
Regia – James Mangold (2003)
Quando l’ho trovato sul Prime non volevo crederci. Era anche ben nascosto, perché non lo hanno inserito tra gli horror, quindi mi è davvero capito di accorgermi della sua presenza per caso. Me lo sono trovato davanti in tutto il suo splendore e, per una volta tanto, con la possibilità di usufruire di lingua originale e sottotitoli. E che fai, non te lo rivedi? Ma certo che te lo rivedi, più di una volta, se necessario, perché Identity è uno dei migliori, e più scaltri, thriller-horror dell’inizio del secolo, spesso e purtroppo confuso con quel filone, molto di moda all’epoca, del film basato quasi esclusivamente sul suo colpo di scena finale. Il famoso Shyamalan Twist, per capire bene di cosa parliamo, nonostante il povero Shyamalan c’entrasse poco.
Sì, Identity è una scatola cinese di colpi di scena, tanto che a una prima visione se ne esce quasi frastornati, ma credo che si faccia presto a capire se un film con un meccanismo simile possiede altre qualità oltre a quella di lasciarti a bocca aperta: basta rivederlo una seconda volta e accorgersi dell’effetto che ci fa.
Io credo che Identity funzioni ancora meglio a una seconda visione, che non perda nulla se lo spettatore sa già come andrà a finire, ma al contrario, ci guadagni qualcosa.
Identity è una rielaborazione di 10 Piccoli Indiani filtrata attraverso il thriller psicologico e lo slasher. Considerando che il romanzo di Christie è uno degli antesignani del filone, l’appartenenza parziale di Identity allo slasher è l’ultima cosa di cui dobbiamo preoccuparci: è naturale, anche se abbastanza raro, nel senso che non ricordo un adattamento di And Then There None che avesse a che fare con lo slasher quanto questo; e tuttavia il perno del film non è affatto la parentela con lo slasher, ma il collegamento che si viene a creare tra l’incontro di 10 sconosciuti, tutti finiti in un motel in Nevada per circostanze fortuite, e la revisione di un processo per omicidio ai danni di un individuo profondamente squilibrato, con i suoi avvocati che premono per dargli l’infermità mentale appena 24 ore prima della sua esecuzione.
C’è quindi un terzo elemento, o meglio in terzo tassello del gioco con i generi cinematografici operato da Mangold in Identiy, da prendere in considerazione: il film sui serial killer e, presi in un blocco unico per amor di sintesi, i vari procedural che macinavano quattrini a profusione soprattutto tra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei 2000. Sulla scia, tanto per cambiare, di Seven.
Abbiamo quindi un film che è in parte classico whodunit, in parte slasher, e in parte poliziesco procedurale con tanto di avvocati e giudici che discutono del destino di una persona.
Ma Identity non è nessuna di queste tre cose. È una terza bestia, molto più rara e stramba, un horror come lo sarebbe stato, molti anni dopo, Split (e torniamo su Shyamalan) ma che, a differenza del suo epigono, non gioca a carte scoperte. O forse sì?
Questo si capisce quando il film lo si rivede e si notano dei dettagli sfuggiti in precedenza: Mangold, in realtà, fornisce allo spettatore tutti gli strumenti per comprendere dove sta andando a parare, ma sono talmente ben celati dietro a una progressione narrativa tesa e incalzante, che si è troppo presi dalla successione degli eventi per porsi domande.
Anche perché, quasi tutto ciò che accade nel film, almeno fino all’ultima mezz’ora, è plausibile.
C’è un brutto temporale, le strade sono chiuse, 10 persone, i cui destini si incrociano in maniera rocambolesca ma niente affatto improbabile, sono costrette a rifugiarsi in un motel aspettando che la pioggia cessi e che ci si possa rimettere in viaggio; ognuno di loro ha i suoi motivi per trovarsi lì, alcuni nascondono qualcosa, altri stanno scappando da qualcosa, altri ancora sono soltanto di passaggio, ma tutti hanno qualcosa in comune, che si scoprirà col passare del tempo. E questa è la prima linea narrativa.
La seconda è quella della revisione del processo all’assassino Malcom Rivers, inserita nel troncone principale ambientato al motel in maniera all’apparenza un po’ forzata, perché non è chiaro se si svolga contemporaneamente, se sia un flashback o un flashforward. Ciò che qui mi preme sottolineare è la coerenza con cui, nonostante noi spettatori ne siamo tenuti all’oscuro, le due linee finiscono per convergere nel finale.
È una tecnica che, soltanto un anno dopo, Wan e Whannel avrebbero ripreso pari pari nel primo Saw, e sarebbe diventata la principale cifra dell’intera saga: una sequenza che rimette insieme tutti i pezzi del puzzle sparsi in giro lungo l’intero corso del film. Ma la precisione da orologio svizzero di Identity, il povero Jigsaw la può soltanto sognare.
Come vedete, sto cercando di rivelare il meno possibile del film per chi avesse vissuto su Marte negli ultimi 18 anni e non lo avesse mai visto, perché non voglio rovinare a nessuno il gusto della sorpresa: la parte finale di Identity è infatti fonte di enorme soddisfazione quando lo si vede per la prima volta; si sistema tutto in un colpo solo, è come quando ci riesce un rompicapo particolarmente difficile e il nostro cervello in tensione si rilassa.
Quando si rivede il film, tuttavia, la parte più soddisfacente è la prima, quella in cui i personaggi si presentano uno a uno, e a conoscenza già acquisita del loro ruolo nell’economia della storia, ci si rende conto, da piccoli gesti, sguardi, atteggiamenti, che le risposte sono già tutte lì, pronte all’uso e basta soltanto coglierle. Se non fosse che Mangol, giustamente, ci depista dandoci in pasto dei conflitti e delle costruzioni caratteriali fittizie, consapevole del fatto che la nostra mente di spettatori è stata impostata su certi schemi e su quelli è rimasta seduta.
Da un punto di vista strettamente tecnico, Indentity ha una messa in scena molto classica e semplice, se vogliamo, com’è del resto tipico di Mangold, uno a cui non è mai piaciuto strafare, ma si è sempre limitato a raccontare molto bene delle storie. È ovvio che, invece, un film a incastro come questo abbia bisogno di un montaggio da virtuoso. A dare corpo e ritmo alla narrazione troviamo David Brenner, non di certo l’ultimo arrivato, ma che in carriera (e scorrendo la sua filmografia purtroppo lo si nota), dopo questa esperienza non ha più avuto occasioni di essere davvero efficace o determinante ai fini del racconto. D’altronde, quando diventi, per sventura o scelta, il montatore di fiducia di Snyder, il montaggio diventa una sorta di supporto alle parafilie dello stile del regista.
Al di là di queste considerazioni, Identity è un film che vive di montaggio, di scansioni, dell’esatto momento in cui staccare per non rivelare troppo o rivelare quel tanto che basta; è montaggio l’alternanza tra le due linee narrative, montaggio l’inserimento dei flashback, montaggio la “spiegazione” finale.
Forse è anche per questo che in gioventù Identità è uno dei film che ho rivisto più volte.
Il cast è un interessante assortimento di “facce da primi 2000”, con ben due mie cotte adolescenziali in prima linea: Amanda Peet e Clea DuVall. C’è il prezzemolino John Cusack, che ai tempi lavorava tantissimo e te lo ritrovavi ovunque, c’è Ray Liotta in uno dei suoi soliti ruoli da stronzo ambiguo, e per pochi minuti c’è persino Rebecca de Mornay, che interpreta un’attrice in una fase calante della propria carriera e inaugura il body count.
Guardatelo se non l’avete mai visto, riguardatelo se ve lo ricordate poco. Dopotutto sono passati quasi vent’anni e ho come l’impressione che il cinema della prima parte di questo XXI secolo sia un po’ caduto nel dimenticatoio, quando ci sono tanti ottimi film da riscoprire.
Sempre grazie a Prime e al suo catalogo fornitissimo. Se solo non nascondessero in reconditi sgabuzzini i film migliori…
mamma mia cosa hai ripescato! mi è venuto in mente giusto l’altro giorno, pensando: “sarebbe ora di rivederlo” 😀 inutile dire che dopo averti letto mi accingo a fare proprio questo 😀
Sto cercando di vedere molti film del periodo 2000-2010, e ho in mente una cosa da fare a settembre che dovrebbe suscitare qualche polemicuccia, ma non mi preoccupo. Per ora vedo cosa hanno su Prime e in caso ve ne parlo qui. 🙂
Hai citato Split ed è giusto ma, personalmente, credo che anche nell’ultimo e definitivo film di Zio John (parlo di The Ward, ovviamente) ci si possa ritrovare qualcosina del capolavoro di Mangold (giusto qualcosina, eh)… 😉
Lo ammetto, ho vissuto su Marte negli ultimi 18 anni 🙂 ma rimedio subito, grazie ancora per il suggerimento.
Bellissimo ripescaggio. Me lo sono rivisto due volte per stare dietro a tutti gli indizi, e alla fine qualcosina non mi torna, ma non stiamo a fare la punta ai cetrioli. Tre quarti di capolavoro, e grazie per averlo ricordato.
Cercherò altri thriller dei primi 2000 su Prime per questa rubrica: credo ci siano parecchie perle ben nascoste!
Io sul prime ho trovato molto gradevole The voices, che non conoscevo assolutamente.. Qualche difetto, ma quel gatto merita il ripescaggio secondo me!
Quello l’ho recensito quando è uscito!
Ok, grazie per la dritta, vado recuperarmi la recensione!