My Friend Dahmer

 Regia – Marc Meyers (2017)

Abituati come siamo al sensazionalismo di solito legato alla figura del serial killer, un ritratto così sobrio ed equilibrato come quello fatto da Meyers (ma soprattutto dall’attore protagonista Ross Lynch) di Jeffrey Dahmer potrebbe spiazzarci, in quanto molto distante sia da ogni forma di fascinazione (una roba che non capirò mai, vi giuro, la fascinazione per degli assassini) sia dal voler fare psicologia da quattro soldi. Al massimo, il film tratto dall’omonimo fumetto di John “Derf” Backderf (che io non ho letto, ma ve ne parla Alessandro qui) può spingere lo spettatore a provare un po’ di empatia per un ragazzo solo e problematico, pur sapendo quello che sarebbe diventato in futuro. Ma giusto un minimo, perché il Jeff adolescente che vediamo nel film non è mai un personaggio gradevole, anzi, e non si cerca di giustificare in nessun modo le sue azioni alla luce dei soprusi subiti tra i banchi di scuola (neanche troppi) o della famiglia disfunzionale che lo aveva cresciuto. Più che altro, si spinge a considerare il mostro una persona, con un suo passato, una madre, un padre, persino un gruppo di pseudo-amici che hanno fatto illudere il giovane Jeff, per un certo periodo, di essere accettato e di poter vivere una vita “normale”.
Persone, appunto, spogliate da entrambe le componenti che formano un mostro nell’immaginario collettivo: il fascino e la ripugnanza assoluta.

Più che un thriller su un assassino seriale, My Friend Dahmer è un dramma adolescenziale, a suo modo persino divertente: racconta dell’ultimo anno alle scuole superiori di Jeff Dahmer e della sua breve amicizia con un gruppetto di coetanei capitanati da Derf Backderf, che in seguito avrebbe scritto il fumetto. Solo che definirla amicizia non è del tutto corretto. I ragazzi si accorgono che Dahmer è strambo, ma strambo sul serio, e lo avvicinano per approfittare della sua mancanza di vergogna e portare così scompiglio nella scuola e nella piccola cittadina dell’Ohio dove il film è ambientato.
Derf e gli altri fondano così il “Dahmer fan club” e mettono su una serie di scherzi più o meno pesanti, come immortalare Jeff in ogni foto di gruppo dell’annuario scolastico o fargli simulare attacchi epilettici in biblioteca e al centro commerciale.
Nel frattempo, Jeff conduce la sua lotta solitaria contro un lato oscuro che si fa sempre più invadente. Per reprimerlo e nasconderlo al resto del mondo, inizia a bere, ma ovviamente non basta e la sua stranezza viene a galla ogni giorno di più, tanto che persino i suoi “amici” prendono le distanze.

Il film si conclude nel momento in cui Dahmer sta per commettere il suo primo omicidio, che non vediamo. La “carriera” di serial killer del protagonista è del tutto lasciata fuori campo e fuori dalla cronologia del film. Non ci è concessa neanche una fugace anticipazione. È una scelta che ho apprezzato moltissimo perché, anche se non assistiamo direttamente al futuro di Jeff, ciò non vuol dire che esso non pesi come un macigno su ogni singolo fotogramma. My Friend Dahmer non vuole farti dimenticare di aver di fronte uno dei peggiori assassini ad aver mai calcato il suolo terrestre, vuole tentare di mettere la sua vita in prospettiva, senza tuttavia arrogarsi il diritto di dare risposte sui perché e i percome.

Più che altro, il film cerca di tenere i riflettori puntati sulle dinamiche sociali in cui un serial killer in erba si trova a crescere e a tentare di sopravvivere, mimetizzandosi quasi alla perfezione. In fin dei conti, in ogni scuola c’è un ragazzo (o ce ne sono più di uno) un po’ particolare, a suo modo anche buffo, ritenuto fondamentalmente innocuo, con cui però riesce davvero difficile legare, perché la stranezza vera, l’essere alieni rispetto agli altri, è una cosa che si fiuta, si percepisce anche quando non la si riconosce razionalmente o non la si vuole ammettere perché spalanca degli abissi in cui è comprensibile non aver voglia di guardare.
Gli amici di Jeff scoprono per gradi questa alterità totale del personaggio con cui hanno a che fare e infatti, mentre l’ultimo anno di scuola volge al termine e il diploma si avvicina, intorno a Dahmer si crea di nuovo il vuoto: la madre e il padre divorziano e lei se ne va con il fratello minore, mentre lui sparisce lasciando Jeff da solo a casa; il “Dahmer fan club” si sfalda, dopo un’imbarazzante (e inquietante) performance di Jeff al centro commerciale. C’è un ultimo incontro tra Jeff e Derf, la sera prima che il futuro fumettista parta per il college e poco ci manca che il ragazzo non sia la prima vittima di Dahmer, nella sequenza più suggestiva e spaventosa di tutto il film.

Eppure questo equilibrio e questa sobrietà, che sono il pregio maggiore di My Friend Dahmer, rischiano di essere anche il suo limite principale, non solo perché gli “appassionati” di serial killer non troveranno pane per i loro denti, cosa in effetti abbastanza marginale, ma proprio perché a volte si ha l’impressione che il film segua un andamento aneddotico, senza una vera e propria ossatura centrale; inoltre, sempre per inseguire l’obiettivo di non scadere neppure per sbaglio o per un istante nel sensazionalismo, Meyers adotta uno stile abbastanza anonimo, privo di guizzi, come del resto per evitare il fattore nostalgico (il film è ambientato nel ’78) si prediligono colori smorti e il classico marroncino sfigato anni ’70 che credo tutti noi ricordiamo dalla nostra infanzia.

Per fortuna che Meyers può contare su un gruppetto di giovani attori davvero straordinari, su cui caricare in scioltezza l’intero film. Non solo l’insospettabile Lynch (ex idolo di Disney Channel), ma anche Alex Wolff nel ruolo di Derf e tutti i ragazzi della scuola frequentata da Jeff ci consegnano alcune delle figure di adolescenti più complesse e reali del cinema contemporaneo. Sembra quasi di essere lì, a camminare per i corridoi, a incontrare persone con cui abbiamo vissuto lungo un arco piuttosto ampio di anni della nostra vita, e non si avverte mai quella sensazione artificiosa e preimpostata molto comune in parecchi teen movie recenti e non.

Un buon film, tutto sommato, che offre degli spunti un po’ più originali rispetto alla sterminata filmografia sui serial killer, che ci presenta un mostro feroce prima che diventasse tale, spingendoci a chiedere se mai saremmo stati in grado di accorgerci di ciò che passava per la testa di questo ragazzo taciturno e a cui era così difficile, quasi impossibile, volere bene.
E poi c’è la questione, forse messa un po’ in secondo piano, della responsabilità, di quanto un incontro con una persona che poi sarebbe diventata un assassino necrofilo e cannibale abbia potuto incidere sulla sua psiche, quanto i nostri gesti nei suoi confronti, per quanto noi gli abbiamo attribuito un significato quasi nullo, possano essere stati determinanti nel passaggio da ragazzo un po’ strano a mostro.
Oppure Dahmer era così e non ci sarebbe stato comunque nulla da fare. Il bello di questo film è che non si azzarda neanche a dare delle risposte, ma preferisce attenersi a una cronaca, magari un po’ monotona, dei fatti.
Da vedere in ogni caso, anche se siamo più dalle parti di Van Sant che da quelle di Fincher. Siete avvisati.

2 commenti

  1. The Butcher · ·

    Un film molto interessante. Mi piace la scelta di non farci assistere al suo primo omicidio ma di farci capire che sta per farlo. Come hai detto tu, ti da un senso di pesantezza in più. Lo guarderò!

  2. Giuseppe · ·

    Nessuna concessione a qualsivoglia forma di fascino -morboso- nei confronti del protagonista, com’è giusto che sia (compreso il climax pre-omicidio potenziale): non può né potrà mai esserci niente di anche solo lontanamente “affascinante” in Jeffrey Dahmer, e trovo condivisibile l’aver adottato -pur con i limiti intrinsechi- un taglio cronachistico per raccontarne l’adolescenza evitando contemporaneamente di addentrarsi in tentativi di analisi, spiegazione e giudizio a inevitabile altissimo rischio di forzatura e parzialità…
    P.S. Ho saputo che a Cartoomics, il mese prossimo, la Acheron Books sarà presente con un’autrice di tutto rispetto 😉

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