
Regia – Brandon Cronenberg (2023)
Quel pretenzioso figlio di suo padre di Cronenberg Jr. torna alla carica, dopo l’ottimo ma forse eccessivamente cerebrale Possessor, con quello che si rivela essere il suo film più accessibile. Se io dovessi, costretta con le spalle al muro, far vedere un film di Brandon Cronenberg a una persona priva di qualsiasi nozione di cinema weird (inteso qui non tanto come genere, ma in senso più esteso), comincerei proprio da Infinity Pool, che almeno si capisce cosa succede. Fino a un certo punto.
Devo ammetterlo: il periodo di stanchezza mentale che sto vivendo da qualche mese a questa parte mi rende davvero difficile affrontare la visione di film impegnativi o percepiti come tali. Poi magari mi guardo i 140 minuti di Decision to Leave senza battere ciglio, ma mi sto scoprendo un po’ allergica a tutto quel filone horror intellettuale, surreale, lento a morire e senza una vera e propria narrativa a supportarlo, che passa per sperimentale. Skinamarink e We’re All Going to the World’s Fair, sto parlando di voi, maledetti delinquenti. Temevo che Infinity Pool facesse parte del mucchio, perché Possessor stava proprio sul crinale che divide il sopportabile dall’irritante, e invece no. Infinity Pool è un film divertentissimo.
James ed Em sono una coppia sposata in vacanza nel paese fittizio di La Tolqa. Alloggiano in un resort estremamente lussuoso, dal quale non escono mai, se non per tour organizzati dallo stesso villaggio. La Tolqa è infatti un luogo molto povero, che pare abbia delle usanze piuttosto barbariche e non ami proprio alla follia i turisti. Un bel giorno, James conosce sulla spiaggia Gabi (Mia Goth, la divina), che lo rimorchia dichiarando di essere una sua lettrice. James è infatti uno scrittore con un solo romanzo all’attivo, che non scrive una riga da sei anni (sì, ricorda qualcuno anche a me, non infierite). Essendo un pavone, con tutto che il suo libro ha pure venduto poco ed è stato stroncato, James lega subito con Gabi e con il marito di lei Alban. Le due coppie decidono di fare una gitarella fuori porta che finisce in tragedia quando James investe un pedone. E da lì in poi il film, mettiamola così, degenera.
Altro non mi va di dirvi, perché Infinity Pool il vero momento shock te lo piazza nella prima mezz’ora e poi passa il resto del tempo ad analizzare le conseguenze morali e materiali del suddetto shock, quindi cercate di andarci al buio. Eviterò eccessivi spoiler, però magari guardate il film prima di leggere. Vi ho avvisati.
Dicevo in testa al post che Infinity Pool è il film più accessibile del giovane Brandon, però attenzione a valutarne l’accessibilità: i suoi tipici vezzi stilistici e narrativi ci sono sempre, c’è sempre la distruzione sistematica dei corpi, c’è sempre una crudeltà distaccata nei confronti dei personaggi, c’è sempre un discorso sull’identità come concetto fragile, malleabile, da mettere in discussione, c’è la sua ferocia nel dare vita a vere e proprie distopie tardo-capitaliste nelle quali i ricchi e i potenti godono di assoluta impunità e di potere altrettanto assoluto sulla vita altrui. Se in Possessor questa impunità si declinava nell’uccidere per interposta persona, qui la faccenda è ancora più destabilizzante, e oltretutto inserita in un contesto, quello del villaggio vacanze dai costi proibitivi all’interno di un paese povero e considerato incivile e lurido, che fa quasi pendere Ifinity Pool dalle parti del folk horror.
Proprio come in un folk horror, infatti, il nostro James si scontra con le usanze locali e ne viene risucchiato. La differenza sta nel fatto che, anche le usanze locali sono una concessione al capitalismo, anche le usanze locali sono strutturate su misura per i ricchi che arrivano a La Tolqa allo scopo di vivere un paio di settimane senza alcun freno inibitorio. Di conseguenza, l’assimilazione alle “old ways” tipica del folk horror a discapito di chi viene da fuori, qui funziona al contrario. Cosa che io trovo deliziosa e decisamente al passo coi tempi.
Il film ha un buon ritmo, soprattutto nella prima parte, poi cala un po’ e dà l’impressione di inciampare sui suoi stessi piedi, ripetendosi, avvitandosi in un delirio psichedelico che, con un paio di sforbiciate, a mio avviso, sarebbe stato più digeribile. Dura quasi due ore e io credo sia un minutaggio eccessivo, soprattutto perché una storia come questa più resta sul vago, meglio è. Tuttavia, Cronenberg è molto bravo a far poggiare il suo film su personaggi odiosi e sopra le righe. La Gabi di Mia Goth su tutti, che ormai non dovrebbe neanche più essere materia di discussione per quanto è perfetta in ogni ruolo che le viene affidato. Solo alla Academy fanno finta di non accorgersene.
L’intero cast è eccellente, ci mancherebbe, con Alexander Skarsgård alle prese con il ruolo più sgradevole di un’intera carriera e i vari personaggi di contorno a dare vita a un mondo a parte, dove ogni atto, anche il più aberrante, è concesso in virtù dello status sociale della mentalità coloniale a esso allegata. Non si tratta di una orgiastica gabbia di matti, ma di gente perfettamente razionale che sa cosa sta facendo. Credo sia un punto importante, la consapevolezza nel compiere il male, la scelta precisa di compierlo, perché definisce quasi ogni personaggio di Infinity Pool e, di conseguenza, non assolve nessuno e lascia lo spettatore a meditare sui concetti di colpa, punizione, giustizia e vendetta, forse anche più che su quello di identità malleabile che costituisce la facciata più evidente del film.
Identità che, in maniera opposta e speculare rispetto a Possessor, dove veniva condivisa all’interno di un unico corpo da due personaggi, qui si frammenta in diversi corpi tutti uguali, fino a non avere più chiara la distinzione tra originale e copia, posto che esista un originale ed esista una copia, posto che tra le due cose ci sia, in effetti, una distinzione. L’idea alla base del film è, in fin dei conti, molto semplice, persino da raccontare, e pure qui ci si distacca di parecchio da Possessor e Antiviral, che avevano degli spunti più bizantini: cosa succederebbe se, a pagare per dei crimini che abbiamo commesso, non fossimo noi, ma dei nostri doppi creati apposta, con i nostri ricordi e la nostra coscienza. Dei doppi nati per morire pochi minuti dopo sul patibolo, sacrificati sull’altare dell’economia basata sul turismo. In un sistema legislativo draconiano com’è quello di La Tolqa, dove esiste la pena di morte per qualsiasi reato, tale privilegio non è ovviamente concesso a chiunque, ma soltanto ai visitatori occidentali. Ora, quando parlo di film accessibile, è soprattutto a questo che mi riferisco: la metafora è così chiara che pure a chiamarla metafora si rischia di farle un torto.
Ma il fatto che qui ogni cosa sia leggermente più didascalica e gridata rispetto al solito, non toglie che si tratti del terzo tassello di un percorso cinematografico molto coerente nel mettere in discussione e sotto i riflettori i paradossi e le storture del sistema capitalista in cui viviamo, le sue gerarchie, i suoi tratti ipocriti, le grottesche giustificazioni che si dà per non mostrarsi come la bestia crudele che di fatto è.
Che sia a proposito di malattie contratte volontariamente dalle celebrità (e pagate a peso d’oro), di oscure multinazionali che si appropriano del tuo corpo e della tua identità e ti usano come burattino per sbarazzarsi di soggetti sgraditi, di ricchissimi turisti alla ricerca di brividi e di un salvacondotto morale per sfogare i loro peggiori istinti, sulla croce ci finisce sempre il moloch capitalista. Se proprio va azzardato un paragone con tra David e Brendon, si può dire che alla fine il bersaglio è identico, ma il primo lo colpiva in maniera più rabbiosa e indiscriminata; il secondo è più preciso, è più (passatemi il termine) chirurgico, forse perché può permettersi un distacco che, soprattutto negli anni ’70, un artista d’avanguardia come Cronenberg padre non aveva.
Magari, che ne so, essendo meno sperimentale, Infinity Pool potrebbe persino arrivare in sala da noi. Mai perdere le speranze.
Stanchezza mentale? Capita, anche per certe visioni…pensa te che talvolta, se non sono nel mood giusto passano anche due anni prima che io veda un certo tipo di film. Per il resto, voglio vederlo al cinema. Lo hai definito accessibile, quello prima sull’orlo del sopportabile pretenzioso, ora mi spulcerò il blog ricercando la tua opinione sulla sua opera prima. Brandon a me suscita una specie di post-grunge body horror canadese ogni volta che lo vedo.
E tu pensa che forse Possessor, quello al limite del sopportabile, è il mio preferito di Brandon.
“Il capitalismo è una pecora che va tosata periodicamente, ma non ammazzata.” Olaf Palme
Dopo l’isola di Mylod nella quale ricchi annoiati sono disposti a spendere migliaia di dollari per spiluccare un’esperienza esclusiva e dopo quella nella quale finiscono spiaggiati i sopravvissuti di Östlund, Cronenberg ci propina la sua. Immaginaria, ma poi mica tanto. Che siano ristoranti Michelin, crociere di lusso o resort a cinque stelle cambia il contenitore ma non il contenuto e che resta il medesimo – ricchi la cui etica si rispecchia con “il peggiore sistema sociale ad eccezione di tutti gli altri.” Se Anya Taylor-Joy si salvava dal suicidio/omicidio di massa del folle chef Ralph Fiennes con una semplice richiesta, lontana dalla pretenziosità degli altri commensali, addentando un gustoso cheeseburger; se nel Triangolo della Tristezza, i ruoli sociali venivano (momentaneamente) ribaltati dall’evento imprevedibile per Cronenberg figlio sembra invece non esserci via d’uscita né possibilità di salvezza. Certamente più vicino a The Menù che Triangle of Sadness sia per la ricerca formale che per una certa dose di cerebralismo se ne distacca comunque perché il tema della spersonalizzazione della persona, l’alienazione e perdita dell’identità (l’altra colonna portante alla critica del capitalismo assieme a quella dello sfruttamento e delle disuguaglianze) è totalizzante. Io, personalmente, la seconda parte ho faticato a reggerla: troppo ripetitiva per quanto originale. Ancora, disturbante.
P.s. A partire dal 2024 l’Academy ha stabilito che per concorrere nella categoria più prestigiosa (Miglior film) la produzione del film dovrà rispettare standard di rappresentazione e inclusione. Con questi chiari di luna e puzza sotto il naso e ipocrisia (infatti sia mai che Parasite, non in lingua inglese, possa vincere più del premio come Miglior film Internazionale) dico che mai vedremo candidati o lungometraggi eccessivamente scomodi (Adam Sandler e il bellissimo Uncut Gems ricorda qualcosa?).
Va beh, però i 140 minuti di decision to leave sono talmente un godimento che quando finisce ne vuoi ancora (madonna, quando usa gli schermi della stanza degli interrogatori per fare campo / controcampo con un carrello laterale)
No, vabbè, ma quello è un capolavoro. non te ne accorgi nemmeno che passano 140 minuti. Che belva.
Bello, disturbante, cattivo. Fastidioso nel modo più giusto. A me è piaciuto molto.
Più accessibile di Possessor, si, ma mi sono trovato in difficoltà al momento di doverlo consigliare ad amici non cinefili. Alla fine ho desistito.