Regia – Samuel Fuller (1950)
Il primo film di Fuller è un successo al botteghino, se non altro in proporzione ai pochi soldi investiti da Lippert. Il produttore consegna a Fuller la “bellezza” di 100.000 dollari per adattare un articolo scritto dallo stesso regista su James Reavis, un famoso truffatore che, tra il 1887 e il 1895, ingaggiò una furibonda battaglia legale con il governo degli Stati Uniti per la proprietà dell’intero territorio dell’Arizona, di cui Reavis diceva di essere il barone.
È una vicenda complicatissima, fatta di matrimoni di convenienza, documenti contraffatti, piani criminali progettati con anni di anticipo e guerre di nervi con i possidenti locali e gli investigatori inviati da Washington per porre fine alla follia del baronato, una di quelle storie che, se non fosse completamente vera, verrebbe considerata troppo inverosimile anche per un film.
Reavis è stato un falsario e un impostore, capace di inventare di sana pianta la storia del Barone Peralta, un nobile spagnolo cui il re Ferdinando VI diede concessioni per un ammontare di 48.000 chilometri quadrati, ovvero quasi l’intera superficie di quello che poi sarebbe diventato lo stato dell’Arizona.
La truffa era nata in base a una legge che impegnava il governo degli Stati Uniti a riconoscere assegnazioni di terra fatte in precedenza dai governi spagnolo e messicano. Reavis si approfittò di questa legge per mettere in piedi una frode gigantesca, e per poco non ci riuscì.
Ovviamente Fuller non ha la pretesa di raccontare tutta la storia nei dettagli e si prende tante libertà rispetto a quanto realmente accaduto: sarebbe stato impossibile comprimere in poco più di 90 minuti una vicenda ingarbugliata e anche di non immediata comprensione, con tutta la ridda di cavilli legali cui Reavis dovette appigliarsi per rendere plausibile la sua frode, le vicende dinastiche inventate di sana pianta, la documentazione sterminata grazie alla quale il truffatore riuscì a mettere in piedi un castello di carte all’apparenza inattaccabile.
Alla fine, Reavis venne smascherato grazie all’analisi dettagliata di tutte le sue contraffazioni, ma Fuller questa conclusione della storia non piacque e preferì dare al suo film un risvolto romantico, con l’impostore che confessa per amore e un duello quasi cavalleresco tra lui e l’investigatore inviato in Arizona dal governo americano per smascherarlo.
A dare volto e corpo a Reavis troviamo un giovane e non ancora famoso Vincent Price, che appare e scompare sotto una pioggia torrenziale come un fantasma e sfodera un fascino e un carisma con pochi eguali nella storia del cinema. Indossa il ruolo quasi fosse un abito realizzato su misura per lui, con la sua recitazione sempre un po’ sopra le righe, ma non ancora caricatissima come nei film di Castle o in quelli di Corman. Già si vede quanto la macchina da presa lo ami, quanta intensità sprigioni nei primi piani e diventa perfettamente naturale credergli anche quando sappiamo che sta raccontando menzogne.
Ecco, l’intento di Fuller è quello di indirizzare la simpatia del pubblico verso un pazzo megalomane, dotato di tenacia incrollabile e avidità gargantuesca, capace di passare sopra a tutto pur di raggiungere i suoi obiettivi: per falsificare un antico documento risalente al XVIII secolo, si fa addirittura monaco, allo scopo di introdursi indisturbato nella biblioteca dell’abbazia spagnola dove il documento è conservato.
Reavis è dipinto come un uomo privo di scrupoli che finisce per capitolare di fronte all’amore, e in questo è molto simile al Ford di Ho Ucciso Jesse il Bandito, che per amore spara al suo migliore amico. Il personaggio è quindi il secondo in una nutrita galleria di anti-eroi e reietti di ogni risma e, se nell’opera di esordio questo attaccamento ai personaggi marginali e maltrattati dalla storia e dalla società era ancora embrionale e non del tutto espresso, ne Il Barone dell’Arizona comincia a prendere una forma compiuta.
Western per l’ambientazione, crime per la trama, parabola esistenziale per l’approfondimento del suo protagonista, il film è molto dialogato, con poca azione e una prima parte che fa fatica a ingranare, proprio a causa delle complicazioni nello spiegare al pubblico un raggiro così vasto e sofisticato. Bisogna dare atto a Fuller (autore anche della sceneggiatura) di aver reso abbastanza bene l’imbroglio di Reavis in tutte le sue ramificazioni, compattandole nei primi venti minuti e dedicando il resto del film al suo insediamento come barone nelle terre dell’Arizona, al suo matrimonio con la trovatella Sofia (“erede” del primo Barone Peralta) e ai vari espedienti legali escogitati del governo americano per scalzarlo dal suo trono, tutti rispediti cortesemente al mittente da Reavis e consorte, ingenua e innamorata, che non immagina nemmeno quanto tutta la sua vita sia costruita su un falso.
Girato in appena 15 giorni, Il Barone dell’Arizona è il secondo film del trittico che Fuller avrebbe diretto per Lippert e, come il suo predecessore, sconta una povertà di mezzi evidente anche a un occhio poco attento, ma può comunque vantare dei tocchi di classe che portano alla luce un futuro grande regista, soprattutto in quella scelta dei piani a più alta caratura emotiva che poi sarebbero stati un tratto distintivo del resto della carriera di Fuller.
Questi primi film sono dei diamanti grezzi con gli angoli ancora tutti da smussare. Eppure è impossibile non notare la potenza della regia di Fuller, soprattutto quando essa è quasi invisibile. C’è una scena, più o meno a metà film, in cui Reavis deve convincere il proprietario di una compagnia ferroviaria a pagarlo per permettergli di far passare i treni nella sua terra; è un dialogo molto lungo, e si conclude con l’irruzione dei contadini dell’Arizona che non vogliono perdere le loro proprietà. Fuller lo conduce quasi tutto in una sola inquadratura, con grande profondità di campo e gli attori che si muovono e si spostano in scena come un balletto. La MdP si muove appena, su un carrellino che abbraccia nella sua interezza l’ufficio di Reavis e, sempre in primo piano, c’è il modellino di una locomotiva.
Questo è cinema, è grande cinema. E forse sì, deriva dall’arte di arrangiarsi perché non c’era tempo per coprire tutti i piani, ma è l’effetto che conta.
Altra sequenza memorabile è il tentato linciaggio di Reavis da parte dei campagnoli infuriati. La legge è dalla loro parte e, anzi, rappresentano i pionieri, i destinatari privilegiati della retorica americana sulla frontiera, mentre Reavis è un truffatore che ha anche la colpa di voler portare negli Stati Uniti un anacronismo incomprensibile, decadente e, orrore, europeo come il baronato. Ma, per come Fuller dirige il tutto, la simpatia dello spettatore va senza alcuna remora a Reavis, a sua moglie e ai suoi complici. Ed è una simpatia che non si può spiegare, se non con la potenza del cinema, quando a farlo è un regista considerato tra i grandi classici americani, ed è forse il meno legato ai valori tipicamente americani tra tutti.
E infatti, dagli Stati Uniti Fuller si sarebbe allontanato e spesso il linciaggio (anche se solo metaforico, per fortuna) lo ha subito.
Il cinema di Fuller, di certo non noto per le sue sottigliezza o raffinatezza, è in realtà sempre molto colto, anche quando gira con 100.000 dollari in 15 giorni, forse troppo, verrebbe da dire. Non credo sia un caso se una copia di questo film è conservata al MoMA. Diamante grezzo quanto volete, ma c’è già parecchio da studiare e da imparare.
Sì, decisamente non si finisce al MoMA senza motivo. E se Vincent Price è poi diventato famoso lo dobbiamo ANCHE a Samuel Fuller (che qui dava la netta impressione di aver già intuito quale villain di razza avrebbe potuto diventare Vincent nel prossimo futuro) 😉
Infatti, credo che questo fosse il suo primo ruolo da protagonista assoluto!
Purtroppo di Fuller ho visto solo quel filmone de ‘il corridoio della paura’… e con questa rece, non posso che dover approfondire la sua filmografia, magari da questo film appena recensito.In italiano però non trovo niente… Consigli? O direttamente in sub eng?
Purtroppo in italiano non credo che esista. E neanche con i sottotitoli italiani. Però quelli in inglese si trovano facilmente.
Ok, grazie