Speciale Samuel Fuller: Park Row

 Regia – Samuel Fuller (1952)

Non è un mistero che Martin Scorsese inserisca Fuller tra le maggiori influenze del suo cinema e se ve ne siete mai chiesti il motivo, cominciare guardando proprio Park Row potrebbe darvi parecchie risposte interessanti: soprattutto nelle sequenze ambientate all’interno del Globe, il giornale protagonista del film, si riconosce un’impronta stilistica, un marchio nel mettere in scena uomini e oggetti, che poi Scorsese avrebbe rielaborato e riformulato a modo suo. Ma il nucleo si trova lì, in quell’inseguire i personaggi stando loro incollati in apparentemente ruvidi primi piani di gruppo, con la macchina da presa che passa da una faccia all’altra, senza staccare quasi mai.
Park Row è un film in tutto e per tutto di Samuel Fuller, nel senso che lo scrisse, lo diresse e lo produsse finanziandolo di tasca propria.
Non so se ricordate che il regista aveva firmato un contratto con la Fox dopo il successo di Corea in Fiamme; Zanuck voleva produrre Park Row e aveva pronto un budget di due milioni di dollari, a patto che fosse girato in technicolor, a interpretarlo ci fossero star di grosso calibro, che fosse un musical e che non si chiamasse Park Row ma Old New York.
Al che, un tipetto accomodante come Fuller rispose producendosi il film da solo, con appena 200.000 dollari.

Fuller era stato un giornalista e l’esperienza aveva lasciato un segno profondo su di lui, quanto e più quella della guerra. Ma, mentre c’è poco di positivo da estrarre dalla vicende belliche, ecco che un film come Park Row trasuda vero e proprio amore per il mestiere, che si traduce in una grande partecipazione emotiva non solo per le sorti dei personaggi, ma proprio nei confronti del processo del mandare in stampa un giornale.
Fuller, che a Park Row ci aveva lavorato davvero, sceglie di raccontare una generazione precedente la sua, alla fine del XIX secolo, durante i “lusty days of the golden Eighties“, e vuole assolutamente il bianco e nero, perché il look del film doveva essere lo stesso delle testate giornalistiche che sono al centro della storia; inoltre, preferisce non ci siano star e si affida, al solito, a Gene Evans nel ruolo eroico ed estremamente virile di Phineas Mitchell. Come antagonista, opta per un’attrice di teatro, alla sua prima apparizione sul grande schermo, Mary Welch, che purtroppo sarebbe morta nel ’58, a soli trentasei anni, senza aver preso parte ad altri film.

La storia di Park Row è quella della rivalità tra due giornali, il rinomato e ricchissimo Star, di proprietà di Charity Hackett, che è priva di scrupoli ed etica, e il neonato Globe, fondato da Mitchell dopo essere stato licenziato dallo Star per aver portato alla luce una storia costruita ad arte che aveva portato alla morte per impiccagione di un uomo innocente. Mentre Mitchell gioca secondo le regole, Charity è invece diposta a tutto per veder fallire e chiudere il giornale concorrente. Aggiungete che tra i due c’è un rapporto molto ambiguo, nonché una certa tensione erotica e avrete anche la vostra dose di romance.
Com’è ovvio, la rivalità degenera in atti di violenza: risse, bombe incendiarie lanciate nella redazione del Globe, carrozze che investono e tagliano le gambe a un giovanissimo apprendista (fuori campo, perché sapete, il budget…) e, nonostante tutto questo, l’impero del male rappresentato dallo Star è destinato non solo a cadere, ma addirittura a redimersi, a “suicidarsi”, come afferma la stessa Charity in una delle ultime scene del film.

Park Row è un’opera molto idealista, permeata di ottimismo e di fiducia in un mezzo, la stampa, che Fuller racconta alla stregua della Frontiera. In fin dei conti, Park Row ha moltissimo del western, dalle sequenze ambientate nel bar dove si riuniscono i giornalisti dopo il lavoro e scoppiano scazzottate memorabili, alla battaglia stessa tra Charity e Mitchell, che è un problema di territorio, la strada del titolo, di cui viene disputato il dominio. Park Row viene poi ritratta da Fuller come una zona franca, dove ogni mossa è lecita e il discernimento tra bene e male è affidato solo all’etica dei singoli.
E di etica poi si parla soprattutto nel film, anche se forse in maniera un po’ troppo didascalica per uno spettatore del 2018. Ci sono tanti dialoghi e monologhi esplicativi, che sono messi lì per spiegare le ragioni di un giornalismo che si discosti dalla ricerca del profitto a ogni costo (tra cui quello di diffondere notizie false) tipico dei tabloid, di cui lo Star è un esponente di spicco.

“Lei non è una di noi, non fa parte della nostra specie”, dice uno dei cronisti del Globe a Charity, che non appartiene alla razza con “l’inchiostro al posto del sangue” dei giornalisti, ma è un’imprenditrice che licenzia i dipendenti quando mostrano di agire in maniera libera. Ma, a parte questo eccessivo caricare sugli aspetti didattici del film, è evidente che Park Row sia attuale ancora e soprattutto oggi, per i temi che affronta e che vanno dalla censura, al controllo dell’editore sui giornalisti, ai processi a mezzo stampa (che oggi si fanno direttamente sui social, ma è uguale), al pilotare l’informazione e quindi l’opinione pubblica nella direzione desiderata dal potere, alla diffusione consapevole di storie pruriginose e scandalistiche senza alcun fondamento reale e così via: tutti problemi che in questo confuso periodo storico sono particolarmente sentiti e di difficile risoluzione.

The press is good or evil according to the character of those who direct it.
Un modo elegante per dire che non è il mezzo in sé a essere buono o cattivo, lo sono le nostre scelte personali. L’universo cinematografico di Fuller sta sempre più assumendo dei tratti caratteristici e ricorrenti: un individualismo esasperato, degli eroi che si muovono spinti da una fortissima etica ma che, secondo la morale comune, si trovano sul crinale tra giusto e sbagliato e spesso si ritrovano ad agire dalle parti del secondo; uno stile aggressivo, da battaglia, mutuato sicuramente dall’aver sempre avuto a che fare con budget miserabili, ma che poi è diventato una cifra ben precisa e riconoscibile in ogni sua opera; la tendenza a infischiarsene non solo delle mode cinematografiche del momento, ma persino delle tendenze politiche, tanto da fare un film sulla libertà di stampa in piena bufera maccartista.
Ci voleva una certa dose di coraggio (o di strafottenza, fate voi) negli anni ’50 per rivendicare con così tanta forza l’integrità del mestiere di giornalista, al di là di ogni possibile pressione, economica o politica.
E infatti, i 200.000 dollari investiti personalmente da Fuller nel progetto non gli tornarono mai indietro, perché Park Row non lo andò a vedere nessuno.
In Italia è inedito, ma si trova facile in DVD, edizione inglese o francese. Quella francese, in particolare, è davvero bella, ed è inserita in un cofanetto con altri quattro film del regista. Peccato che ci siano solo i sottotitoli in francese, neanche in inglese.
Resta un’importante testimonianza di un modo di fare cinema appassionato, feroce, che contrappone idealismo e cinismo e fa vincere, gloriosamente, il primo.

Un commento

  1. Giuseppe · ·

    Un modo di fare cinema non proprio nelle corde di gente come Zanuck, no: le condizioni poste per la produzione di Park Row stavano a dimostrare una volta di più quanto ne capisse poco (eufemismo) dello “scomodo” Samuel Fuller. Un film dalle tematiche ancora fin troppo attuali il suo, davvero, che meriterebbe finalmente anche un’edizione italiana…

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