Detroit

 Regia – Kathryn Bigelow (2017)

Posto che, a mio modesto parere, il capolavoro della Bigelow è Zero Dark Thirty, un film che non mi stanco mai di rivedere, e di studiare, che ha fatto scuola nel corso degli anni, ha definito uno stile ed è presente come un’ombra in decine di opere contemporanee tra cui, una a caso, Sicario, c’è da dire che Detroit è il suo film più duro, più indigeribile, nonché più d’autore. Non che questo significhi un abbandono dei codici e del linguaggio del cinema di genere: sarebbe impossibile, dato che un occhio attento al genere ha sempre contraddistinto la carriera della regista, anche in un’opera intima come The Weight of Water.
Detroit è d’autore nel senso che la Bigelow non concede mai sollievo al pubblico, né tramite l’uso della colonna sonora, quasi assente se si esclude la musica di repertorio (e su quella ci sarebbe tutto un discorso a parte da fare), né tramite una qualunque forma di alleggerimento o spettacolarizzazione.
Detroit è uno schiacciasassi di oltre due ore in cui vengono dispensati a piene mani dolore e crudeltà e da cui non c’è via d’uscita.

La Bigelow spoglia i suoi attori dal loro status di star, lascia la macchina da presa (a mano) libera di catturare gli eventi con occhio chirurgico, per poi sezionarli al montaggio (di William Goldenberg e Harry Yoon), cui è toccato decidere cosa e quando mostrare in una mole di materiale sterminata, dato che il film è stato girato con quattro MdP in contemporanea, tutte con ampi margini di improvvisazione; mischia immagini di repertorio alla finzione scenica per dare l’impressione di una cronaca assolutamente fedele di un avvenimento storico che pesa come un macigno sulla coscienza collettiva degli Stati Uniti; mai come in questo caso si può parlare di film politico, perché la violenza in campo non si fa mai spettacolo, proprio in virtù del realismo estremo adottato da ogni reparto.
E tuttavia, il realismo estremo è un artificio raffinatissimo (del resto, non lo era anche in The Hurt Locker e Zero Dark Thirty?), ché la storia del raid della polizia al Motel Algiers, e il processo che ne è conseguito, da non dimenticare e da non prendere come una coda aggiunta al film tanto per, non può essere decifrata nella sua interezza, senza riempire qualche buco e rischiarare qualche punto oscuro romanzando.

Non che la Bigelow lo nasconda, anzi, inserisce persino una didascalia in chiusura del film, che è speculare a quella inserita in apertura a Zero Dark Thirty: il cinema è sempre finzione, anche quando narra fatti veri, perché si tratta essenzialmente di scelta, scelta del punto di vista da adottare, scelta di quali fatti raccontare e quali omettere. Non ci sarà mai, in un’opera di fiction (ma forse neanche in un documentario, che ha pur sempre un punto di vista), l’esposizione nuda e cruda di eventi storici. Di conseguenza, farà sempre storcere il naso a qualcuno. Nel caso di Detroit, si sono incazzati un po’ tutti e basta dare una rapida occhiata alle recensioni in rete per rendersene conto: c’è chi accusa il film di dare una pessima immagine dei personaggi bianchi e della polizia in generale; chi rivolge a esso l’accusa uguale e contraria, con il corollario che il colore della pelle della Bigelow le impedirebbe di dirigere un film del genere; chi parla di un compiacimento nell’esposizione della violenza che celerebbe una certa ambiguità morale (ma dove? Ma cosa vi fumate la mattina?); chi addirittura parla di finale “zuccheroso”.
È mia opinione che quando un film riesce nell’impresa di scontentare tutti si tratta di un grande film. Solo che il destino toccato a Detroit è un oblio del tutto immeritato. Il che dimostra quanto siano più facili da sopportare operazioni acchiappa consensi come Moonlight rispetto alle dolorose mazzate sensoriali che la Bigelow ci ha regalato.

Detroit non cerca facili agganci al presente, un presente segnato dalle stesse problematiche e dagli stessi orrori visti nel film. Non è necessario, perché il film, come del resto tutte le grandi opere di narrativa, basta a se stesso e il gancio con l’attualità è inserito nella sua struttura, nonché evidente a partire dalla locandina: “This is America”, questa è l’America, non era ormai mezzo secolo fa. Ed è il motivo per cui, dopo il culmine emotivo del film rappresentato dalla conclusione della nottata da incubo al motel, la fase processuale assume un’importanza enorme, con i suoi crimini rimasti impuniti e l’amarezza che prende il posto della furia dei minuti precedenti.
Detroit è un film molto coerente, è un vero e proprio macigno di coerenza, nello stile e nei contenuti. È rigido e inflessibile, non ha proprio nulla di ambiguo; al contrario, la sua è una morale ferrea che mette in discussione una società intera. Non solo il razzismo strisciante che coinvolge più o meno tutti, ma anche l’indifferenza con cui il massacro all’Algiers avviene. Gli eventi precipitano ovviamente grazie ai tre agenti coinvolti in prima persona, eppure non c’è nessuno che abbia la forza di fermarli. Sia la polizia di stato che la guardia nazionale si girano dall’altra parte, quando non collaborano attivamente, e se c’è qualche forma di opposizione è di carattere individuale, se c’è un briciolo di solidarietà nei confronti delle vittime, è fatta di piccoli gesti da compiere di nascosto e in silenzio.

Spesso Kathryn Bigelow è stata erroneamente paragonata a Clint Eastwood. In tutta sincerità, non ne vedo il motivo. Forse questa correlazione è dovuta all’etichetta che entrambi i registi si sono visti appiccicare di cineasti “di destra” tollerati, e solo in parte, a sinistra. A parte che non conosco nei dettagli le idee politiche della Bigelow, e neanche mi interessano, non potrebbero esserci due registi più diversi. Se Eastwood è l’ultimo dei classici hollywoodiani, la Bigelow ha cominciato la sua carriera a metà degli anni ’80 e ha sempre avuto un’estetica molto moderna, d’assalto, quasi punk, se mi passate il termine. Uno stile adattissimo a mettere in scena guerre sporche. E infatti Detroit è un film di guerra, e verrebbe da dire che Kathryn Bigelow ha sempre diretto film di guerra sin da Il Buio si Avvicina. È una semplificazione, ma non è poi così distante dalla realtà.
Sapete tutti che non sono proprio una fan della macchina a mano, ma il modo in cui la Bigelow ha sviluppato il suo utilizzo nel corso degli anni è sbalorditivo: ne ha fatto quasi una forma espressiva e artistica a sé stante. Quei tagli nervosi, gli zoom improvvisi, le panoramiche a schiaffo, sembrano altrettanti colpi di pennello impressi da un pittore sulla tela.

Se poi leggete Detroit alla luce dell’intera carriera della Bigelow, troverete non solo la profonda coerenza interna al film di cui abbiamo parlato, ma anche la coerenza di una regista che si è saputa evolvere restando comunque fedele alle tematiche che le sono care sin dagli esordi: la guerra in un contesto urbano, la violenza come droga, l’amicizia tradita, il discorso complesso e sempre presente, sull’inclusione e sulla psicologia del branco, la figura di un outsider che non sa scegliere da che parte stare e si ritrova preso nel mezzo, a pagare colpe non del tutto sue. Il cinema della Bigelow è un edificio splendido che ha come fondamenta queste tematiche e in una vicenda come quella narrata in Detroit, ci sono tutte e tutte vengono rinnovate ed esaltate dalla portata politica del film.
Non è la tipica pellicola americana d’impegno civile, Detroit, non è Selma, tanto per fare un esempio. Fa parte di un’altra razza, è cinema di genere, è thriller, è war movie, è un film d’autore che si sporca le mani. Potrebbe essere un’opera partorita dalla New Hollywood, addirittura, di quel momento storico irripetibile in cui il cinema popolare si faceva veicolo di una rivoluzione, ma contaminata dalla fisicità dell’estetica della Bigelow che, leggevo ieri, gira “come un uomo”.
E io, di fronte a queste esternazioni, posso solo prendere la parete più vicina a testate fino a quando non mi esce il cervello dalle orecchie.
La Bigelow non gira “come un uomo”, la Bigelow gira come una grande regista e basta. E se pensate che un film estremo come Detroit sia esclusivo appannaggio di chi “gira come un uomo”, non capite un cazzo di cinema e, probabilmente, della vita in generale.

10 commenti

  1. L’ho visto ieri sera, bellissimo. Ero curioso di leggere la tua recensione (anche perché le tue sono le uniche recensioni di cinema che leggo). Adoro le ultime tre righe, però è anche vero che nessuna donna gira come lei. Ci sono registe bravissime in giro, ma come la Bigelow c’e solo la Bigelow.

    1. Su questo siamo perfettamente d’accordo: ma non è che nessuna donna gira come lei, nessun regista gira come lei, è unica.
      Peccato che sia drammaticamente sottovalutata e io non ho mai capito perché.
      Grazie, comunque, fa piacere sapere di essere letti 🙂

      1. Giuseppe · ·

        Nemmeno io capisco perché si persista nel sottovalutarla (“gira come un uomo”, poi… per quanto ancora la dovremo sentire? 😦 ) forse da fastidio che vada dritta per la propria strada, sapendo magnificamente badare a sé stessa e fottendosene alla grande delle pretestuose etichette (tipo l’essere “propagandista” per via di The Hurt Locker e Zero Dark Thirty, ancora me lo ricordo) che, di volta in volta, i critici di turno pretendono di appiopparle? Cosa che, puntualmente, è avvenuta anche per Detroit? Tra l’altro da te ottimamente recensito: hai mantenuto la promessa in tempi brevissimi, e non era certo facile con un film come questo. Ma hai affrontato la sfida e l’hai vinta, né più né meno come avrebbe fatto Kathryn Bygelow in persona 😉

        1. The Hurt Locker e Zero Dark Thirty erano film “di propaganda”, questo è un film “moralmente ambiguo”. Oh, non gliene va mai bene una 😀

  2. Eccola, la stavo aspettando 🙂

    D’accordissimo su tutto il discorso generale: veramente si è letto tutto e il suo opposto (troppo a favore dei neri, troppo poco, eccetera) e che è un film molto più difficile di altri premiatissimi (quella grandissima delusione di Moonlight ma anche – imho – Get out che invece mi è piaciuto). È incredibile come per stile e capacità Bigelow continui ad evolvere: è veramente unica.

    Ma (doveva esserci un ma!) secondo me questa volta non funziona tutto alla perfezione… Sono i tre poliziotti a non convincermi. Mi spiego meglio: sono palesemente due criminali e un cretino, e solo secondariamente dei razzisti completamente integrati al sistema. Boh a me è parso che calcando un po’ troppo la mano su questi tre si perda un po’ il quadro generale (che in un film ambientato proprio durante quella rivolta e che si intitola Detroit dovrebbe essere fondamentale). Mi chiedo se sia un’impressione mia, ma veramente spesso pare che tutti quelli attorno (militari, altri poliziotti, eccetera) agiscano di nascosto, abbiano paura di mostrarsi gentili o anche solo umani, perché appunti impauriti da quei tre lì e basta… Per non parlare di quei cioccolatai (spoiler forse) di quelli degli affari interni…

    Vabbè questi erano i miei 2 cents, spero ci sia un minimo di coerenza in quello che ho scritto che magari sembra che non mi sia piaciuto ma tutta la prima parte è potentissima e sono un amante dei finali con un anti-climax (anche se ok mi è parsa a tratti debole pure la parte processuale eh). Detto questo io la amo ancora Kathryn Bigelow.

    P.s. Ultimissimo appunto…E togliamolo questo “la” da davanti a Bigelow, a meno di dire anche “lo Spielberg” ahah 😀 (e non sai che sforzo devo fare ogni volta da buon milanese…)

    1. No no, la coerenza c’è, ci mancherebbe, ma io la cosa di due cretini e un criminale che tengono in scacco Guardia Nazionale e polizia di stato l’ho vista come un’ulteriore spunto di critica sociale. Non più la semplice banalità del male, ma proprio l’imbecillità del male.
      Sul “la”, sai che ho sempre il dubbio se usarlo o no?

  3. ‘La Bigelow gira come un uomo’. Questa esternazione è (anche) mia. Anzi, lo penso proprio. Pensavo di capirci qualcosa di cinema, ed è probabile che non capisca un cazzo della vita in generale, anzi, su quello non ci piove. Vorrei scriverci su, ma è meglio di no, se non ci capisco una sega che scrivo a fare? Meglio impiegare il mio tempo a lisciarmi la coda di paglia va là che almeno uso il tempo in maniera più produttiva. Bel post comunque, peccato per la mancanza di rispetto delle opinioni altrui – se gli altri ci trovano ambiguità o finali zuccherosi a te che te frega? Non è avere il cervello fumato, è un modo di vedere le cose con un’altra prospettiva, dovrebbe essere il bello del cinema, no? A quanto pare no. Ritorno a lisciarmi la coda. Peace and love.

    1. Sinceramente, una persona che per fare un complimento a una regista donna le dice che “gira come un uomo” capisce davvero poco. Perdonami, forse volevi dire altro, ma io lo trovo solo estremamente offensivo, quasi rivoltante.
      E comunque sì, mi frega quando le persone sono accecate dall’ideologia e dicono stronzate.

    2. Più che la faccenda del non capire un cazzo della vita vorrei capire come girano i film le donne, oppure se quello del regista è un mestiere solo da uomo. Wonder Woman e Babadook sono girati come lo farebbe un uomo?

      1. Infatti, sono semplicemente film ben diretti, non hanno genere. Il cinema non dovrebbe proprio badare a certe cose.

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