Una delle autrici contemporanee di thriller (anche se la definizione le sta parecchio stretta) più importanti è Gillian Flynn; con appena tre romanzi e una novella (che, se la comprate in inglese vi costa, in formato kindle, 1.99; ma se la volete leggere in italiano, sempre formato kindle, il prezzo sale magicamente a 8 euro per una sessantina di pagine) all’attivo, Flynn è già stata saccheggiata dal grande schermo che ha adattato Dark Places e Gone Girl. Senza che io stia a mettervi i link, trovate le recensioni di entrambi i film qui sul blog. Ora al saccheggio si aggiunge anche il piccolo schermo con questa mini-serie di otto episodi tratta dal suo romanzo d’esordio, Sharp Objects (in italiano, Sulla Pelle), uscito nel 2006.
La serie è una produzione HBO, diretta da Jean-Marc Vallée, che l’anno scorso aveva già curato la regia di un’operazione parzialmente simile, quella di Little Big Lies. Solo che, nel caso di Sharp Objects, dietro a tutto il progetto, sin dal lontano 2008, c’è un nostro vecchio amico: Jason Blum.
All’inizio, infatti, Sharp Objects doveva essere un lungometraggio ed era finito nel limbo per diversi anni; poi Marti Noxon ha proposto a Blum di farne una mini-serie, la HBO è entrata in gioco portandosi dietro Vallée, e oggi ci possiamo godere la più bella serie del 2018. Grazie, Jason.
Sharp Objects, il romanzo, è un southern gothic (midwestern gothic è geograficamente più appropriato, ma siamo in Missouri, quindi abbastanza al limite) a tutti gli effetti: non fatevi ingannare dalla trama pseudo-investigativa, perché le indagini sono l’ultima delle preoccupazioni di Gillian Flynn; nella vicenda di Camille (Amy Adams) che, inviata dal direttore del giornale per cui lavora nella sua città natale, Wind Gap, per scrivere una serie di articoli su un misterioso assassino responsabile della morte di due ragazzine, ciò che è davvero fondamentale è tutto ciò che a questo nodo narrativo all’apparenza principale fa da contorno.
Per questo temevo un po’ la trasposizione, perché è facile, soprattutto quando si parla di tv, trasformare un libro intenso e profondo in un thriller da supermercato. Vallée non è un regista che mi fa impazzire, anche se ha fatto un ottimo lavoro con Little Big Lies, all’apparenza una storia di pettegolezzi tra ricche casalinghe californiane, e in realtà un noir con un’anima cupissima. Gli va quindi dato atto di saper estrarre il nucleo fondamentale da ciò che mette in scena.
E infatti, Sharp Objects, la serie, è molto fedele al materiale di riferimento, un po’ perché c’è la presenza di Flynn alla produzione, un po’ perché Noxon, Vallée e gli sceneggiatori sono riusciti a comprendere il testo e ad adattarlo al linguaggi televisivo con dei cambiamenti necessari, derivanti in parte dalla natura seriale dell’opera, in parte dal fatto che alcune cose funzionano poco su carta e hanno bisogno di essere tradotte in immagini, come per esempio il finale, cambiato nella forma ma non nella sostanza.
Sharp Objects riesce a rendere l’introspezione estrema del romanzo con metodi e tecniche del tutto visive. Può sembrare che proceda con tempi elefantiaci per arrivare alla soluzione del caso e che perda tantissimo tempo a sottolineare il contesto. Ma quello che viene erroneamente definito contesto è in realtà la storia: Wind Gap e i suoi abitanti sono Sharp Objects; l’atmosfera umida, appiccicosa, decadente ai limiti della putrefazione della cittadina è personaggio tanto quanto lo sono Camille, sua madre Adora e la sua sorellastra Amma; le frequenti digressioni nel passato di Camille, con la narrazione sofferta del suo ricovero per autolesionismo, sono anche più importanti di chi abbia ucciso le due ragazze; persino la musica (sempre diegetica: la serie non ha una colonna sonora) è un carattere a sé stante e, come tante pennellate volte alla rivelazione di un affresco, tutti questi elementi messi insieme formano un corpo unico che è insieme di enorme bellezza e di allucinante orrore.
Insisto sullo sfasamento che esiste in Sharp Objects tra la trama pura e semplice e la sostanza, perché sembra quasi (così come era Gone Girl) uno specchietto per le allodole: giovane giornalista dal passato oscuro torna nel suo paese natale per indagare su dei terribili omicidi, facendo anche i conti con la sua infanzia. Potrebbe essere la sinossi di un romanzaccio di serie B da leggere sotto l’ombrellone; e invece Flynn (e di conseguenza la serie) si appoggia a questi luoghi comuni per sfatarli uno dietro l’altro e creare un microcosmo quasi alieno, isolato dal resto del mondo, una casa delle bambole affogata nella melassa e cristallizzata in un tempo fatto di giorni tutti uguali, di ritualità che si perpetuano nel tempo. Questa è Wind Gap e, dentro il paesino, la casa della madre di Camille, dimora gotica come poche se ne sono viste di recente nella tv e al cinema; una casa che avrebbe suscitato l’approvazione di Shirley Jackson, abitata da personaggi che non sfigurerebbero affatto in uno dei suoi romanzi.
In questo mondo fuori dal mondo, arriva (anzi, torna) Camille, l’estranea, quella che se ne è andata, e torna irriducibilmente diversa dalle altre donne di Wind Gap; una diversità che è certo interiore, ma viene resa evidente agli occhi dello spettatore dall’abbigliamento della protagonista, obbligata a portare maglione e pantaloni lunghi in un’estate rovente, mentre intorno a lei tutte indossano vestitini leggeri che lasciano scoperta la pelle. Camille non può, la sua pelle è segnata, quasi ogni centimetro è percorso da sfregi autoinflitti: parole che sono anche i titoli dei vari episodi e che raccontano un percorso di esclusione, affetti mancati, lutti, violenze subite, tutto al di fuori di quel gigantesco ombrello protettivo rappresentato da Adora (Patricia Clarkson nel ruolo della vita), che infatti rifiuta, non ama, non riesce a contenere la figlia maggiore, nata non si sa in quali circostanze. Una delle sequenze più raggelanti di tutta la serie è quella in cui Adora confessa candidamente a Camille di non averla mai amata. Forse perché non è mai stata in grado di proteggerla, come invece ha fatto con la defunta Marian e come sta facendo con la giovane Amma.
Wind Gap, una piccola città dominata dagli uomini e dal pensiero e sentire maschile, il cui elemento più in vista è però una donna, Adora, la proprietaria del mattatoio di maiali su cui regge l’economia cittadina; Adora con la sua villa dove ospita la festa del paese, con tanto di rievocazione e messa in scena di uno stupro dei confederati ai danni di una compaesana (interpretata, per la recita annuale, proprio da Amma); Adora, che decide grazie a una fitta rete di pettegolezzi, mezze frasi, sussurri e dicerie, chi è il colpevole degli omicidi e che rifiuta Camille quasi fosse lei a portare l’orrore a Wind Gap, o quasi la sola idea di registrare e documentare l’orrore fosse sacrilega.
Eppure nessuno, né lo sceriffo né l’agente dell’FBI arrivato da Kansas City per indagare sul caso, ha il minimo dubbio che a commettere gli omicidi sia un uomo. Sottovalutate nel bene e nel male, le donne e le ragazze di Wind Gap conducono una vita sotterranea e reagiscono con diffidenza, quando non con aperta ostilità, alla sfacciataggine di Camille di mostrarsi alla luce del sole.
Sharp Objects è gotico nella sua essenza più profonda e ha persino dei momenti in cui pare sconfinare nel soprannaturale, perché ogni piccolo paese ha la sua leggenda e i suoi fantasmi, e la donna vestita di bianco di Wind Gap rapisce i bambini e li uccide.
Sharp Objects è un rettile, ti ipnotizza, ti avvolge e alla fine ti stritola, è una palude di sabbie mobili, è una prigione bollente che ha il profumo dolciastro e marcio dei fiori quando stanno per appassire.
Vallée dirige questo racconto di malattia e morte con un stile morbido e rallentato; non c’è mai un istante di frenesia, tutto scorre coi ritmi soporiferi di un’estate tropicale. Le immagini di Sharp Objects scavano nei personaggi e nei luoghi, portano alla luce cadaveri, raccontano di traumi insoluti e di donne “incorregibili”.
Al ritmo delle canzoni dei Led Zeppelin, scopriamo il presente e il passato di Camille e di Wind Gap e ci addentriamo in posti che mai vorremmo vedere. Eppure guardiamo, come dei topi in trappola un secondo prima di essere divorati.
post magnifico 🙂 ho aspettato che uscissero tutti gli episodi per fare una mega maratona, che dopo questa recensione non vedo l’ora di iniziare! nel frattempo ho anche ordinato il libro, l’unico della flynn che non avevo ancora letto. cosa mi consigli? mi conviene prima leggere il libro o affrontare la visione impreparata?
Grazie 🙂
Io ti consiglio di leggere prima il romanzo perché, secondo me, chiarisce molti aspetti che la serie lascia un po’ in secondo piano. Poi certo, non rimarrai shoccata dal finale della serie, ma lo shock arriverà alla fine del libro 😀
Gone girl era un ibrido che non mi aveva coinvolto più di tanto, ma questo mi incuriosisce – con la ciliegina dei Led Zeppelin poi, ancora di più – e dato che sta per arrivare lo vedrò. (parentesi: Revenge è splendido) (parentesi 2: complice un riposo forzato mi sono obbligato a proseguire la stagione 3 di Z Nation e, sorpresa, stavolta mi piace. mah).
Io ho adorato Gone Girl (libro e film), quindi non faccio testo.
La faccenda dei Led Zeppelin poi è davvero una chicca, perché loro erano famosi per non concedere i diritti a nessuno. Ultimamente si erano già ammorbiditi con Mindhunter, ma lì era un solo pezzo; qui c’è mezza discografia.
Revenge è splendido sì ❤ Lo torno a vedere in sala la prossima settimana perché questa purtroppo sono molto incasinata.
E su Z Nation, ci mette sempre un po' per carburare, ma l'attesa vale la pena.