Regia – Ingmar Bergman
“Lei vede ciò che vuole vedere”
Certe volte credo che voi mi vogliate male e che quella dei sondaggi sia stata una pessima idea. No, davvero, ma cosa vi è saltato in mente di votare compatti per un film di Bergman, su questo blog? Se sapesse di essere finito qui, il povero Ingmar farebbe certi salti nella tomba da causare terremoti in tutta la Scandinavia. Al che voi direte: “Scema tu che hai inserito il film nel sondaggio”. Eh, lo so, ma pareva brutto e poi chi va pensare che avreste scelto proprio questo?
Comunque, un impegno è un impegno e, anche se ho procrastinato fino a quando ho potuto, ora mi tocca e non posso tirarmi indietro. Per cui, calma e sangue freddo, ché L’Ora del Lupo non è il film migliore, ma è uno dei più complicati da decifrare, anzi, forse è proprio indecifrabile. Insomma, parlarne è un gran casino. L’unica maniera per uscirne viva è volare bassissimo e non lanciarmi in ardite considerazioni da cinefila dell’internet. Buttiamola giù semplice e concreta.
L’Ora del Lupo nasce da un manoscritto a cui Bergman stava lavorando a metà degli anni ’60, con il titolo provvisorio de I Mangiatori di Uomini. Succede che il regista si ammala di polmonite, lascia stare il manoscritto e, quando torna in salute, si dedica alle riprese di Persona (1966). Riprende in mano la bozza di sceneggiatura, le cambia il titolo, che diventa L’Ora del Lupo. Ora le cose si fanno bizzarre: il film, in origine, conteneva parecchi inserti – li chiameremmo oggi – metacinematografici dove si poteva vedere Bergman che dava indicazioni alla troupe e agli attori e preparava la messa in scena. Secondo il regista, tutto questo gli serviva a creare il necessario distacco da storia e personaggi, che avvertiva come troppo personali. Tuttavia, le scene vennero eliminate e, nel risultato finale, è rimasta solo una breve introduzione in cui, a schermo nero, sentiamo Bergman e i suoi collaboratori allestire una scena. Ci sono poi un paio di sequenze in cui Liv Ullman si rivolge direttamente alla macchina da presa, come se fosse una specie di (Dio, perdonami) falso documentario. So che la definizione che ho usato, chiedendo perdono, rimanda ad altre cose, eppure il film dichiara di basarsi su un diario e su delle testimonianze, dando così una specie di patina reale a una vicenda molto poco lineare, tutta incentrata sui deliri, sulle paure, sui desideri repressi e sulle fantasie del suo protagonista, il pittore Johan Borg (Max von Sydow).
Johan e la moglie incinta Alma (Ullman) vivono su un’isola in una sorta di esilio volontario dalla società. Lui è tormentato da alcune visioni: una donna anziana che minaccia di togliersi il cappello e, con esso, la sua intera faccia, un uomo-corvo, degli insetti, dei cannibali (i mangiatori di uomini del titolo provvisorio della sceneggiatura). A causa di queste allucinazioni, ha smesso di dormire, è delirante e Alma comincia a temerlo.
Sull’altro lato dell’isola vive un barone con una compagnia di pazzi e pervertiti, che invita a cena la coppia, cercando di insinuarsi nella loro vita.
Ecco, questo è tutto ciò che si può dire a proposito della struttura narrativa del film, perché chiamarla trama non vuol dire compierle poi questo gran servizio.
Bergman elimina completamente il confine tra realtà e immaginazione e tra memoria e incubo e pone lo spettatore nella condizione di non riuscire a capire se i racconti di Johan (e quello che noi viviamo attraverso la sua prospettiva) appartengano all’una o all’altra categoria. Le linee sono così sfumate che è davvero impossibile sapere con certezza quale parte di ciò a cui stiamo assistendo sia davvero il risultato di una manifestazione del soprannaturale o soltanto il rapido declino di una mente nella follia. O anche entrambe le cose, per quanto ci è dato comprendere.
Porre l’intero film come una rielaborazione cinematografica a posteriori dovrebbe aiutare a mantenere una certa distanza dalla materia. Ma lo stesso Bergman ha evidentemente optato per ridurre la distanza al minimo rendendo la sua opera ancora più ambigua e criptica: le voci che sentiamo all’inizio non possono che essere quelle di un set in cui si sta per mettere in scena una ricostruzione, e quindi una finzione. Ma allora Liv Ullman è un’attrice che interpreta Alma (da qui l’ipotesi del falso documentario) o è Alma stessa che si rivolge a noi, cosa che ribalterebbe ulteriormente la prospettiva?
Senza inoltrarci nei significati reconditi del film (non mi sento all’altezza), è interessante riflettere sulla sua natura ibrida, perché rende ancora più complicata (di fatto, impossibile) la distinzione tra ciò che è reale e ciò che è invece frutto di una fantasia distorta.
Credo ci si possa avvicinare a L’Ora del Lupo solo mettendo da parte la logica, il desiderio di una spiegazione chiara e univoca e lasciando fluire non solo le immagini, ma anche le parole che Bergman mette in bocca ai suoi due protagonisti principali.
Se ci pensate, un film come questo sembra capitare proprio a proposito, dopo tutte le discussione fatte su Annientamento, che a paragone è una favoletta per bambini (non parlo di qualità del film, ma della sua facilità di fruizione). Oggi, L’Ora del Lupo andrebbe diretto su Netflix senza neanche vedere di sfuggita una sala cinematografica. O forse, nel 2018, un film così neanche verrebbe pensato e nessuno oserebbe proporlo a un ragioniere pronto a misurarlo razionalmente in base al gradimento del pubblico di imbecilli per cui i film vengono realizzati.
Il problema, secondo me, è che non sempre è necessario capire, nel senso più elementare del termine, un’opera per goderla. Perché nell’epoca in cui viviamo, la comprensione di un testo equivale a sapere perché un personaggio compie una determinata azione, a collegare i puntini, a voler forzare una qualunque narrazione in una linearità che non è l’unico modo esistente al mondo di raccontare una storia. A volte, non è neppure poi così importante che ci sia, una storia.
Il che ci porta dritti alla domanda: che cazzo ci fa un film di Bergman su un blog di cinema (soprattutto ma non solo) horror? Ci fa quello che ci fa anche Madre! che con L’Ora del Lupo condivide due o tre elementi portanti (e sono sicura che sia voluto); ci fa quello che ci fanno tutti i film che cercano di dare una forma visiva al linguaggio criptico dell’incubo.
E io lo so che pare blasfemo accostare un’etichetta così popolare come quella di horror a Bergman, ma l’immaginario presente ne L’Ora del Lupo, oltre a essere intimamente gotico (il castello e i suoi abitanti, il bosco, i demoni che arrivano a far visita al pittore la notte) è quello dei nostri brutti sogni, che no, non si spiegano e no, non hanno una trama lineare e una successione di eventi che risponde alla dinamica di causa ed effetto. In questo senso, e al netto delle differenze abissali che passano anche tra i film meno riusciti di Bergman e quelli che normalmente trattiamo su queste pagine, L’Ora del Lupo ha pieno diritto di cittadinanza qui, dove se esiste un tema principale, è proprio lo scatenarsi delle peggiori fantasie, che vanno a rompere il muro dietro cui ci trinceriamo, illudendoci che la realtà sia un qualcosa di solido e stabile.
È molto tardi, mentre sto scrivendo, e si avvicina inesorabile l’ora del lupo, “quella tra la notte e l’alba, quando molta gente muore e molta gente nasce, quando il sonno è più profondo, gli incubi ci assalgono, e se restiamo svegli abbiamo paura”. L’ora in cui il muro diventa di carta e il confine si assottiglia. Un’ora in cui la follia è contagiosa e forse non è neanche follia, ma la rottura di una barriera. I demoni si avvicinano alla nostra porta e ci sussurrano nelle orecchie cose che non abbiamo voglia di sentire. Possiamo seguirli, come Johan, o rifiutarli, come Alma, che per questo rifiuto perde il marito e rimane, nell’ultima inquadratura del film, con lo sguardo perso nella macchina da presa, chiedendosi se non l’ha amato abbastanza o se, al contrario, l’ha amato troppo.
Come dico spesso, non ha importanza che una cosa esista davvero per renderla reale, contano solo i suoi effetti. E, alla fine, la paura e le cose appena intraviste durante l’ora del lupo sono tutto ciò che rimane.
Per il 1978, cerchiamo di mantenerci in un ambito che sia più alla mia portata e limitiamo la nostra scelta a tre film: Terrore dallo Spazio Profondo di Philip Kaufman; Long Weekend di Colin Eggleston; Magic di Richard Attenborough.
Bergman è uno di quei registi di cui parlerò solo dopo tanti anni di esperienza accumulata. Portare un colosso del genere sul mio blog un po’ mi spaventa e per questo che mi congratulo con te per averlo portato nel tuo blog e soprattutto per aver fatto un’ottimo articolo su uno dei suoi film.
Non credo proprio che il povero Ingmar si rivolterà nella tomba per il fatto di essere finito ospite sul tuo blog visto il grande rispetto con cui l’hai trattato: un’analisi azzeccata senza il minimo bisogno di ardite -e quasi sempre forzate (“Lei vede ciò che vuole vedere”, appunto)- considerazioni cinefilo/internettiane, oltre che un valido aiuto per chiunque si accinga ad affrontare questa non facile opera bergmaniana per la prima volta.
P.S. Vedo che fra le proposte per il 1978 c’è un mio vecchio suggerimento di qualche annetto fa, “Terrore dallo Spazio Profondo”… 😉
Grandissimo regista, grandissimo cinema ma non solo, grandissimi attori e meravigliose attrici. E una modernità ancora oggi sconvolgente: a me, ad esempio, ha lacerato l’anima – e me la continua a lacerare ogni volta che lo rivedo -, Sussurri e grida.
E non sminuire la tua abilità critica, a giudicare da questa recensione i film di Bergman sono assolutamente alla tua portata. Prosegui.
Me lo recupererò.
Il mio voto a Magic, che mi incuriosisce molto, anche se mi sa vincerà a mani basse Terrore dallo Spazio Profondo