Regia – Anna Biller (2016)
Prima di tutto, un po’ di dati tecnici per mandarvi in confusione: The Love Witch è stato girato in 35mm e montato con una vecchia moviola, roba che non si faceva da una ventina d’anni. Cosa significa? Che la Biller (regista, sceneggiatrice, produttrice, montatrice, scenografa e costumista del film) si è messa lì a tagliare la pellicola e a giuntarla come si faceva ai bei tempi del cinema precedente l’avvento del digitale. Da un punto di vista tecnologico, la preistoria. È come se io, domattina, andando in ufficio, non mi trovassi più di fronte a un pc, ma a una roba del genere, su cui – ve lo dico sinceramente – non saprei neanche dove mettere le mani.
È una decisione, quella di realizzare un film con un procedimento simile, che richiede una bella dose di follia, non solo per i costi, che con la pellicola lievitano (ormai, se si esclude la pazza oggetto del post, a girare in 35mm sono rimasti giusto Spielberg, Wes Anderson e JJ Abrams, ma solo con Star Wars), ma anche per tutta una serie di difficoltà pratiche, legate a un sistema obsoleto e superato da qualche lustro. Non pensate sia solo un problema relativo al supporto, è anche un discorso di linguaggio vero e proprio. Fate caso a come è cambiato il montaggio a partire dall’introduzione dei primi software di video editing e a quanto è diventato manipolabile un film in post-produzione, rispetto a una manciata di anni fa.
Ma tutto questo ad Anna Biller non interessa, perché il suo intento è quello di replicare, in maniera così perfetta da rendere la sua copia indistinguibile dall’originale, quel cinema artigianale e da battaglia della seconda metà degli anni ’60, non proprio e non ancora exploitation, ma con già presenti i germi della deflagrazione traumatica degli anni ’70, il cinema dei vari Corman, Jess Franco (primo periodo) e, qui da noi, Mario Bava, con una spruzzata di Hammer e folk horror inglese che ci sta sempre bene e non guasta mai.
La Biller ha dalla sua una conoscenza enciclopedica del genere e un direttore della fotografia così bravo da seguirla passo dopo passo nei suoi deliri (in senso positivo, non fraintendetemi). Non è grindhouse, cerchiamo di essere il più chiari possibili; è un’operazione molto più elegante e raffinata rispetto alla simulazione delle sporcature sulla pellicola, dei salti di fotogramma e dei raccordi sbagliati (anche se questi ultimi non mancano), è un tentativo, pienamente riuscito, di recupero filologico di quel cinema fatto con pochi mezzi ma in confezione di gran lusso, dai colori esplosivi, recitazione ingessata, toni melodrammatici, ritmo letargico. E non solo, The Love Witch ha anche dei punti di riferimento più elevati, come Sirk e Hitchcock.
Non è roba per i nipotini scemi di Tarantino, insomma. Il cinema a cui guarda la Biller è davvero sommerso, dimenticato e perduto. Non gioca sul sicuro, non si inserisce nel filone comodo della nostalgia, ma va a pescare dove nessuno vuole più andare, perché è troppo difficile, troppo lontano da noi, troppo poco spendibile per la cultura pop/nerd contemporanea.
Che poi Corman, la Hammer, persino Franco abbiano rappresentato parte della base su cui si è andata a innestare quella cultura è un altro discorso, che riguarda più l’ignoranza diffusa e la memoria storico-cinematografica congelata al 1985 o giù di lì. Sta di fatto che Anna Biller procede a ritroso, quasi andasse alla ricerca delle origini dell’horror contemporaneo e volesse dirci che la vera modernità, di temi e contenuti, risiede lì, non negli anni ’80. Non è l’unica a compiere un processo del genere: prima di lei, c’è stato un pugno di film diretti da Peter Strickland, ma con un’attitudine molto più cerebrale rispetto a quella della Biller e anche con uno sguardo d’autore, a mio avviso, più centrato. E poi c’è il duo francese di Amer e L’étrange couleur des larmes de ton corps, che però si è sempre rifatto al cinema italiano degli anni ’70. Ma il punto di vista è simile. La Biller è ancora più certosina e maniacale nella ricostruzione, e tuttavia non possiede le stesse doti di messa in scena dei nomi che abbiamo appena menzionato, quindi The Love Witch, al di là del fascino di costumi, scenografie e colori, non può essere definito un film completamente riuscito, ma una bizzarria di certo interessante, che però rischia di essere giudicata solo per lato estetico e non per l’estrema intelligenza con cui è stata scritta.
Perché è vero che The Love Witch è un film molto caratterizzato formalmente, ma è anche vero che girarlo in quel modo corrisponde a delle esigenze che non sono soltanto quelle di sfoggiare dei dati tecnici quantomeno singolari. Non si può neppure parlare di film nostalgico, non nel modo in cui si usa l’aggettivo per riferirsi, tanto per fare un esempio, a Turbo Kid. Le intenzioni della Biller sono, prima di tutto, satiriche e i vari sotto testi disseminati nel suo film non sono proiettati al passato, come l’estetica farebbe presagire, ma guardano dritto al presente e a tutte quelle problematiche su cui ci siamo arrovellati tante volte da queste parti e su cui il cinema di genere si sta interrogando negli ultimi anni.
The Love Witch racconta di una giovane donna, Elaine (Samantha Robinson), che si trasferisce in una piccola città dopo essere passata attraverso una traumatica separazione dal marito e alla seguente morte di quest’ultimo, anche con pesanti sospetti riguardo la sua responsabilità. Elaine sogna di incontrare il principe azzurro e ha una teoria molto personale su come conquistare un uomo, quella di trasformarsi nella realizzazione concreta di ogni sua fantasia (sì, c’è puzza delle mogli di Stepford lontano un miglio e il film viene anche citato a più riprese). Solo che Elaine è anche una strega e gli uomini cadono ai suoi piedi in virtù degli incantesimi d’amore da lei creati. Dopo averli stregati, Elaine però si stufa e li elimina. A volte accidentalmente, usando dei filtri e delle pozioni un po’ troppo potenti; altre portandoli a suicidio dopo averli lasciati. Si tratta di un personaggio del tutto amorale e psicotico, che rifiuta in maniera programmatica qualunque discorso sulla parità dei sessi e che è pronta a plasmare il suo carattere, indefinibile, a seconda di quello che l’uomo di turno desidera da lei. Salvo poi trovare insopportabile l’attaccamento nei suoi confronti e liberarsi del fastidio per passare subito ad altro.
Cosa vuole dirci Anna Biller raccontandoci una storia simile? E perché questa storia in particolare doveva essere raccontata come la copia esatta di un cinema morto e sepolto, sfruttandone ogni più ridicolo (agli occhi di noi contemporanei) vezzo, ogni difetto tecnico (gli attacchi sbagliati, il montaggio ad accettate, la lunghezza delle scene eccessiva e la sfiancante staticità), ogni stilema superato da un’evoluzione del linguaggio ormai irreversibile?
È questo che dobbiamo chiederci, cercando di andare oltre l’evidente narcisismo che sottende tutta l’operazione e non liquidando un’opera così complessa come un mero esercizio di stile. E bisogna anche sedersi di fronte a 120 minuti che potevano benissimo essere 60 e non sarebbe cambiato niente, comprendendo però di avere tra le mani, da un lato una sorta di reperto archeologico riesumato dopo essere stato sepolto per oltre mezzo secolo; dall’altro un contenuto che, magari se espresso in modo meno compiaciuto, poteva essere esplosivo. Non sto criticando la scelta di girare il film come se fossero gli anni ’60 (io lo ribadisco, perché aspetto al varco il primo commento inacidito e metto le mani avanti), sto criticando l’incapacità, da parte della Biller, di dirigere un’opera che non sia solo filologicamente corretta, ma anche esteticamente valida. Cosa che The Love Witch, purtroppo, non è. Perché non è sufficiente usare le zoomate come le usava Mario Bava, non è sufficiente inserire arcobaleni, giochi di luce e super impose quando scatta il siparietto psichedelico per realizzare un film che sia compiuto e solido.
E tuttavia, The Love Witch rimane dirompente per come dimostra che certe tematiche “scorrette” ormai possono passare senza sollevare polveroni solo se veicolate attraverso i filmacci, intesi nell’accezione più nobile del termine. The Love Witch è serie B, e quindi può fare satira in maniera tutto sommato protetta dalla sua stessa condizione di prodotto non destinato al grande pubblico, può esibire spudoratamente nudi integrali (maschili e femminili) perché tanto è serie B e ha la scusa che, mezzo secolo fa, nel circuito dei drive-in, passava anche di peggio, può avere come protagonista una pazza omicida che nega con calma serafica quello stesso mezzo secolo di femminismo ed essere, allo stesso tempo, un film profondamente femminista, perché non ha i SJW alle calcagna che non capiscono le metafore e che necessitano delle didascalie a ogni inquadratura. Anzi, a ogni fotogramma, altrimenti vanno in confusione.
The Love Witch, prima di essere un omaggio e un appassionato esercizio cinefilo, è un film che rivendica una libertà creativa, dirompente e, oggi, eversiva, che poteva esistere solo nel contesto un po’ delirante del cinema indipendente della seconda metà degli anni ’60. Per essere liberi, dobbiamo tornare indietro di mezzo secolo: è questo ciò che sembra dirci il film. Lascio a voi le conclusioni.
Per una lettura del film diversa dalla mia, vi consiglio il post di Davide.
Grazie per il link. Io sono meno severo riguardo ai difetti, indubbi, del film.
In parte perché anche le lungaggini (magari 60 minuti no, ma 90 sì, tranquillamente) sono parte della messa in scena. E in parte perché, per me, si tratta di difetti che sono massicciamente controbilanciati dai pregi.
E sono naturalmente anche uno spettatore molto meno sofisticato 😉
Credo che The Love Witch rimanga un film per vecchi spettatori e non per cinefili “colti” o per (dio ci scampi) nerd/geek – io credo che la maggior parte dei film ai quali la Biller fa riferimento ce li ricordiamo in sette, se va bene, e in sette (tu, io e altri cinque a caso) cogliamo il gioco e ne siamo partecipi.
E poi c’è lo stranissimo accoppiamento soggetto/linguaggio, che per me resta il punto di forza – questo è un film da dibattito in pizzeria dopo la visione. E sarebbe bello, se succedese.
Sì, sono difetti controbilanciati dai pregi, altrimenti non avrei scritto neanche una riga sul film. Ed è vero che i ritmi lenti sono tipici della messa in scena dell’epoca, ma le durate dei film erano più brevi, proprio per ragioni commerciali: uscivano in double con altri film (di solito un Poe-film e uno sui motociclisti, per esempio) e 120 minuti mi sono parsi l’unica cosa non attinente alla tipologia di film cui TLW si ispira.
Sull’accoppiamento soggetto/linguaggio, lo sai, sono perfettamente d’accordo con te: è la cosa migliore del film ed è il motivo per cui va visto a ogni costo.
No, fermi tutti. Dove l’hai trovato??? E’ da un anno che lo cerco! Ho cercato ovunque dopo la data di uscita americana e non ho mai trovato nulla! I colori pastello e l’atmosfera “alla Bava” mi avevano fatto innamorare subito!
Si trova facilmente sui soliti canali, da circa una settimana. Però, per il momento, solo sottotitoli in inglese!
Ah ecco è uscito nell’ultima settimana. Bene bene. Penso comunque che guarderò solo la versione originale quindi meglio avere i sottotitoli in inglese!
trovo che con The Love Witch la Biller abbia un po’ limato gli spigoli della sua opera precedente, “Viva!” (2007), una parodia della rivoluzione sessuale ancora più stramba e lisergica di TLW. Sono arrivato alla fine con un occhio mezzo chiuso, ma la messinscena è una roba davvero fuori di testa
Sì, Viva era, a tratti, inguardabile. Questo si lascia vedere e anche con piacere.
speravo davvero che ne parlassi perché, adocchiando varie gifs su tumblr, mi aveva colpito moltissimo dal punto di vista estetico, ma avendo paura di trovarmi di fronte una mezza ciofeca avevo rimandato la visione a data da destinarsi. ora mi hai decisamente incuriosita 🙂 qualsiasi cosa ricordi o omaggi i film di bava, per me é da visionare a prescindere 🙂 ti farò sapere!
Hai citato un cinema che a quelli della mia generazione ha scolpito l’infanzia. Detto ciò, sento già di apprezzarlo!
Un’analisi davvero interessante su questo film. Ne avevo sentito parlare così come ho sentito parlare del regista e mi aveva un po’ incuriosito. Lo guarderò così potrò farmi anch’io un’idea più chiara.
Un “magico” salto nel passato realizzato con i mezzi del passato per poter trasmetterne al meglio l’intento creativo e liberatorio nel presente: un cineparadosso temporale interessante, direi 😉
Molto, molto bella questa tua recensione. Soprattutto quando dici che “Per essere liberi, dobbiamo tornare indietro di mezzo secolo: è questo ciò che sembra dirci il film. Lascio a voi le conclusioni”. Notevole intuizione critico-cinematografica. E poi non vuoi accettare i miei inviti a tenere conferenze qua e là? 🙂
Grazie! Non è che non li voglio accettare. Non so se sono all’altezza, è diverso 🙂
Sembra interessante, una sbirciatina gliela do…chissà magari potrebbe piacermi 🙂