Regia – Xavier Gens (2017)
La Pelle Fredda è stato l’ultimo romanzo che ho letto nel 2017. È un libro che si legge tranquillamente in un paio di giorni e il suo autore, l’antropologo spagnolo Albert Sánchez Piñol, era alla prima prova in narrativa quando lo ha pubblicato nel 2002. Parla di un giovane, ex elemento di spicco dell’IRA che, nel 1914, poco prima che scoppi la guerra, decide di abbandonare tutto e di andare a passare un anno come ufficiale meteorologico su un’isoletta sperduta in mezzo al nulla della Patagonia. Una volta lì, non solo deve prendere atto della sparizione del suo predecessore, ma ha anche a che fare con uno strano individuo che vive come un selvaggio nel faro.
E le brutte sorprese non finiscono qui: i due uomini non sono infatti gli unici abitanti dell’isola.
La Pelle Fredda rientra nella tradizione che fa ovviamente capo a Innsmouht e ai suoi uomini pesce, ma poi prende una strada tutta sua, originalissima, e fa parte di quel novero di romanzi che io credo sempre siano stati scritti avendo in mente me, perché sono egocentrica e presuntuosa e perché è bello sentire di avere dei fratelli sparsi in giro per il mondo, impegnati a raccontare le tue stesse storie.
Non avrei mai pensato che a portare sullo schermo La Pelle Fredda sarebbe stato proprio Xavier Gens: non ha mai toccato tematiche simili nel corso della sua carriera e se si pensa a un cinema romantico (perché Cold Skin è un’opera, sia nella sua versione letteraria che in quella cinematografica, piena di romanticismo), è uno degli ultimi registi a venire in mente. Eppure, ha fatto un lavoro di trasposizione egregio e di una fedeltà che, in alcune sequenze, sfiora la filologia.
Certo, ha modificato alcuni aspetti del romanzo di Piñol, vuoi perché un po’ troppo scabrosi e anche reiterati, che in un romanzo va benissimo, ma al cinema forse un po’ meno; vuoi per motivi di budget, non altissimo, che hanno impedito la realizzazione di un paio di scene; vuoi anche perché se non ci si riserva la libertà di tagliare o aggiungere dove si ritiene necessario, si perde il significato stesso del termine adattamento, che non deve essere il romanzo rifatto con le figurine, ma una interpretazione personale di una storia già esistente.
A parte questi tagli e la scelta, a mio parere ottima, di tacere sul passato del protagonista e di non dargli neanche un nome, lasciando così il suo personaggio a vegetare in un qui e ora eterno, come del resto il suo antagonista, Cold Skin non penso farà storcere il naso ai puristi del romanzo, posto ne esista qualcuno al mondo.
Cold Skin è una co-produzione franco-spagnola, ma con un cast anglofono. Troviamo infatti Ray Stevenson e David Oakes, rispettivamente nei ruoli di Gruner, l’uomo del faro (che nel romanzo si chiama Batis Caffo), e del povero disgraziato che arriva sull’isola sperando di dover soltanto fare rilevamenti meteorologici in completa solitudine per un anno. Insieme a loro, la spagnola Aura Garrido che interpreta Aneris (sapete leggere al contrario, sì?), la misteriosa donna anfibia allevata da Gruner come un cane, nonché sua occasionale amante, mentre persegue con tenacia incrollabile lo sterminio di tutta la sua razza. E sarà bene che queste facce siano di vostro gradimento, perché non ne vedrete altre per quasi due ore.
Obbligati al più completo isolamento, assediati ogni notte da orde di uomini-pesce che escono dall’oceano e attaccano il faro senza curarsi delle numerose perdite inflitte loro, i Gruner e il nuovo arrivato cercano di stabilire una routine e una convivenza pacifica molto complicate. Sono due persone che, se fosse l’alleanza provvisoria in funzione anti mostri a legarli, si odierebbero, tanto sono diversi. Tutto ciò che li unisce è la paura del nemico comune.
E se nemico non fosse? Se, al contrario, i nemici fossimo noi? E non solo di creature che pare vivano in quelle acque e su quell’isola da molto tempo prima dell’arrivo degli sparuti esemplari di umanità che ora le combattono, nemici proprio di noi stessi.
Non ci viene mai detto, né nel film né nel romanzo, in che modo e quando la guerra tra il guardiano del faro e gli esseri del mare sia cominciata. Non sappiamo neanche se sia un ciclo che si perpetua da sempre. Quello che ci è dato di intuire è che le creature anfibie (le “ranacce”, le chiamano nel libro) si limitano a difendere la loro casa e la loro sopravvivenza.
Il fatto che ci vengano negate parecchie informazioni, non solo sul perché ci si sia ritrovati ad ammazzarsi a vicenda ogni notte, ma anche sui trascorsi dei due personaggi, sulle dinamiche che hanno portato alla cattura di Aneris, ci rende complicato prendere nettamente le parti di qualcuno. E tuttavia, mentre la storia procede e il nuovo arrivato (che più tanto nuovo non è) comincia a conoscere meglio Aneris e quelli della sua specie, diventa evidente come forse possa esistere un’alternativa alla crudeltà che scandisce le giornate su quell’isola così distante da tutto e così inospitale.
Gens, che sul senso di isolamento e alienazione ha girato uno dei suoi film migliori, questa volta non deve raccontare di un pugno di personaggi chiusi in un bunker, ma di un tipo di solitudine diversa, quella di un individuo polverizzato nella natura selvaggia, dimentico della civiltà, eppure ancora così infettato dalle sue appendici da portare in quei luoghi così belli da ferire lo sguardo, la parodia di un conflitto armato che ricorda in maniera sinistra la Prima Guerra Mondiale: logoramento, tenuta della posizione, attacchi sterili e sanguinosi.
Si fugge, perché in un’isola come quella del film vi si arriva solo se si sta scappando da qualcosa, dal mondo civilizzato solo per ritrovarsi a reiterare stancamente tutte le sue convenzioni.
Fino a quando la vicinanza con una creatura come Aneris non le rompe tutte, le convenzioni.
A quel punto, tornare indietro non si può più, non si è più uomini con un posto prestabilito in società, e non si è neanche anfibi e liberi come Aneris e i suoi concittadini del regno degli abissi. Si è condannati a vivere a metà, inchiodati su quella lingua di terra a pochi passi dal mare.
Lontano dalla violenza estrema che ha sempre contraddistinto il suo cinema, e anche dal cinismo di The Divide, Gens sembra tuttavia trovarsi a suo agio in un contesto più – mi si perdoni il termine – “commerciale” e alla portata di un pubblico più ampio. Per commerciale non intendo dire che Cold Skin sia un film facile o leggero, ma che può essere fruito da chiunque senza le zavorre spesso rappresentate dagli eccessi gore delle precedenti opere di Gens. Si dimostra qui un regista maturo, molto attento alla storia, con un gran senso dello spazio, che in Cold Skin va dall’essere sconfinato (e quindi campi lunghissimi sulle coste dell’isola) a claustrofobico (tutte le scene ambientate nella stanzetta in cima al faro) e un occhio privilegiato per cogliere non tanto la bellezza da cartolina della natura, quanto le sue profonde indifferenza e neutralità.
La fotografia non è mai artificiosa, non cerca mai di rendere morbidi o accoglienti dei luoghi che sono l’esatto opposto, non tenta di costruire un idillio, ma un rapporto molto complesso tra il protagonista e il suo ambiente che va dalla contrapposizione netta e feroce a quella che appare addirittura come un’assimilazione parziale.
È una storia che si racconta attraverso le immagini, con pochissime parole e persino la voce fuori campo, un po’ troppo insistente nei primi minuti, va sparendo mentre il film prosegue, perché la comunicazione verbale perde gradualmente di significato.
Un film che ti scivola via in un lampo, come il romanzo da cui è tratto, che lascia tanti interrogativi e uno struggente desiderio di mare quando cominciano a scorrere i titoli di coda. Uno di quei film che ti fa venire voglia di partire e non voltarti mai più indietro.
“the divide” mi aveva fatto stare malissimo, ma questo mi attira proprio tanto già solo dai colori della locandina *.* lo metto in lista (anche perché a quanto pare sono in vena di storie “marine” ultimamente: proprio ieri ho iniziato “la prova del mare” dopo aver letto la tua recensione sul blog 😀 inquietudine a palate!)
Allora devi correre al cinema a vedere il film di del Toro. Io ancora mi devo riprendere 😀
Avevo già una voglia matta di vederlo dal trailer e tu l’hai amplificata. 😀
Non sapevo che fosse tratto da un libro, vuol dire che intanto lo cerco. ❤
Sì, lo trovi su Amazon in cartaceo, perché non mi pare esista una sua edizione in digitale. Lo consiglio con passione!
Perfetto! ❤
Il romanzo originale è interessante, perchè raramente viene etichettato come opera horror/lovecraftiana: nella biblioteca locale l’ho trovato a sorpresa tra la letteratura spagnola (e riservato per di più agli studenti del corso di lingue e letterature straniere). Solo dalla trasposizione filmica mi sono effettivamente accorto che poteva avere elementi lovecraftiani, tanto venivano “nascosti” dalla quarta di copertina.
Horror è una definizione che gli sta un po’ stretta. Al contrario, gli elementi lovecraftiani ci stanno tutti, perché non si può non pensare a Innsmouth quando dal mare emerge un’intera popolazione di esseri anfibi che ti vogliono mangiare. Poi gli sviluppi sono molto più complessi e sfaccettati di così, ma credo che, per vendere il libro a un pubblico più ampio, si sia voluto evitare consapevolmente di evidenziarlo.
In italiano il film non è uscito, vero? Da una veloce ricerca non ho trovato nessuna informazione a riguardo. Comunque il libro ha suscitato il mio interesse. Ho visto che è ancora reperibile nelle librerie online e anche usato al Libraccio.
Ecco, non mi sarei aspettato di leggere niente di diverso da quello che hai scritto 🙂 Con “Cold Skin” Gens si è confrontato sì con tematiche che, almeno fino ad oggi, non erano mai sembrate essergli granché congeniali ma, come speravo, ha comunque vinto la sfida dimostrando così che per lui davvero non ci sono… frontière(s) 😉
Gens è sempre stato il regista che ho amato meno, di tutta l’ondata francese, e invece si sta dimostrando il più continuo, il migliore, l’unico che ha davvero resistito.
Citare Lovecraft parlando di questo film – e forse anche del libro, che però non ho letto – mi pare sbagliato, dato che non vedo nessuna parentela con Grandi e Piccoli Antichi e queste creature, a parte il fatto che vivono nell’acqua. Ma io le vedo lontanissime, e di discendenze molto diverse. Possibile – non lo dico come critica a questo articolo, eh!, ma come generica riflessione – che ogni volta che appaiono delle creature bisogna sempre etichettarle come Lovecraftiane? Bisognerà anche finirla, prima o poi, iniziare a guardare altrove, o creare nuove mitologie per il futuro (se è ancora possibile). Penso che ormai, giunti al punto in cui siamo, Lovecraftizzare tutto sia troppo comodo, una pigrizia mentale, e in casi come questo un sottovalutare i “mostri”.
.
A parte questo, e detto che con l’articolo mi trovo d’accordo, sono costretto ad ammettere che come temi, come contenuti, come intreccio narrativo, come pathos, come possibilità, come personaggi, come creatura, come tutto, questo film batte Shape of the Water 10 a 1.
Anche le scene di sesso, che in Shape parevano appiccicate a forza nel tessuto di una fiaba, qui sono più che adatte, in un certo senso attese, con un loro senso, un quid, un perchè.
Film inatteso.