Maschere e Uomini Neri – Il cinema di Wes Craven – Prima Parte

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Oramai è tradizione: ad Halloween, Ilgiornodeglizombi tuttattaccato vi regala un mega articolo per agevolare le vostre maratone horror nella serata più spaventosa dell’anno. E, se la prima volta abbiamo parlato della saga di Ognissanti per eccellenza e la seconda del bamboccio di Crystal Lake, oggi vorrei dedicare lo speciale di Halloween del mio blog a un regista. Il mio crapulone preferito. L’uomo che, nonostante tutto, mi ostino ad amare, spesso disperandomi. Wes Craven.
Vedete, oggi è facile mettersi a ridere solo sentendone il nome. E magari pensando a La Musica del Cuore, a My Soul to take o a Red Eye. Però spesso si tende  a dimenticare che questo distinto signore ha cambiato la faccia del cinema horror per ben tre volte nel corso della sua carriera, realizzando dei film così importanti da segnare dei veri e propri punti nodali nella travagliata storia del nostro genere preferito. Tre film dopo i quali nulla è più stato come prima. E questa è una magia che già è tanto se riesce una volta nella vita. Craven ha invece pensato di mettere la sua firma bastarda sull’horror degli anni ’70, ’80 e ’90, badate bene, non cavalcandone le tendenze, ma creandole lui stesso. Non è roba da poco per uno considerato spesso alla stregua dell’ultimo coglione caduto per sbaglio sulla faccia della terra.
È anche vero che il buon Wes non ci ha mai aiutati tanto. La sua carriera è di quelle che a raccontarle non sembra vera, un bislacco miscuglio di fiaba, tragedia e farsa, costellato di fallimenti clamorosi, per cui uno un po’ meno arrogante si sarebbe ritirato per sempre in una baita, e successi sfolgoranti, a cui però hanno sempre fatto seguito imbarazzanti cadute.
E di lui si è detto tutto e il suo contrario: genio, imbroglione, furbetto, ingenuo. Aggiungete aggettivi a piacimento. L’unica costante nella sua storia è la contraddizione. Accompagnata da una certa paraculaggine che gli ha permesso di attraversare i decenni praticamente indenne (nonostante abbia inanellato più flop di chiunque altro), mentre i suoi colleghi coetanei sparivano dalla circolazione.

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Mister Craven nasce nel 1939, a Cleveland, in Ohio. E, da subito, la sua vita si ammanta di leggenda. Sembra infatti che sia cresciuto in un ambiente familiare molto rigido, con i genitori religiosissimi, che impedirono al giovane Wes di avere qualunque contatto con la modernità. Un’infanzia molto diversa rispetto a quella di altri registi della sua generazione, tutti cresciuti tra fumetti e drive in. Sempre la stessa leggenda vuole che Craven abbia visto il suo primo film a 23 anni suonati, Il Buio oltre la Siepe e ne sia rimasto piuttosto sconvolto. Il ragazzotto si laurea in filosofia, insegna al liceo, si sposa e, di punto in bianco, ormai più che trentenne, molla tutto e va a lavorare come fattorino in uno stabilimento di montaggio.
E qui inizia la parte fiabesca della vicenda Craven, quella in cui da fattorino diventa prima assistente, poi montatore di documentari e di film a luci rosse, e infine incontra l’individuo miracoloso che gli cambia la vita e gli dice: “Dai che ti produco l’esordio dietro la macchina da presa”.
Quell’individuo era un altro cialtrone mica da ridere. Era Sean Cunningham. Ed erano gli albori degli anni ’70. I due, insieme, producono, montano e dirigono il falso documentario soft core Togheter, nel 1971. L’anno successivo, riescono a mettere insieme un misero budget per un horror.

Craven non aveva mai scritto una sceneggiatura in vita sua e mai e poi mai aveva messo piede su un vero set. Al massimo aveva partecipato, insieme ai suoi studenti, alle riprese di alcuni filmati studenteschi durante le proteste per la guerra. I soldi erano pochissimi, quasi inesistenti e la location principale fu il giardino della mamma di Cunningham.
L’attore protagonista, quando lesse il copione, commentò così: “Un professore di filosofia ha scritto questa roba?”
Stiamo parlando di David Hess, anche lui, all’epoca, alla sua prima esperienza cinematografica. E, se c’è proprio bisogno che ve lo dica, il film a cui mi riferisco è L’ultima casa a sinistra.
La prima zampata di Wes.
Vedete, il rapporto conflittuale che Craven ha sempre avuto col genere a cui deve la sua fama, comincia sin da qui. La sua formazione culturale era quella del cinema europeo, cose da intellettuali. E infatti il modello di riferimento per il suo esordio è Bergman, con La Fontana della Vergine.
In fondo, Last House non è altro che un remake. Ma Craven era inesperto, non sapeva neanche dove piazzare con esattezza la macchina da presa. Cunningham, al suo fianco, era sicuramente più scaltro e aveva in testa un’idea precisa, quella di creare scandalo e scalpore.  Ma in quanto a fare cinema, entrambi ne sapevano davvero poco.
Eppure, in quel rozzo e trucidissimo esordio, c’era un qualcosa di esplosivo. Di sicuro un qualcosa di mai visto prima su uno schermo. Una quantità di rabbia, ferocia e brutalità da far impallidire persino l’altra bomba sganciata sul cinema dell’orrore qualche anno prima: La Notte dei Morti Viventi.

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Grazie a una campagna pubblicitaria condotta alla grande dal solito Cunnigham (Per evitare di svenire ripetetevi: “È solo un film, è solo un film, è solo un film”) e alla scelta di un titolo con poco o nulla a che vedere con il contenuto del film, ma terribilmente efficace, L’Ultima Casa a Sinistra proietta subito Craven nell’olimpo dei grandi del new horror. Anzi, si può azzardare a dire che lo abbia inventato lui con quel film, il new horror.

Eppure era un’etichetta che già cominciava a stargli stretta. Facciamo due calcoli: Last House è del 1972. Il secondo film di Craven (se si esclude un porno girato sotto pseudonimo) è del 1977. Cinque lunghi anni, in cui si manifesta per la prima volta uno schema destinato a consolidarsi nel corso del tempo: Craven cerca alla disperata un film non horror (o comunque diverso da quello precedente) a cui dedicarsi, e l’horror continua a bussare alla sua porta, come una maledizione. O un incubo.
L’Ultima Casa a Sinistra segna la vita del regista quasi fosse un marchio d’infamia. Paradossalmente, è proprio il successo di quel film a impedirgli di lavorare con le produzioni “serie”. Lui era uno che girava roba malata.
Ed eccolo quindi tornare sul set con un’altra storia malata. Questa volta si tratta di un soggetto originale, anche se vagamente ispirato a un clan di cannibali vissuto in Scozia nel XVII secolo.
Se Last House era un’aggressione senza alcun intento metaforico all’istituzione della famiglia americana, Le Colline hanno gli Occhi si spinge ancora oltre, perché Craven ha accumulato un minimo di mestiere in più e riesce a essere meno confuso nei suoi attacchi. Non si tratta, in entrambi i casi, di cinema politico, ma del tentativo di un autore ancora in erba, di andare a frugare senza alcun pudore in tutti i lati più oscuri della società in cui viveva. Ed è per questo che non è possibile dare una precisa collocazione politica né a Last House né a Le Colline hanno gli Occhi.
I due film hanno moltissimo in comune: il fatto di mettere a confronto due tribù, di farle specchiare l’una nell’altra fino a scoprire che, in fondo, non sono poi così diverse; il raccontare di un’America profonda, alienata, spesso dimenticata, eppure residente a pochi metri dalle civilissime villette dei sobborghi; il mostrare la violenza a tutto campo, con uno stile (o assenza di esso) molto più proprio del documentario che del cinema di finzione. Tutti elementi che saranno tipici del survival, sottogenere fiorito in quel periodo storico e derivato appunto dalla furia devastatrice messa in scena da Craven in  Last House.

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La carriera del nostro sembra, a questo punto, definitivamente avviata. Le Colline hanno gli Occhi è un altro successo, ancora più redditizio rispetto a L’Ultima Casa a Sinistra, tanto che si pensa subito a un seguito. Ma Wes non ha alcuna intenzione di girarlo. Poco male, perché cominciano a piovergli addosso offerte di lavoro una dietro l’altra. E Craven, come continuerà a fare fino a tempi recentissimi, imposta qui il suo metodo di scelta: dire di sì a tutti, lanciarsi in progetti assurdi e impossibili, ricevere e dare colossali fregature e, alla fine, optare quasi sempre per il prodotto più fallimentare.
Nell’ordine:
un film per la tv (Summer of Fear. 1978) in cui ha se non altro la possibilità di confrontarsi con una troupe di professionisti e di avere un cast con un nome di richiamo, Linda Blair.
Un filmaccio su sette religiose, amish, entità demoniache e trattori assassini (Benedizione Mortale, 1981), la cui unica attrattiva è la presenza di una giovanissima Sharon Stone tra gli attori.
L’adattamento per il cinema del fumetto Swamp Thing (1982), con cui davvero Craven non ha mai avuto, né mai avrà, nulla a che spartire e che esce coi pupazzoni di cartapesta in contemporanea a L’Ululato di Joe Dante.
La brutta storiaccia relativa al seguito de Le Colline Hanno gli Occhi, la cui realizzazione rimase troncata a metà, perché nel frattempo Craven aveva trovato i finanziamenti per una sceneggiatura scritta da parecchio tempo. Una cosa che aveva a che fare col confine tra realtà e sogno. E parlava di un essere malefico capace di ucciderti mentre dormivi, attraverso i tuoi incubi.

È stato a un pelo dal non girarlo, Nightmare on Elm Street: “Al momento sto lavorando su due progetti” dichiarava il regista nel 1982 “Il titolo del primo è Nightmare on Elm Street. È un’idea originale per un film del terrore. Ce l’ho in testa da almeno tre anni. L’altro progetto è un film comico, pieno d’azione, Circus Gang, su dei ragazzi che lavorano in un circo e che risolvono un misterioso delitto, imparando nel frattempo ad affrontare la vita. Lo sto trattando con la Disney”.
Non è venuta la goccia di sudore anche a voi solo a immaginare una roba del genere in mano a Wes Craven?
Per Nightmare, il regista stava trattando con la Universal, che gli diede il ben servito. Intervenne allora una minuscola casa di produzione, la New Line. Il budget stanziato era di tre milioni di dollari. Il film venne girato in un mese, sacrificando molte scene presenti in sceneggiatura per mancanza di soldi, lavorando giorno e notte. Un vero e proprio massacro.
Era il 1984 e Craven, un regista dato quasi per spacciato e che non girava un film di successo dal ’77, stava per cambiare, ancora una volta, la storia del cinema dell’orrore.
Ma di questo ne parliamo domani.

14 commenti

  1. Di Craven mi ricordo un’altro film che mi piace La casa nera,Cleveland che brutto posto negli anni prima della nascita di Craven c’era un serial killer detto il macellaio,a cui dava la caccia Elliot Ness(Kevin Costner ne gli Intoccabili) nel film Le Colline hanno gli occhi si è ispirato al clan di Sawey Bean
    UNsaluto Lucia.

    1. Sì, de La Casa nera ne parlo.nella seconda parte, domani! È una carriera troppo lunga per risolverla in un solo post 😉

  2. Helldorado · ·

    Non ci crederai ma “le colline hanno gli occhi” ancora lo devo vedere! Vergogna! 😀

    1. Inseriscilo nella maratona horror di halloween!

      1. Helldorado · ·

        😀

  3. Va beh, ormai questi tuoi post li vengo a leggere a scopo di consutazione a mo’ di enciclopedia!

    1. Ahahahah! L’intento è quello.suggerire e incuriosire!

  4. Daniele Volpi · ·

    Prego segnarsi titolo agile volumetto:
    Danilo Arona “Wes Craven, il buio oltre la siepe”
    Falsopiano cinema n.15 – Edizioni Falsopiano (1999)
    In rete girano le prime 30 pagine, ho avuto occasione di buttarci un occhio, sembra proprio ben fatto, l’ho infilato nelle cose da comprare prima o poi…

    1. È un libro importantissimo. Letto e riletto. L’unico su Craven in Italia.
      Ne parlo domani nella seconda parte del post

      1. Daniele Volpi · ·

        Giusto.
        Presenta dichiarazioni dello stesso regista che puntualizzano la sua stilistica e la sua arte, attraverso le sue vicende personali. Un ‘must’ assoluto anche per chi non ama troppo i suoi film (ricordati che sono sempre quello che preferisce “La maschera del demonio” ad “Hostel” per intenderci….

        Pace profonda nell’onda che corre

  5. Giuseppe · ·

    Craven in trattativa per un film comico con la Disney? Mi vengono i brividi, se solo provo a pensare che un progetto del genere avrebbe potuto prevalere su Freddy. Ché, allora, ce lo saremmo potuti scordare vita natural durante quel misto di contraddizione, inventiva, misurate dosi di -detto in senso buono- paraculaggine e tanto coraggio (sì, purtroppo anche sprecato in storie sbagliate) che ce lo fa amare ancora oggi, nonostante tutto…
    P.S. Ho letto M’rara, davvero niente male!

    1. Uno dovrebbe scrivere un libro dedicato solo a un gigantesco what if ispirato ai progetti abortiti da Craven. Sarebbe allucinante!

  6. E’ sempre un piacere rileggere di questi esordi così genuini e al tempo stesso fondamentali 🙂

    1. A me impressiona molto la carriera di Craven. Me la sono ristudiata in questi giorni e sono rimasta di sasso 😀

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