L’estate avanza a grandi falcate, gli horror escono in quantità impressionante e star dietro a tutto è impossibile. Pure volendo o riuscendo a guardare l’intera proposta del cinema horror di questo luglio 2021, dedicare un post a ogni film è una battaglia persa in partenza. Tornano quindi molto comode e utili le nostre amate Pillole, brevi, anzi, fulminei consigli di visione da parte della vostra affezionatissima, per chi di horror non ne ha mai abbastanza. In questo episodio ce ne andremo in Canada e in Polonia, ci aggiorneremo sullo stato della carriera di vecchie conoscenze, andremo a caccia di licantropi e, addirittura, recupereremo un film perduto da quasi mezzo secolo.
Allacciate le cinture e pronti a partire, quindi, che il viaggio sarà lungo e accidentato.
Shudder ha un programma estivo particolarmente ricco, tra produzioni originali e acquisizioni di film che vanno ad ampliare un catalogo sempre più appetitoso e, purtroppo, negato a noi poveri disgraziati, a meno di non sbattersi un po’ tra VPN e carte di credito (e io questo non ve l’ho mai detto).
Tra gli Shudder Original c’è questo piccolo film canadese sbarcato sulla piattaforma giusto pochi giorni fa che mi pare particolarmente adatto ad aprire le danze: Vicious Fun racconta di un critico cinematografico specializzato in horror che, una sera, per tutta una serie di circostanze fortuite, si ritrova in incognito in una sorta di gruppo di supporto per serial killer anonimi. Dopo un maldestro tentativo di mimetizzarsi nell’ambiente, il nostro si fa subito beccare e, in teoria, comincia il divertimento.
In teoria, perché la parte più interessante del film è la prima, quella in cui i vari assassini, tra cui spicca il sempre adorabile Julian Richings, confidano le loro gesta ai colleghi, davanti a un sempre più sconcertato protagonista. Poi Vicious Fun perde un po’ di mordente e pasticcia nella parte centrale, troppo lunga. Si riprende, per nostra fortuna, nei minuti finali e ha un epilogo che potrebbe anche far presagire scenari interessanti per una mini-saga, ma di più non posso dirvi.
Se ancora non vi ha stufato l’ambientazione anni ’80, e se vi fa un gran piacere vedere un critico di quelli caustici e sempre con la battuta pronta prendere un sacco di mazzate e passare 100 minuti a farsela sotto e a vomitare, allora questo è il film che fa per voi. Dirige il veterano dell’horror canadese Cody Calahan.
Werewolves Within è il secondo film di Josh Ruben, che l’anno scorso aveva esordito con il simpaticissimo Scare Me. Quello però era un horror da camera, tutto basato sulla narrazione orale di storie del terrore, questa è una produzione più ambiziosa, tratta dal videogioco omonimo della Ubisoft di qualche anno fa.
Ma pur sempre di commedia si tratta, un whodunit, col licantropo al posto del classico assassino da slasher, che somiglia molto di più a Clue che a L’Ululato, tanto per capire di cosa stiamo parlando.
Nella innevata e sonnolenta cittadina di Beaverfield arriva un nuovo ranger, il pacioso e gentile Finn (Sam Richardson). Gli abitanti del paesuncolo sono divisi a proposito della costruzione di un gasdotto che dovrebbe portare tanti soldi in città, ma anche distruggere gran parte delle bellezze naturali del luogo, nonché radere al suolo l’unica locanda. C’è chi vorrebbe prendersi i soldi del magnate del gas e andarsene, e chi al contrario preferirebbe preservare Beaverfield così com’è. In questa situazione conflittuale arriva un misterioso assassino che comincia a far fuori uno a uno i bravi cittadini. Le ferite sui cadaveri, tuttavia, fanno presagire che l’autore degli omicidi non sia umano, non del tutto. Isolati da una tempesta, alla mercé di una creatura spaventosa, i protagonisti dovranno scoprire chi, tra loro, è il lupo e provare a salvarsi la pelle.
Werewolves Within rientra nella compagine dei film “carini”: come il suo predecessore, fa un sacco di simpatia, ha un cast molto affiatato che spara battute a raffica a ritmi elevatissimi, tanto da rendere necessaria una seconda visione per cogliere tutto. La parte horror funziona meno ed anche più scontata e prevedibile rispetto alla parte comedy, ma si lascia guardare con piacere. Innocuo e fresco come un bicchiere d’acqua.
Una delle poche, ma per questo ancora più preziose, gioie del 2020 è stata rivedere Megan Fox in un ruolo da protagonista; il film era Rogue e ne abbiamo parlato da poco. Il ritorno di Fox sulle scene è confermato da Till Death, un vero e proprio one woman show della nostra amatissima Megan, che interpreta una donna intrappolata in un matrimonio profondamente infelice con uno stronzo col botto. Ma può sempre andare peggio, e infatti, per festeggiare il loro undicesimo anniversario, lo stronzo la porta nella casa sul lago, fa tutto il gentile, addirittura le chiede scusa di trattarla come un trofeo da appendere al muro e, la mattina dopo, si spara, ma non prima di essersi ammanettato a lei, condannandola quindi a morte certa. Il maritino, prima di suicidarsi, ha pensato bene di eliminare tutti gli oggetti taglienti o appuntiti nella casa, di togliere la benzina alla macchina e di rompere la linea telefonica fissa e i cellulari. La povera Emma (questo il nome del personaggio di Megan) si ritrova quindi isolata, in pieno inverno, con un cadavere legato al polso e quasi nessuna possibilità di fuga.
Ma può sempre andare peggio.
E infatti lo stronzo ha anche preparato un altro scherzetto postumo.
Il film, che comincia come una riedizione più bastarda e crudele de Il Gioco di Gerald, si trasforma così in un home invasion con Megan impegnata a difendersi e a offendere per salvarsi.
C’è qualcosa di profondamente liberatorio, quasi terapeutico, nell’assistere a Megan Fox che ferisce degli uomini. E il film, a parte queste considerazioni di natura vendicativa, funziona anche molto bene. Si tiene cauto sotto i novanta minuti di durata, titoli di coda compresi, non annoia neppure un istante e, al netto di una premessa un po’ troppo macchinosa, risulta sempre molto plausibile. Soprattutto, il regista S.K. Dale ha fatto un monumento a Megan Fox, e noi non lo ringrazieremo mai abbastanza per questo.
E ora che vi siete messi comodi, siete pronti per un po’ di caos puro che arriva dritto dalla Polonia? All My Friends Are Dead è l’esordio di un regista nato nel 1992. Sì, non ha neanche 30 anni il giovane e impavido Jan Belcl, eppure con i soldi di Netflix gira questa follia scriteriata e priva di qualunque vergogna che, credo, vi lascerà storditi e innamorati come è successo a me.
Approfittando dell’assenza dei genitori, un ragazzo organizza una festa di capodanno invitando tutti i suoi amici. Basta una pistola trovata per caso in un cassetto per scatenare una baraonda di omicidi, botte da orbi, sesso sfrenato e delirio alcolico da annali del cinema di ogni genere e latitudine.
All My Friends Are Dead potrà sembrare un film sciocco o addirittura “trash”, ma chi si limita a liquidarlo in questo modo non ha capito che si tratta, in realtà, di una parabola esistenziale in forma di farsa su come il caso sia l’unico fattore in grado di determinare la direzione delle nostre vite. In altre parole, è un film sulla mancanza di controllo o sull’illusione del controllo. È quasi un dramma generazionale, mi verrebbe da dire, su quanto sia difficile esistere in un mondo che sfugge ogni istante alla nostra comprensione. Poi sì, è volgare, è osceno ed è spietato, ma proprio per questa sua natura di gigantesca provocazione, ove i pochi personaggi adulti sono anche più sgradevoli e inaffidabili delle loro controparti giovani, si rivela molto efficace e arriva dritto al cuore e allo stomaco dello spettatore. Da vedere senza scuse.
L’incubo peggiore di tutti, il film più spaventoso, l’orrore vero, ce lo siamo tenuto per ultimo: è un film del 1973 che è stato recuperato dall’oblio, restaurato e distribuito solo adesso; è un film di Romero, dura meno di un’ora e si intitola The Amusement Park.
Come tutti voi dovreste sapere, Romero, dal grande successo de La Notte dei Morti Viventi, non aveva guadagnato una lira. I suoi due film successivi, La Stagione della Strega e La Città Verrà Distrutta all’Alba, erano stati accolti con freddezza dal pubblico, quindi il regista si ritrova povero in canna e con un disperato bisogno di lavorare. Accetta quindi di dirigere, per la Lutheran Service Society of Western Pennsylvania, un film educativo che trattasse di abuso sugli anziani.
Pare che il committente abbia visto il film finito e sia fuggito urlando. The Amusement Park è stato considerato perduto fino al 2017, quando ne è stata ritrovata una copia in 16mm, proiettata per la prima volta a Pittsburgh nel 2019 e poi rilevata dalla solita Shudder.
Trattasi di 54 minuti difficilmente sostenibili, tanto che io ho dovuto guardare il film a rate, nonostante la durata molto breve. Invecchiare spaventa tutti, e a tutti toccherà invecchiare, quindi non credo esista una tematica più universale e, allo stesso tempo, rimossa di questa.
La storia di un anziano e distinto signore che entra nel parco dei divertimenti e ne esce a brandelli, nel corpo e nello spirito, colpisce con una violenza allucinante, è una parabola dolorosa, è peggio del peggiore incubo possiate mai avere. Si capisce perché chi ha commissionato il film abbia deciso di non farlo mai uscire, ma è allo stesso tempo impressionante come quest’opera perduta degli anni ’70 si adatti alla perfezione alla realtà di oggi, soprattutto all’odierno capitalismo. Io non so se consigliarvelo, questo film, perché morde e vi farà male, a meno che non abbiate la sensibilità di uno sciame di cavallette. Posso solo dirvi di guardarlo a vostro rischio e pericolo, e di non prendervela con me se poi avete solo voglia di morire.
Grazie per le pillole estive, una brezza fresca in questi giorni di calura soffocante.
Li ho visti tutti tranne Werewolves Within, che mi ispira, e mi sono piaciuti tutti tranne All My Friends Are Dead (per via della mia connaturata antipatia nei confronti di tarantinismi e post-tarantinismi vari, probabilmente).Lo pseudo documentario di Romero è un macigno, il suo stile inconfondibile e il coraggio nell’affrontare certi temi senza cintura di sicurezza rendono The Amusement Park un must per i fan (ma esiste qualcuno che possa non dirsi fan di Romero? Provo pena per tali sventurati…).
Mi chiedevo: ancora non hai visto Ten Minutes to Midnight e Gaia oppure li hai visti e non ti sono piaciuti?
The Amusement Park è davvero una mazzata devastante. Ma soltanto Romero poteva fare una cosa del genere quasi mezzo secolo fa. È ancora attualissima, forse è pure più attuale ora di quanto non lo fosse nel ’73. Forse Romero era un profeta.
Non ho visto né l’uno né l’altro, ancora.
Stanno uscendo a raffica e non ce la faccio a stare dietro a tutto, ma piano piano recupero ogni cosa!
Io per il momento ho già visto solo The Amusement Park: ovvero, come essere presi a martellate (nemmeno poi troppo metaforicamente) per 54 minuti consecutivi… Romero sapeva vedere lontano, come spietatamente dimostra questo suo film invecchiato (termine voluto, considerato il soggetto) anche fin troppo bene.
“All my friends are dead” è un fottuto capolavoro ♥