Downrange

 Regia – Ryuhei Kitamura (2017)

Ci sono due tipologie di horror che io amo particolarmente: quelli in pieno sole e quelli connotati da una rigorosa unità di luogo; Downrange, terzo film americano di Kitamura, ha entrambe le caratteristiche. Racconta infatti di un gruppo di amici in viaggio che, a causa di una ruota a terra, rimane bloccato in una di quelle strade deserte dove passa una macchina una volta a settimana, sperdute in mezzo al nulla, che sono il territorio ideale di ogni survival degno di chiamarsi tale. Mentre i ragazzi cambiano la gomma, un cecchino appostato nelle vicinanze comincia a sparare all’impazzata.
Non c’è molto altro da segnalare, per quanto riguarda la trama di Downrange: il film è privo di sviluppi, colpi di scena, approfondimenti psicologici. Si tratta, appunto, di un survival in piena regola, anzi, di uno slasher alla luce del giorno con un fucile al posto della classica arma da taglio, dove i nostri protagonisti vengono fatti fuori uno dietro l’altro.
Tutto qui, ma se vi piace questo tipo di cose, credo che ne uscirete abbastanza esaltati.

Pare facile da fare, un film come Downrange. Pare, perché in realtà tenere in piedi una situazione così scheletrica per 90 minuti non è un’impresa da poco. Ed è il motivo per cui questo tipo di racconto cinematografico mi affascina: mi chiedo sempre come riuscirà il regista a non far scemare l’interesse dello spettatore, cosa si inventerà, non avendo a disposizione una narrazione vera e propria, per portare avanti il suo film. Nel caso di Kitamura, la risposta è: sangue e ritmo.
Downrange parte infatti a razzo, senza darci neanche il tempo di conoscere i personaggi. Non ha importanza conoscerli, sono lì solo per morire, ce ne frega a stento di sapere come si chiamano e di distinguere una faccia dall’altra. In questo modo, Kitamura ci risparmia la solita e tediosissima introduzione che di solito ammazza sul nascere una buona percentuale di horror che potrebbero anche essere interessanti, se solo non li si troncasse prima di arrivare al dunque. La prima scena del film è quella in cui i nostri bucano la gomma della macchina su cui stanno viaggiando. Il regista ha così tanta fretta di passare ai corpi crivellati dai proiettili, che neanche si prende il disturbo di dirci dove diavolo siano diretti e del motivo per cui dovessero proprio percorrere quella lingua di nulla in mezzo al niente.
Passeranno sì e no dieci minuti di convenevoli, ma giusto per far salire un po’ la tensione, e il primo cadavere è riverso sull’asfalto con un buco in testa. Da lì in poi non ci si ferma più.

Credo ci sia qualcosa di addirittura eroico nell’impostare un film in questo modo, riducendolo all’osso, buttando via il superfluo, non perché l’approfondimento psicologico sia inutile, ma perché in alcuni casi diventa una scusa, un pretesto, e molti non sono neanche in grado di farlo. Allora preferisco la sincerità estrema di uno come Kitamura, a cui proprio certe cose non interessano e te lo dimostra in ogni modo possibile, tramutando ogni singolo essere umano in un mucchietto di stracci lasciato a marcire al sole.
Eliminato l’orpello delle personalità dei protagonisti, Kitamura se ne frega anche di dirci qualunque cosa a proposito del cecchino, che se ne sta appollaiato su un albero a premere il grilletto e a giocare con le sue vittime con il sadismo di un felino che ha catturato una lucertola, senza avere un solo motivo se non il puro gusto di uccidere. Anche per questo dicevo prima che Downrange ha molto dello slasher classico: il cecchino può essere assimilato all’uomo nero, figura senza volto che non ha bisogno di un perché per ammazzarti, un’ombra nascosta tra gli alberi che ha deciso che quello sarà il tuo ultimo giorno, perché così gli gira, e tu non puoi farci proprio niente.

Fa paura perché potrebbe capitare a chiunque, perché la domanda, tipica del film dell’orrore, prima o poi pronunciata dal morituro di turno, “Perché proprio noi?”, rimane priva di risposta e ogni tipo di discorso razionale va a farsi benedire. È la battuta raggelante di The Strangers: “Perché eravate in casa”. In Downrange, si riduce a: “Perché vi siete trovati a passare per quella strada”. Se ci riflettete, tolta ogni sovrastruttura, siamo all’essenza più profonda del racconto dell’orrore: la normalità che all’improvviso impazzisce e tu, che magari stavi soltanto facendo una scampagnata con gli amici, ti ritrovi da solo, a sanguinare e a morire come un povero stronzo senza aver fatto nulla di male.
Letta così, ha una sua logica anche l’assenza di spessore dei protagonisti; potrebbero essere chiunque, sono contenitori vuoti, facce anonime che possiamo sostituire alle nostre. Non sono neppure i classici, insopportabili personaggi da slasher, quelli che poi ti costringono quasi a fare il tifo per l’assassino. Sono ragazzi ordinari, in una situazione ordinaria che all’improvviso, per una casualità, diventa straordinaria.

A me Kitamura è sempre piaciuto. Ho apprezzato Midnight Meat Train (saremmo stati in tre ad apprezzarlo) e mi sono divertita un mondo con No One Lives, altro film dalla struttura abbastanza simile a Downrange, ma un po’ meno lineare. A differenza di Midnight Meat Train, rovinato da un impiego massiccio e incomprensibile di effettistica in post-produzione, qui abbiamo un ottimo sfoggio di effetti artigianali che, in un film basato al 90% sull’impatto dei proiettili contro la carne, hanno un ruolo non di poco peso. Ma non solo: in Downrange potrete ammirare un bel campionario di efferatezze, da crani spappolati sotto le ruote, a incidenti spettacolari dai risultati decisamente traumatici, tutto girato dal vero, con inserti quasi invisibili di CGI, solo dove serve e dove sarebbe stato troppo rischioso farne a meno. Anche per questo è un film da ammirare e a cui volere bene.

Poi sì, non stiamo parlando di un’opera indimenticabile, perché Kitamura ha, come sempre, la mano molto pesante, tende a tagliare un po’ con l’accetta, esagera coi ralenty enfatici e ci piazza quei due momenti lirici di troppo che sono, a fronte di tutto quello che abbiamo detto fino a questo momento, in stridente contrasto con l’anima del film, nonché del tutto fuori contesto. Non lo si può di certo annoverare tra i registi più eleganti in circolazione, ma va bene così. Stephen King, nel suo saggio Danse Macabre, ha scritto che, nonostante sappiamo tutti quanto sia migliore la cucina di un ristorante raffinato, ci sono delle volte in cui si ha solo voglia di mangiare pollo fritto e bere una birra. E, aggiungo io, non c’è niente di male in questo, basta aver chiara la distinzione e non confondersi, ché a forza di mangiare schifezze, si rischia di diventare assuefatti.
Dato che di roba di classe, in ambito horror, non ne sta uscendo molta, Downrange è un gran bell’accontentarsi: nella sua brutale semplicità, sa essere crudele e spietato sino in fondo, e non si tira indietro davanti a niente.

2 commenti

  1. Giuseppe · ·

    Mano pesante, accetta, ralenty enfatici, lirismo fanno senz’altro parte del Kitamura-style: solo, molto probabilmente, se presi tutti insieme tendono a funzionare meglio -o, comunque, a essere in genere più coerenti con il contesto- all’interno della sua produzione nipponica (vedi ad esempio anche gli adattamenti di manga come Azumi e LoveDeath) che non in quella americana, dove pure ha dimostrato di saperci fare eccome. E, aggiungo, di saper scegliere attori azzeccatissimi per i rispettivi ruoli da villain come Vinnie Jones e Luke Evans…

  2. valeria · ·

    “no one lives” mi aveva intrattenuto parecchio; lo ricordo come un film senza punti morti e fuori di testa come pochi 😀 e poi ho un debole per luke evans, persino nella parte del pazzo furioso xD aggiungo anche questo “downrange” alla famigerata lista 😀

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