Tanti Auguri: 50 Anni di Sisters

Regia – Brian De Palma (1973)

Il posto occupato da De Palma nel cuore della vostra affezionatissima è ingombrante, vasto e anche un po’ problematico. Non credo sia possibile, per chiunque si sia definito almeno un paio di volte nella propria vita “cinefilo”, non aver avuto un innamoramento per il cinema di De Palma, magari transitorio, magari utilizzato come ponte per scoprire altro, oppure, come nel mio caso, duraturo. Per anni è stato il mio regista preferito: la visione di Body Bouble (Omicidio a Luci Rosse secondo los titolistas) affittato in VHS in qualche imprecisato momento degli anni ’90, ha avuto su di me un effetto che oggi è difficile da spiegare; per farla il più breve possibile, è stata la prima volta in cui mi sono resa conto che, nel cinema, esisteva tutto un discorso tecnico ed estetico che andava al di là del raccontare una storia, la prima volta in cui ho avuto la percezione della presenza della macchina da presa, in cui ho intuito che mestiere facesse davvero il regista. Perché nei film di De Palma è una cosa evidente. Spielberg te la nasconde sotto al naso, De Palma vuole a tutti i costi che tu lo sappia. 

Sisters non è neanche lontanamente il primo film di De Palma, ma è il suo primo thriller, e anche quello in cui il regista mette a punto un linguaggio che poi sarebbe diventato caratteristico dei film di genere a esso successivi. Pensate alla sequenza della scoperta e denuncia dell’omicidio, tutta girata con lo split screen, o a quella dell’incubo/flashback in cui si viene a sapere la verità sulle due sorelle del titolo: sono due momenti che fondano il De Palma che siamo abituati a conoscere, cose che in seguito sarebbero addirittura diventate di maniera, vezzi di un autore che ha fatto della propria cinefilia un veicolo espressivo, del citazionismo una cifra stilistica in piena regola. Ma anche un regista in grado di anticipare tutta una serie di temi destinati a diventare dei punti fermi del thriller e dell’horror anni ’70. Vero che Sisters deve tantissimo a Hitchcock, e non soltanto allo scontatissimo Rear Window, vero che risente dell’influenza del Giallo italiano (a sua volta lo influenza), vero che lo stesso De Palma ha ammesso il suo debito nei confronti di Polanski e di Rosemary’s Baby. Eppure è difficile, guardando Sisters, non pensare al body horror al di là da venire.

C’è, in questo film, una commistione originalissima tra la venerazione di De Palma per il cinema classico e le tendenze sensazionalistiche ed exploitation di cui il racconto è pieno; c’è una violenza esplicita (il primo omicidio è allucinante, non me lo ricordavo così estremo) che avrebbe poi invaso il cinema horror degli anni ’70, c’è una tensione erotica, che sfocia nella psicosi sessuale, della quale il decennio appena iniziato sarebbe stato letteralmente saturo e, infine, c’è questa femminilità mostruosa, questa furia omicida innescata dal desiderio che rappresenta le paure più inconfessabili di ogni maschio in quel preciso momento storico. 
Ora, che De Palma sia stato, in molte occasioni, un regista reazionario per quel che riguarda la rappresentazione dei personaggi femminili, è un fatto, e basta pensare alla povera Carrie per rendersene conto. Ma la questione è molto più complessa di come appare. Esiste, e questo anche è un fatto presente in gran parte della sua filmografia, una diffidenza (a voler essere gentili) nei confronti del potere femminile che spesso sfocia in aperto disprezzo, ma se si fa caso a quello di cui parla davvero Sisters, ci si rende conto che il cattivo qui è quasi sempre il potere maschile. 

La protagonista del film non è tanto Danielle, interpretata da una divina Margot Kidder, quanto la giornalista Grace (Jennifer Salt) che, dalla finestra del suo appartamento, assiste a un omicidio e, non creduta dalla polizia, si mette a indagare per conto suo, rischiando di lasciarci le penne.
In altre parole, una donna denuncia un crimine (tra l’altro, perpetrato da una donna bianca su un uomo nero) e nessuno le dà retta, i poliziotti addirittura si prendono gioco di lei, perché ha scritto alcuni articoli di denuncia sulla brutalità delle forze dell’ordine, viene trattata con sufficienza, sussiego, la sua sanità mentale viene messa in dubbio e, come ciliegina sulla torta, finisce nelle grinfie di un vero e proprio mad doctor, già responsabile di parecchie nefandezze, sempre ai danni di corpi femminili.
Non vorrei essere la solita, ma qui ci sta una breve sottolineatura su chi ha scritto la sceneggiatura si Sisters: Louisa Rose, insieme allo stesso De Palma, certo. Però la cosa si nota, perché, tra un split screen e l’altro, tra un incubo e l’altro, Sisters racconta diverse forme di oppressione e sfruttamento, e riesce anche a farlo piuttosto bene. 

Non fa male che sia anche un meccanismo narrativo ineccepibile e molto moderno: il caso, alla fine di tutto, non viene risolto, le indagini non portano a niente, la chiosa del film è impregnata da un amaro sarcasmo, la polizia quando non è dannosa, è inefficiente, e resta un senso di profonda sfiducia nei confronti di qualsiasi tipo di autorità possibile. È la razionalità, o la pretesa di dare una forma razionale alla realtà, a uscire sconfitta da Sisters: l’operazione per liberare la “buona” Danielle dalla “cattiva” Dominique non riesce, la scoperta della verità da parte di Grace si rivela effimera, e anzi, è lo stesso concetto di verità a venire messo in discussione; come l’investigatore privato Larch (Charles Durning), possiamo soltanto contemplare un divano abbandonato in mezzo a una strada con la consapevolezza che nascosto al suo interno c’è un cadavere. E poi lo schermo va a nero e cominciano a scorrere i titoli di coda all’insegna di un bel nulla di fatto. 

De Palma prende il voyeurismo da Rear Window e Peeping Tom (citato in apertura), il cambio repentino di protagonista, per ben tre volte, da Psycho, le evoluzioni della macchina da presa da Rope, la paranoia da Rosemary’s Baby, ma di suo ci mette quel tocco weird, quella instabilità psicologica, quel pavimento di cristallo emotivo che collassa sotto i nostri passi negli ultimi, allucinati, venti minuti, dove il regista riesce a conglomerare tre punti di vista differenti che svelano la storia delle due sorelle attraverso dei ricordi indotti nella mente di Grace, il che eleva all’ennesima potenza il significato di narratore inaffidabile. E così i filmati d’archivio si mischiano alle allucinazioni, la realtà stessa si scompone in mille frammenti, diventa quasi impossibile stabilire la prospettiva attraverso cui la vicenda ci viene raccontata; un caos governato soltanto dal montaggio stellare di Paul Hirsch, che avrebbe poi lavorato molto di frequente con De Palma, tanto che diventa difficile separare questi due artisti del ritmo, del taglio e del movimento. 

Quando si parla di De Palma, Sisters non viene ricordato troppo spesso, molto probabilmente perché si tratta di un’opera realizzata a inizio carriera, messa in ombra dai trionfi successivi. Eppure è già tutto qui, a uno stadio ancora selvatico, meno elegante rispetto all’assoluto controllo del mezzo espressivo del De Palma anni ’80 e primi ’90. Ma proprio per questo più feroce, anarchico, esplosivo, appunto, non ancora addomesticato. 
Impossibile non innamorarsi di De Palma, pur ammettendone i limiti e comprendendone il lato manierista, e se qualcuno di voi non fosse ancora familiare con l’estetica di questo regista, Sisters è un buon modo per cominciare una lunga storia d’amore con il suo cinema. 

5 commenti

  1. Il tuo discorso iniziale su De Palma lo percepito molto a livello emotivo. Banalmente parlando l’ho conosciuto con Carrie ma grazie a quell’opera mi sono innamorato di lui come regista e a volte mi sorprendo che, nonostante tutto quello che abbia fatto, lo si citi per due o tre film, quando in realtà sono tante le sue opere che meriterebbero tanta attenzione e questo Sisters è proprio uno di questi. De Palma ha inventato proprio un linguaggio nuovo, ha posto le basi per qualcosa di grande e mi fa piacere che tu ne parla con così tanto amore.

  2. De Palma o si ama o si odia, credo sia un regista con cui una “terza via” sia poco praticabile

  3. alessio · · Rispondi

    Nel 2021 venne dato alle stampe un piccolo libro (non un libro piccolo), un volume di poco più di 200 pagine del sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos dal titolo “Il futuro comincia ora”; il concetto espresso (provo a riassumerlo attraverso le sue parole): “la dominazione moderna si fonda su tre pilastri: il capitalismo, il colonialismo, e il patriarcato; tutti basati sul concetto che la natura ci appartiene”. Come “cambiare il modo in cui vediamo la natura” prima che “quest’ultima inizierà a scrivere il lungo e doloroso epitaffio della vita umana sul pianeta”? Attraverso l’utopia, un’utopia che si fondi “sulle classi e gruppi sociali etno-razziali e di genere esclusi dalla moderna dominazione”. Nello stesso 2021 Netflix (sic) licenziava la stupenda trilogia della Janiak. Chi di noi dopo pochi minuti di visione non aveva già pensato di trovarsi davanti all’ennesimo teen horror, uno slash horror il quale non disdegnava neanche il colpo basso di strizzare l’occhio al fruitore quarantenne con una bella spruzzata di effetto nostalgia? Beh, andando avanti col girato e col procedere delle settimane (la parte II e III) la trilogia della regista americana si è sconfessata mostrandosi per quel che è: un progetto-utopia ambizioso quando rivoluzionario. È dagli anni Settanta che ci sfrangano le scatole con “il cinema horror è reazionario” confondendo grammatica con poetica, significante con significato, denotazione con connotazione. Certo, cinquant’anni fa era inimmaginabile (e forse neanche interessava) chiudere un discorso che forse era solo in nuce e un personaggio femminile solido come quello raccontato dalla Kent in Babadook o le scelte di autodeterminazione intraprese da Anya Taylor-Joy in The Witch o da Carey Mulligan in Promising Young Woman di là da venire ma, come ricordava Eduardo Galeano: “L’utopia è là nell’orizzonte. Mi avvicino di due passi e lei si distanzia di due passi. Cammino 10 passi e l’orizzonte corre 10 passi. Per tanto che cammini non la raggiungerò mai. A che serve l’utopia? Serve per questo: perché io non smetta mai di camminare”. Come il cinema horror.

  4. Giuseppe · · Rispondi

    Un De Palma ancora “ruvido” ma certo non per questo meno memorabile, tutt’altro, considerato che (appunto) traccia il percorso per tutta la sua produzione a venire… Buon compleanno, Sisters! 👍

  5. Ti ringrazio per questo articolo. De Palma è il mio regista preferito da sempre. Ho pianto leggendo ciò che hai scritto. Emozionante, come il cinema del Maestro. Per me il miglior regista DI SEMPRE, senza se e senza ma.

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