Regia – Gerard Bush, Christopher Renz (2020)
A grande richiesta (mia) riparte la rubrica “film che piacciono solo a me”, edizione autunno 2020. Antebellum è l’esordio nel lungometraggio di due registi che lavorano in coppia da sempre e, fino a ora, hanno realizzato parecchi corti, documentari e videoclip. Si tratta di un film molto ambizioso che, non si sa bene per quale motivo, è stato presentato come un horror soprannaturale, rischiando così di alienarsi subito quella fetta di pubblico che da un certo genere si aspetta determinate cose. Guardando il trailer, molti, tra cui la sottoscritta, hanno pensato che fosse una specie di adattamento non dichiarato di Kindred, di Octavia Butler, e in effetti i primi due atti del film potrebbero far cadere lo spettatore in un equivoco simile. In realtà, Antebellum è una strana bestia che, se proprio devo fare un paragone con qualcos’altro, mi ha ricordato The Nigthingale, non per la struttura o la trama in sé, quanto per una rappresentazione della violenza estremamente cruda, e per un discorso sulle fondamenta storiche di una nazione che parte da premesse analoghe.
C’è da dire che Bush e Renz non hanno la stessa precisione chirurgica di Kent, e credo non condividano neppure la stessa rabbia, per cui Antebellum è un film molto più estetizzante e meno rigoroso del capolavoro australiano, e quindi capisco le critiche di chi ci ha visto un bieco sfruttamento delle sofferenze degli afroamericani allo scopo di fare della mera exploitation. È quindi un’opera da prendere con le molle, e di cui non è possibile parlare in maniera approfondita senza fare SPOILER grossi come case. Continuate dunque a leggere a vostro rischio e pericolo, anche se non sono convinta che, nelle intenzioni degli autori, la parte finale volesse essere chissà quale sconvolgente colpo di scena.
Antebellum comincia in una piantagione gestita da soldati confederati, nel bel mezzo della guerra civile. C’è stato da poco un tentativo di fuga da parte di alcuni schiavi, tra cui la nostra protagonista (Janelle Monáe) , che in questa porzione della storia viene chiamata Eden dai suoi aguzzini, e noi assistiamo, in un magnifico piano sequenza privo di dialoghi, alle ritorsioni dei bianchi nei loro confronti. Vi avviso subito che, al netto delle ottime soluzioni visive proposte dai due registi, non è affatto un bel vedere, e qui forse potrebbero sorgere i primi dubbi sull’opportunità di rappresentare una tale esplosione di violenza in maniera così pulita, quasi ci fosse del compiacimento da parte degli autori. Leggendo interviste in giro, dato che detesto i processi alle intenzioni, credo si tratti soltanto di voglia di strafare da opera prima e, in un certo senso, l’obiettivo è raggiunto, perché alcuni movimenti di macchina mi hanno lasciata con la mascella slogata a forza di tenere la bocca aperta, quindi bravi entrambi. Magari la prossima volta cerchiamo di non abusare di ralenty enfatici e portiamo questi orrori sullo schermo per ciò che sono, grazie.
Si prosegue con bozzetti di vita quotidiana all’interno della piantagione, e subito ci si rende conto che qualcosa non torna, perché non sembra che i personaggi agiscano e parlino come uomini e donne del XIX secolo, ma come attori che stiano recitando una parte, come maschere di una pantomima. Quando poi vediamo i soldati confederati che marciano di notte pronunciando slogan nazisti, entriamo in piena zona Ai Confini della Realtà
Il senso di spaesamento si ingigantisce quando uno stacco di montaggio ci trasporta nel XXI secolo, ed Eden, che qui porta il suo vero nome, Veronica, è un’autrice di successo e attivista politica, pronta a partire per una conferenza in Louisiana, per il tour promozionale del suo nuovo libro. Nonostante il povero spettatore non capisca nulla di quello che sta accadendo, questo segmento centrale del film è molto interessante, perché ci mostra tutte le micro-aggressioni che una persona di colore subisce nella vita di tutti i giorni: dalla receptionist che finge di non ascoltarla, al tavolo del ristorante dove va a mangiare con le sue amiche che viene posizionato in una zona buia e poco visibile del locale, fino ad arrivare al personale dell’albergo che non pulisce la sua stanza, Veronica, che è comunque una donna realizzata e di successo, si muove all’interno di un ambiente dove ogni elemento sembra essere lì per ricordarle la sua posizione marginale, la sua appartenenza a una minoranza oppressa.
E poi si arriva all’atto conclusivo del film, dove torniamo alla piantagione, ma questa volta sappiamo cosa lega il “passato” e il presente, e io credo che chiunque sia dotato di quel minimo di empatia in dotazione a un essere umano non sociopatico, dovrebbe rabbrividire, non soltanto di indignazione, ma di terrore puro.
“The past is never dead. Is not even past.”
Con questa citazione da Faulkner si apre il film, e ci sarebbe da dire che, se non altro, i due registi e sceneggiatori giocano sin da subito a carte scoperte: la soluzione al rompicapo proposto da Antebellum si trova già nella frase che precede i titoli di testa. E non proprio di rompicapo si tratta: Antebellum è un film sulla nostalgia e sui suoi effetti deleteri, un film dove viene fatto vedere all’attonito spettatore ciò che accade quando lo sguardo acritico e benevolo sul passato arriva alle sue conseguenze più estreme. Ti prende per i capelli e ti sbatte il muso sul reale significato di quelle apparentemente innocue rievocazioni di battaglie storiche della guerra civile o, nel nostro piccolo, della sciocca fascinazione per l’estetica fascista. Più che Kindred di Butler, è Furland di Avoledo. Non a caso, comincia in una piantagione e termina davanti a una statua del generale Lee, tanto per creare una connessione vivida e lancinante con avvenimenti a noi molto vicini, e poco compresi dai soliti difensori dei cimeli storici.
Ed è così potente, nel raccontarci di questi bianchi ricchi che, spinti non soltanto dalla noia, ma soprattutto da un sentimento di rivalsa perché i “bei vecchi tempi” sono tramontati, mettono in scena la vita in una piantagione come se fosse reale, ma con veri schiavi, vere frustate, vere torture, veri stupri e omicidi, che alla fine qualche eccesso nella messa in scena e un po’ di lungaggini nella parte centrale gliele perdoni, perché è una lezione troppo importante, e se non la si comprende a botte di spiegazioni e razionalizzazioni, allora è meglio usare il linguaggio semplice, diretto, puramente emotivo del cinema di genere.
Però dovete essere pronti, non soltanto ad alcune sequenze che potrebbero farvi star male, ma a mettere in discussione voi stessi e il vostro rapporto col passato, altrimenti il lavoro del film è del tutto inutile. Dovete essere pronti a mettervi nei panni di chi, da questo passato, ha ricevuto solo schiaffoni e non riesce, anzi, non può e non deve, accettare la sua idealizzazione da parte di un gruppo di privilegiati. Perché dall’idealizzazione del passato ai morti ammazzati, la strada è breve, è un battito di ciglia, e spesso non ce ne rendiamo neanche conto, proprio perché noi, i nostri nonni e i nostri antenati non abbiamo dovuto subire certi trattamenti, e perché non riusciamo a concepire che alcune ferite siano ancora aperte: nessuno si è mai disturbato a tentare di guarirle.
Ecco, se siete disposti ad affrontare Antebellum con questo tipo di sguardo, potreste davvero imparare tante cose. Altrimenti lasciate perdere e rivedetevi Via col Vento.
Avevo visto il trailer tempo fa e devo dire che mi aveva intrigato molto. Nelle ultime settimane ho letto pareri contrastanti, quindi aspettavo di leggere la tua opinione per decidere se recuperarlo o meno… e direi che mi hai convinto!
In realtà è un film che apprezzo molto e che affrontava tematiche a me care. Ha i suoi difetti, ma difetti tipici di chi esordisce alla regia e vuole mostrare a tutti di cosa è capace, ma è un bel film che riesce a interessare lo spettatore dall’inizio alla fine.
Molto interessante, recupero
Ciao. E’ la prima volta che scrivo. Sono sostanzialmente d’accordo con la tua analisi. A me il film è piaciuto molto e devo dire che (a differenza di Hunters con la questione della violenza nei lager) trovo assolutamente esagerate le critiche sul presunto atteggiamento estetizzante sullo schiavismo da parte dei registi. Una critica che invece muovo al film, per rispondere anche al tuo interrogativo “non si sa bene per quale motivo, è stato presentato come un horror soprannaturale”, è che questo inghippo in realtà è proprio dovuto ai due registi. Non si capisce infatti, a mio avviso, cosa c’entri la l’apparizione inquietante della bambina esangue e agghindata in veste ottocentesca che, in un mix tra le bimbe di Shining e quelli di The Others, sale sull’ascensore con la protagonista guardandola fissa e facendole segno di stare in silenzio. Questa scena, opportunamente magnificata nel trailer, non credo rientri nelle tecniche di rapimento dei suprematisti della piantagione, ma è proprio un goffo espediente registico per sviare lo spettatore verso l’ horror soprannaturale prima che lo squillo del cellulare del capo sudista sveli definitivamente la situazione.