnaas e Ittenbach.
Quindi dal nulla proprio non era sbucato ed era anche perfettamente comprensibile l’impennata gore della parte finale di We Are Still Here, non solo una delle ghost story più interessanti del decennio in corso, ma anche una delle più sanguinose, roba da far grondare di colorante rosso le pareti.
Era inevitabile che la seconda prova di Geoghegan fosse abbastanza attesa, da queste parti, soprattutto considerando che, se dovessi stilare oggi la classifica dei migliori horror del 2015, We Are Still Here guadagnerebbe almeno una posizione.
Purtroppo, Geoghegan non è riuscito, non dico a superarsi, ma neppure a eguagliare se stesso.
E questa è una brutta notizia, perché Mohawk è un’opera abbastanza sottotono rispetto al suo predecessore, un film che mi ha lasciata perplessa in più frangenti, vuoi per una sceneggiatura non proprio entusiasmante, vuoi per una recitazione che non è sempre all’altezza, vuoi per degli evidenti problemi di budget.
Mohawk è infatti un film poverissimo, ed è anche un film in costume. Ora, capite da soli che l’accoppiata tra questi due elementi porta di rado a esiti positivi. Tutto appare posticcio, dal trucco ai costumi, mentre l’ambientazione si riduce a un boschetto in cui i nostri personaggi vagano spaesati per tre quarti del minutaggio.
E tuttavia, è un film così ambizioso nel suo voler raccontare l’epopea di un popolo mediante cinque attori e due alberelli, che io mi sento di premiarlo senza riserve, pur riconoscendone ogni singolo limite.
Mohawk si svolge nel 1814, nel corso della guerra che vedeva contrapposti i neonati statunitensi e i britannici. Vista come un semplice teatro minore nel più ampio scenario dei conflitti napoleonici dagli inglesi, per gli americani e i canadesi, quella del 1812-1815, è una guerra a sé stante. Ma lasciamo perdere la lezioncina di storia e veniamo al cuore del film, ovvero i Mohawk a cui deve il suo titolo.
Ci troviamo dunque nello stato di New York, quasi alla fine della guerra, e una tribù di Mohawk deve decidere se rimanere neutrale o allearsi con gli inglesi. Protagonista del film è un singolare terzetto formato dal soldato britannico Joshua e da due Mohawk, Calvin e Okwaho. La prima cosa interessante da segnalare è che Okwaho è interpretata da Kaniehtiio Horn, una vera nativa mohawk; la seconda è che la giovane donna ha una relazione sia con Joshua che con Calvin, ed entrambi gli uomini ne sono consapevoli e pure contenti. Geoghegan non calca troppo la mano, su questo dettaglio, lo fornisce solo per dare spessore ai rapporti tra personaggi, ed è interessante la naturalezza con cui fa passare l’informazione. Okwaho è pure incinta, e non pare interessare a nessuno dei due di chi sia il bambino.
A rompere l’idillio arrivano, ma tu guarda, i soldati americani. O meglio, Joshua vorrebbe che i Mohawk si schierassero con gli inglesi e combattessero al loro fianco; Calvin e Okwaho sono d’accordo e Calvin, per convincere la sua tribù, non trova di meglio da fare che dar fuoco a un intero plotone nel sonno. A quel punto, i sopravvissuti si incazzano e comincia una caccia all’uomo nei boschi, con risultati nefasti per entrambe le parti in gioco. In altre parole, sarà una strage. E, al netto del budget ridicolo, la violenza nel film è molto efficace e realistica, rifugge gli eccessi gore di We Are Still Here, ma non per questo colpisce meno duro, è una spirale di ritorsioni e di vendette incrociate che fa davvero orrore e va anche a sottolineare l’umanità e la bestialità (a seconda) di ogni singolo personaggio. Ovvio che si tenda a simpatizzare più con Okwaho, e che il colonnello statunitense che prende lo sterminio dei Mohawk come una sorta di missione personale sia una specie di demonio in terra; logico pure che Geoghegan non sia equidistante, eppure c’è un profondo senso di pietà per tutti, unita a una altrettanto profonda repulsione per la facilità con cui si degenera nella violenza più belluina.
Insomma, Mohawk ha di sicuro tante cose da dire, e in alcuni frangenti riesce anche a dirle bene. Peccato che venga a mancare il gusto cinematografico dell’esordio, quella calma e quella chiarezza anche nel mettere in scena scoppi di furia improvvisa, quella precisione del racconto che, forse, è andata qui perduta perché girare in un’unica location è cosa ben diversa dall’avere a che fare con gli spazi aperti e doverli gestire. Regna, nel film, una certa confusione, sia nelle scene d’azione che in quelle più semplici di raccordo, con un montaggio che a volte è incomprensibile. Parlo proprio di raccordi sbagliati, o di assenza di essi, che fanno pensare non tanto a degli errori (sarebbe sciocco da parte mia pensarlo) quanto a delle magagne in sede di ripresa rattoppate in post-produzione, cosa che comunemente si fa quando si è stati costretti a girare in fretta e con pochi soldi: “tanto poi ce pensa il montatore”.
Insomma, non è sempre vero che per fare un buon film ci vogliono budget alti e opere come il recentemente recensito The Endless stanno lì a dimostrarlo. Ma se hai in mente un film epico in costume e poi per girarlo disponi di un pacchetto di noccioline, il risultato finale ne risentirà.
Per nostra fortuna, tuttavia, Geoghegan è abbastanza bravo nel dispensare un’inquietudine strisciante e nel suggerire, a un livello quasi subliminale, la presenza di un fattore soprannaturale che abita quei boschi, quasi generato dal sangue versato e assorbito dalla terra; il film dispensa immagini da incubo, in un certo senso, preveggenti e, nella parte finale, svolta con decisione nell’horror puro e in una sorta di incrocio tra Predator e i survival anni ’70- ’80 sul modello di Southern Comfort. Ridotto anche, per forza di cose, il numero dei personaggi al minimo sindacale, anche la messa in scena acquista fluidità, potendosi concentrare su meno cose rispetto a prima, e Mohawk diventa, finalmente, un gran bell’horror. Forse è un po’ pochino per un regista così promettente come Geoghegan, ma a volte bisogna anche accontentarsi e sperare che, in futuro, possa lavorare con le stesse identiche ambizioni, ma budget atti a supportarle.
Sembra carino , per me poi , appassionato di storia militare , ancor più da vedere .
Ma sul serio , tu che sei del mestiere lo saprai bene…, c’è ancora qualcun o che pensa che poi al montaggio si aggiusta tutto? Capisco i film anni 20 e 30 ma oggi….
In Italia succede tutti i giorni. E comunque, 30 anni fa non potevi sistemare tutto al montaggio perché la tecnologia dell’epoca non te lo permetteva. Oggi c’è l’illusione che si possa fare tutto, però sul budget di un film (o di una serie) medio italiano, la percentuale dedicata alla post-produzione è irrisoria e si aggira intorno al 3-4%
We Are Still Here me lo ricordo eccome! E francamente mi dispiace che, a confronto, Mohawk alla fine riesca “solo” ad essere un film passabile (con tutti i limiti da te elencati a far purtroppo da freno alle sue ambizioni)…