Marrowbone

 Regia – Sergio G. Sanchez (2017)

Esordisce alla regia in un lungometraggio per il cinema lo sceneggiatore di The Orphanage. Ovviamente, alla produzione esecutiva troviamo Bayona. Insieme, i due sono un’associazione a delinquere tesa a minare la nostra stabilità emotiva, ovvero preparate i fazzoletti che vi serviranno, a meno che non abbiate la sensibilità di un carciofo.
Il cinema gotico spagnolo è così, ne abbiamo parlato – credo – fino alla nausea. Forse è per questo che predilige le storie di fantasmi, filone che (altro concetto ribadito parecchie volte) deve essere triste, altrimenti funziona poco e male e si tramuta in un luna park di salti sulla sedia e apparizioni improvvise.
Ecco, questi trucchetti da imbonitore sono del tutto assenti in Marrowbone che finalmente riporta al cinema la tradizione gloriosa della ghost story iberica, tanto che sembra all’improvviso di esser tornati a dieci anni fa, all’era precedente James Wan e Jason Blum. Per i soliti geni che passano di qua e mi accusano di incoerenza, ripeto (gli altri possono saltare queste righe): non ho nulla contro Blum, adoro Blum, ma è giusto che ci sia spazio anche per produzioni un po’ più riflessive, soprattutto nell’ambito delle storie di fantasmi.

Spagna, dicevamo. Ma non è proprio così o almeno, non del tutto. Marrowbone è infatti un film spagnolo, prodotto da Telecinco Cinema, ma girato in inglese (per la modica cifra di 8 milioni di euro) con un cast internazionale. E che cast: Mia Goth, Anya Taylor-Joy, George MacKay, Charlie Heaton, tutti nomi emergenti (oddio Taylor-Joy ormai è emersa da un bel po’) e destinati a grandi cose. A vedere poi le due protagonisti femminili insieme sullo schermo, ti pare di assistere a una sfilata del futuro del genere.
Siamo quindi di fronte a un’opera con certe ambizioni di natura commerciale, destinata a fare presa più sul mercato internazionale che su quello locale, ma dotata ugualmente di una personalità fortissima. Non so se, con tutto quello che è successo in campo horror nell’ultimo decennio o giù di lì, questo sia un film in parte anacronistico, ma so che è stata una vera gioia passare due ore in sua compagnia. Non solo perché mi ha mondata da alcune schifezze viste di recente (Balaguerò, che diavolo hai combinato? Con cosa te ne sei uscito?), ma perché mi ha riconciliata con quella che ho sempre pensato essere la mia missione: diffondere meraviglie che altrimenti resterebbero sepolte.

Marrowbone è la storia di quattro fratelli in fuga da un padre che si presume violento insieme alla loro madre. Dall’Inghilterra, si rifugiano nella solita provincia nel buco del culo degli Stati Uniti, nella vecchia casa dove la mamma è cresciuta. Siamo alla fine degli anni ’60, quando sparire nel nulla era molto più semplice, e i nostri, una volta stabilitisi nella nuova dimora, devono fare anche i conti con la malattia e la morte della madre. Morte che devono tenere nascosta almeno fino a quando il fratello maggiore Jack non compirà 21 anni, per evitare che i più piccoli gli vengano portati via e per ereditare la casa.
Ma nella decadente magione qualcosa non torna: i quattro hanno infatti coperto o eliminato tutti gli specchi, parlano in continuazione di un fantasma che si muove tra le intercapedini dei muri e li tormenta e l’unico modo per farlo smettere, temporaneamente, è nascondersi in una specie di accampamento fatto con coperte e cuscini che chiamano “la fortezza”.
Mentre Jack può uscire di casa, farsi vedere in giro e anche iniziare una relazione con la dolce Allie (Taylor-Joy), gli altri fratelli sono obbligati a rimanere isolati.

Marrowbone è un film che, per la prima metà, impila le domande una sull’altra e dissemina misteri a più non posso, spingendo lo spettatore in una certa direzione, quella molto classica della casa infestata da una presenza maligna e vendicativa. È un film bravissimo a depistare, a spingerti esattamente dove lui vuole, per poi infliggerti la mazzata che ti mette in ginocchio, ma nel fare questo, non gioca mai sporco. E infatti, ripercorrendolo a ritroso e andandosi a rivedere un paio di sequenze chiave, si capisce che tutti gli indizi erano lì, belli pronti e a nostra disposizione. Si dice sempre che il modo migliore per nascondere qualcosa è farlo in piena vista. È così che funziona Marrowbone, come un gioco di prestigio: conduce il tuo sguardo dalla parte sbagliata, ti convince che sia quella giusta e, nel frattempo, prepara la pugnalata.
Molto singolare per un film che rappresenta la prima regia di uno sceneggiatore, Marrowbone compie questo sofisticato gesto illusionista solo tramite accorgimenti di natura visiva. Sì, è un’opera che racconta una storia lunga e complessa e ha una narrazione molto strutturata, ma la costruisce non con i dialoghi, bensì con la macchina da presa.

Il difetto tipico degli sceneggiatori che passano alla regia è, di solito, quello di essere un po’ troppo verbosi. Sanchez pare cadere nel tranello durante i primi minuti, in cui il racconto del prologo è affidato alla voce fuori campo di Jack e al suo diario, ma procedendo col minutaggio, tutto viene asciugato e a parlare sono le immagini. Il risultato è un film elegantissimo, d’altri tempi, verrebbe da dire, con una messa in scena classica e d’ampio respiro, credo mutuata anche dai colleghi che hanno preceduto Sanchez sul suo stesso terreno. Difficile, infatti, non pensare a The Orphanage, quando ci si inoltra nei corridoi della casa seguendo il più piccolo dei quattro fratelli, Sam, o quando lo stesso Sam ha il suo incontro ravvicinato con la presunta entità che abita tra quelle mura. Considerate poi che Sanchez non indulge mai nello spavento facile e una delle scene più inquietanti del film riguarda un lenzuolo e uno specchio.

E poi, come in ogni storia gotica spagnola che si rispetti, c’è questa cura nel tratteggiare i personaggi, le relazioni tra loro, la loro sfera affettiva, i traumi e il dolore che hanno segnato le loro vite, unita alla volontà precisa di andare a colpire dove fa più male. Il colpo di scena, se di questo si può parlare, sarebbe sterile se Sanchez non avesse dedicato così tanto spazio alla costruzione dei suoi protagonisti, a rendere sullo schermo il ritratto di cinque ragazzi credibili e veri, a dare un senso pieno alla promessa che si sono fatti di non separarsi mai, qualunque cosa accada. Persino un personaggio come quello di Allie, che in altre mani sarebbe stata una semplice stampella di Jack, il classico orpello inutile per inserire una linea narrativa sentimentale nel film (e per dare spazio alla star a disposizione), è qui necessario e determinante per la storia, soprattutto nel finale.
Ecco, Marrowbone è uno di quei film con un’anima, dove niente è gratuito ma ogni cosa fa parte di un mosaico che risponde a una visione precisa e solidissima.
Ho letto in giro che la critica non lo ha amato molto. Marrowbone è accusato di essere involuto, di non sapere quale strada percorrere, se quella dell’horror o del dramma soprannaturale. Certamente è un ibrido e non perché non sappia dove andare, ma perché preferisce non dover scegliere un genere preciso in cui collocarsi. Di solito, apprezzo questo tipo di ambiguità, ma vedo che sono in minoranza. Voi vedetelo, e poi tornate a dirmi se vi sentite in minoranza anche voi.

5 commenti

  1. valeria · ·

    io di solito mi associo alla minoranza, quindi appena riesco a vederlo (e se già mi ispirava un botto e lo aspettavo con trepidazione, ora grazie a te é salito di diversi posti nella famosa lista di film da vedere) torno e ti dico 😀

  2. Bello, ma con me vince facile, ché mette assieme presenze e un luogo così solare come quella casa.
    L’ho trovato solo un po’ troppo lungo per la storia che vuole raccontare, avrei tolto qualcosa qua e là, ma sono gusti. Cast davvero azzeccato, e come dici tu sfruttato alla grande, e poi Lei è sempre di una bellezza feroce.

  3. Giuseppe · ·

    O.K., me l’hai venduto! 🙂
    P.S. Ma fa davvero così schifo l’ultimo Balagueró? Sulla carta, perlomeno, sembrava promettere benino…

    1. Più che schifo, è un film molto anonimo che non ti lascia nulla.
      Poi giudicherai tu, magari sono io che non sono riuscita ad apprezzarlo.

  4. Giuseppe · ·

    Bene, finalmente ho visto Marrowbone. Ecco, posso pure capire che la critica fosse orientata verso un’opera di genere dallo sviluppo e conclusione più “classici” con caratteristiche definite in modo netto, ma si trattava di una strada già battuta che Sanchez e Bayona, in questo caso, hanno deciso (appunto) di non percorrere. E hanno senz’altro scelto il cast adatto per portare avanti la storia che avevano in mente… in poche parole, promosso!
    P.S. Nell’ultima parte del film mi è parso -personalissima e opinabile impressione- di percepire anche un po’ di Zio John (Carpenter): non dico a quale suo titolo mi riferisco perché potrei essere a rischio spoiler 😉