Craven è sempre stato infastidito dall’idea di essere un regista di nicchia. Ma non è una presa di posizione intellettuale nei confronti dell’horror, la sua. È proprio che è un figlio di puttana egocentrico e vuole che il pubblico, tutto il pubblico, lo adori. Non solo, lui vuole anche dimostrare al mondo di essere in grado di affrontare ogni genere, dal thriller alla commedia romantica.
Ovviamente non è capace. Ma non diteglielo, altrimenti si offende, pianta il muso e inizia a elencare tutti i metaforoni disseminati nei suoi film. Che non sono “semplici” horror, ma roba seria per gente che se ne intende.
Questo ingarbugliatissimo modo di approcciarsi all’unica cosa che gli riesce bene (ovvero spaventare) è stato il motivo di tanti fallimenti. Ma è anche, se visto da una prospettiva un po’ diversa, la causa principale dei suoi successi. Diciamolo pure, dei suoi capolavori, perché ne ha realizzati, per quanto mi riguarda, almeno tre.
La serietà, spesso imbarazzante, spesso azzeccatissima, con cui Craven affronta i suoi film è la chiave della resa di quelli migliori. Ed è sicuramente la chiave di lettura di un fenomeno come Fred (non ancora Freddy) Krueger.
Se diamo uno rapido sguardo allo stato dell’horror a metà degli anni ’80, lo vediamo monopolizzato da un sottogenere ben preciso, lo slasher. Erano i tempi di Jason e Michael e di tutti i loro epigoni. Erano i tempi degli adolescenti spensierati che venivano fatti a pezzetti da ogni tipo di arma da taglio esistente. Craven, con il suo Nightmare non fa altro che portare a compimento la parabola dell’assassino mascherato dello slasher, dandogli finalmente lo status di creatura soprannaturale (e demoniaca) a cui aspirava da tempi in cui l’assassino di Haddonfield non ne voleva sapere di morire. E lo fa nell’unico modo possibile: dandogli come terreno di caccia una dimensione inafferrabile, quella onirica.
Ma c’è di più: il sotto testo religioso, la puzza di fondamentalismo, la famiglia che, come sempre nella filmografia di Craven, si tramuta in un antro che genera mostruosità inconfessabili e, grattando ancora la superficie del killer pedofilo ammazzato dai genitori delle sue vittime e riportato in vita dal senso di colpa e dalle prime pulsioni sessuali, la vera identità di Fred Krueger, il Diavolo.
Nightmare è un compendio e un punto di arrivo di quasi tutta la storia del cinema horror a partire dagli anni ’70, fino a quel momento.
Scottato dall’esperienza de Le Colline hanno gli Occhi 2 (rabberciato in fretta e furia senza il suo consenso e uscito sull’onda del botto di Nightmare), Craven abbandona la sua creatura alla New Line, salvo poi pentirsene amaramente e tornare a lavorare con Krueger per la sceneggiatura del terzo episodio della saga. Nel frattempo, ricomincia a dedicarsi a una trentina di progetti tutti insieme. Neanche a dirlo, la maggior parte di essi si rivela una debacle totale. Molti non arrivano neanche in porto, come Fiori nell’Attico.
Della brutta vicenda riguardante l’adattamento del romanzo splatter Friend, ho parlato qui. Fu un durissimo colpo per Wes Craven, convinto di poter davvero raggiungere un pubblico molto più vasto rispetto ai soliti appassionati di horror, per cui era ormai diventato un mito. Edulcorare il materiale di partenza, inserire toni da commedia adolescenziale dove non era possibile e, soprattutto, cercare di accontentare tutti, si rivelò una tattica suicida.
Craven ricomincia a vegetare in televisione. Dirige qualche episodio della serie Ai Confini della Realtà e rimane lontano dal cinema fino al 1988, quando porta sullo schermo un altro libro. Non un romanzo, questa volta, ma un specie di reportage (anche se duramente sbugiardato dalla comunità scientifica): The Serpent and the Rainbow di Wade Davis, uscito nel 1985.
Curiosamente, non sembrava affatto una storia adatta a Craven. Non aveva mai affrontato nulla di simile. Ancora una volta, si trova a lavorare con una major, la Universal, che gli diede meno problemi rispetto alla Warner nel film precedente.
Craven non dovette mettere mano alla sceneggiatura, il che fu un bene, perché gli permise di concentrasi del tutto sullo stile, sul linguaggio, sul modo di mettere in scena un copione all’apparenza piuttosto distante dalle sue ossessioni personali, ma che lui riuscì a riempire di tutta una serie di suggestioni tipiche del suo cinema.
Film “politico”, questo sì, in tutto e per tutto, Il Serpente e l’Arcobaleno è il secondo capolavoro di Wes Craven, punta di diamante ed elemento anomalo in una carriera già di per sé parecchio discontinua e incoerente.
Poco compreso e poco apprezzato da pubblico e critica americani, ebbe un grande successo in Europa, ma allontanò per altri lunghi anni Craven dalle grandi produzioni.
E così, Craven si trova in una posizione piuttosto scomoda: regista di culto, ma emarginato dal circuito che conta. Stessa situazione in cui si trova, nello stesso momento storico, anche John Carpenter. E non è un caso se li troviamo entrambi a lavorare con la Alive Films, minuscola casa di produzione e distribuzione, famosa anche per averci regalato il meraviglioso Le Balene d’Agosto di Lindsay Anderson.
Con la Alive, Craven gira due film, Sotto Shock, di cui abbiamo detto tutto in questo post e People Under the Stairs, uscito in Italia con l’infelice titolo de La Casa Nera.
In tutta la sua carriera, a Craven è sempre piaciuto giocare a rimpiattino con il gotico classico, pur non avendo mai affrontato in maniera diretta tematiche simili. Sì, ci era andato molto vicino con I Fiori nell’Attico. E forse, La Casa Nera è la sua versione, estremamente personale, aggiornata ai tempi attuali e, per ovvi motivi, ancora più morbosa e violenta, del romanzo dalla cui trasposizione era stato estromesso.
Ed è anche un racconto gotico in piena regola, sebbene trasportato in ambito metropolitano, con lo spauracchio degli scontri razziali a fare da sfondo storico e una fortissima, anche troppo urlata, metafora politica.
Oggi, La Casa Nera è considerato, a ragione, uno dei film più riusciti del Craven post Nightmare ed è un piccolo cult che in una maratona di Halloween farebbe la sua porca figura.
Archiviata la sua esperienza con la Alive, purtroppo fallita, Craven si ritrova di nuovo a spasso. Nello stesso anno in cui People Under the Stairs esce nei cinema, la New Line aveva fatto fuori una volta per tutte il personaggio di Freddy Krueger in Freddy’s dead: The final Nightmare. È un periodo molto particolare, sia per Craven che per l’horror in generale. Negli anni ’90, entrambi non se la passano molto bene. Lo abbiamo detto centinaia di volte: esauritasi la miniera d’oro del decennio precedente, sembra che i film del terrore non interessino più nessuno e cadono in un limbo fatto di direct to video, produzioni sempre più povere, registi disoccupati e studios falliti.
È la stessa New Line a contattare Craven con l’intento di resuscitare, ancora una volta, l’uomo nero dei sogni. Solo che c’era bisogno di un’idea nuova, potente, in grado di far tornare Krueger alle origini e di far dimenticare il declino del personaggio, oramai ridotto a macchietta comica.
E fu così che Wes inventò il metahorror.
C’era già stato Pop Corn, direte voi. Sì, è vero, ma Pop Corn era un’operazione nostalgica e affettuosa, molto più simile a Matinee di Joe Dante che a un’analisi vera e propria del cinema dell’orrore e dei suoi meccanismi. Craven fu il primo a portarli direttamente allo scoperto, facendo piombare la sua creatura più famosa dal set alla realtà e mettendo in scena la sua (e quella di Wes, egocentrico figlio di puttana, e due) vendetta nei confronti della serializzazione e della perdita di spessore del personaggio.
Più che ripetere cose già dette in precedenza, vorrei sottolineare che anche la svolta metacinematografica di Craven ha origine nel suo solito rapporto conflittuale con il genere grazie al quale è diventato ricco e famoso. E con la sua scarsa stima nei confronti degli appassionati di quel genere, che comunque lo hanno reso ricco e famoso. Il paradosso, perché Craven è un paradosso vivente, sta proprio nel come, in seguito, il regista stesso abbia sfruttato fino alla consunzione gli stessi meccanismi che condanna con aria concionante nel suo Nightmare – Nuovo Incubo (1994).
L’horror che perde la sua ingenuità, la sua innocenza, diventa smaliziato e quindi seriale e ripete se stesso in una spirale infinita, è il bersaglio dell’ultimo lavoro di Craven su Fred Krueger.
Film troppo colto e raffinato per essere apprezzato all’epoca. Ci voleva un vero fan, quale Craven non è mai stato e mai sarà, per portare a compimento il discorso linguistico e astratto di Craven e trasformarlo in una macchina che macinasse miliardi e facesse tornare il cinema dell’orrore in cima alla catena alimentare hollywoodiana.
Ci voleva Kevin Williamson, insomma. Ci voleva Scream.
Ma senza l’apporto di Wes Craven, senza la sua lucidità distaccata, senza il suo sguardo amaro e, nonostante tutto, ancora rabbioso come nel ’72, il film più importante (a prescindere dalla sua qualità oggettiva, di cui comunque abbiamo già discusso qui e qui) della storia del cinema horror degli ultimi 20 anni, non sarebbe mai stato ciò che è.
Da Scream in poi, la carriera del nostro decolla nuovamente: tre seguiti, di cui Craven sta molto attento a non perdere il timone, con risultati altalenanti ma comunque sempre dignitosi, una nuova icona da dare in pasto a una altrettanto nuova generazione di fans, che magari neanche sapevano chi diavolo fosse, questo “Wes Carpenter” (cit.) e un genere intero, dato per morto, sepolto e spacciato, riportato in vita grazie a una maschera bianca ispirata all’urlo di Munch.
In mezzo ai quattro film di Scream, ci sono episodi da dimenticare e di cui vergognarsi un pochino, se solo Craven la conoscesse, la vergogna, e soprattutto, una quantità impressionante di soldi guadagnati producendo, insieme al figlio e al redivivo e sempre più cialtrone Sean Cunningham, i remake dei suoi film degli anni ’70.
Non solo: Craven, per un certo periodo di tempo, era diventata una garanzia da mettere nel cartellone di un qualsiasi filmetto di serie B che non vedreste neanche se vi torturassero per ore. Era tutto un fiorire di Wes Craven presenta. Non so se vi ricordate Dracula 2000 o di Wishmaster. Io purtroppo sì.
Come regista, il suo ultimo film è proprio Scream 4, che io difenderò a costo della mia stessa vita e che comunque prosegue nel paradosso di prendersela con la pratica del remake, su cui lo stesso Craven ha allegramente lucrato per anni.
Ma non ha molta importanza. A noi lui piace così: incoerente, retorico, pomposo e paraculo.
Ed è un Maestro. Uno dei pochi rimasti in giro. Dotato di una capacità di cambiare pelle invidiabile. Un sopravvissuto che ha attraversato sempre a testa alta quattro decadi di cinema dell’orrore restando sempre, in un modo o nell’altro, in piedi.
Ultima considerazione: questo post non sarebbe mai stato scritto senza l’apporto di un libro favoloso: Wes Craven – Il Buio oltre la Siepe, di Danilo Arona.
È un saggio che ho letto e riletto non so quante volte. Ed è forse l’unico studio seriouscito in questo paese, su uno dei miei registi preferiti. Se volete farvi un regalo per Halloween, leggetelo.
Gia il nome Craven in inglese fa rima con Raven,peccato che sia stato un regista troppo discontinuo l’erede di quel tipo registi potebbe essere un Wan o Mcknee o quello di Descent,ho visto di recente Blow Out di De Palma di cui ti consiglio la bellissima scena iniziale e stasera su Italia 2 fanno un film horror molto bello e sottovalutato La vendetta di Hallowen(Chip or treat) in cui c’è Anne Paquin vestita da cappuccetto rosso te lo consiglio è un’ottimo horror a episodi.
Davvero non riesco a capire se tu lo ami o lo odi! Comunque concordo sulla bellezza de Il serpente e l’arcobaleno, di cui scrissi qualcosa qualche tempo fa, che in molti non hanno capito. Per il resto, hai detto tutto quello che c’era da dire: Craven ha inventato il metahorror, ha realizzato lo slasher più onirico e fantastico di tutti i tempi, ha reinventato il genere con Scream. Per me, un grandissimo regista.
Lo amo moltissimo e mi fa incazzare a morte. Adoro Scream, adoro tutta la prima parte della sua carriera e salvo anche qualcosina della produzione post 2000. Ma ciò non toglie che mi faccia lo stesso incazzare a morte 😀
Dracula 2000 è il classico film che devo ricordarmi di dimenticare (come non fosse mai esistito) 😦 e quanto a Wishmaster, che dire…ecco, se qualcuno non si fosse fatto prendere da facili entusiasmi, scambiando quel malefico stronzo di un djinn per l’ennesima gallina dalle uova d’oro adatta a una serializzazione di successo, il film capostipite – secondo me – tutto sommato si sarebbe potuto considerare alla stregua di opera non del tutto riuscita ma con qualche spunto interessante (non fra i flop peggiori, diciamo così… il genio, alla fine, mi è parso essere niente più che una versione annacquata di Freddy): il tutto mandato in vacca nei capitoli successivi. Certo può essere disorientante sapere che il Craven produttore di Wishmaster è lo stesso Craven regista dai brutali esordi anni ’70, capace di regalarci poi altre perle come Nightmare (Nuovo incubo compreso), Il serpente e l’arcobaleno, La casa nera e Scream, ma lui è così come è ben descritto nel post, quindi prendere o lasciare: io, ovviamente, prendo!
P.S. A proposito dell’enorme what if di ieri… e se quel libro lo scrivesse, che so, Lucia Patrizi? 😉
Specialone stupendo, Lucy! Ventimila minuti di applausi. 😀
Quasi mi vergogno ad ammetterlo, ma il primo “Wishmaster” non mi era dispiaciuto (per carità, l’avrò visto tipo a 13 anni). Tra l’altro non sapevo della classica mossa commerciale:”presentatodaregistafamoso”
Per quanto mi riguarda Craven non ha mai fatto un film che mi sia veramente piaciuto. Indubbiamente ha segnato quelle due tre tappe imprescindibili in ambito horror (e si ok riconosco che non è poco), ma nonostante tutto non riesco a non considerarlo uno dei peggiori registi del genere. E comunque anche quei film che tanto hanno significato per l’horror (parlo fondamentalmente di Nightmare e Scream) li rivedo meno volentieri di tanti altri a parità di importanza. Quelli meno riusciti poi raggiungono livelli di bruttezza assolutamente inspiegabili. Per certi versi e con le dovute differenze (sia di carriera, che di stile) mi ricorda un po’ Argento, se capisci cosa intendo.
Sì, ho capito e in effetti le due carriere qualcosina in comune ce l’hanno, soprattutto quando Craven è proprio partito per la tangente sfornando roba come Red Eye.
Solo che, a mio parere, la classe di Craven Argento se la può solo sognare la notte.
E Craven ha una sua visione filosofica estremamente peculiare che a moltissimi registi è sempre mancata.
Craven è un’anomalia nel circuito del genere, un outsider da sempre. E la cosa mi piace molto.
“Il Serpente e l’arcobaleno” vince! Gran bel post, complimentissimi!
Già, Il Serpente e l’Arcobaleno è davvero il capolavoro di Wes.
Grazie Max 😉