
Regia – Scott Derrickson (2022)
Anche questo è un film che abbiamo aspettato tanto e che inaugura l’estate horror del 2022 in sala, un’estate che si prospetta molto lunga e foriera di tante novità come non succedeva da un bel po’ di tempo. In pratica stanno ammucchiando le uscite di un anno intero tutte tra fine giugno e metà agosto, una decisione che a me pare scellerata, ma sempre meglio di niente.
Black Phone è, tra tutti i film in arrivo (gli altri sono X, Men e Nope, solo per menzionare quelli davvero grossi), quello con più potenzialità di fare presa su un pubblico ampio: produzione Blumhouse, quindi molto attenta alla vendibilità del “prodotto”, regista con un curriculum pieno di successi, storia molto appetibile, dall’afflato kinghiano, e non soltanto perché l’autore della novella da cui il film è tratto è Joe Hill, ma perché l’impianto narrativo di Black Phone è un continuo déjà-vu di temi cari a Stephen King e quindi molto familiari agli spettatori. E infatti, negli Stati Uniti, sta incassando uno sproposito, cosa che mi rende molto, ma molto felice, perché Black Phone è un film bellissimo.
Ambientato nel 1978, racconta di una cittadina del Colorado dove spariscono i bambini, rapiti da un misterioso individuo che la stampa ha denominato “The Grabber” (Il Rapace nella traduzione italiana). I nostri giovanissimi protagonisti, fratello e sorella Finney e Gwen, devono vedersela coi bulli della scuola, con un padre alcolizzato e violento e con le capacità soprannaturali di Gwen, che sogna cose destinate ad avverarsi e possiede una sorta di “luccicanza” (scusate, non è colpa mia). Quando Finney viene rapito, anche lui, dal Grabber (Ethan Hawke) Gwen farà di tutto per trovarlo, mentre lui, da solo alle prese con l’assassino, potrà contare su una serie di suggerimenti e aiuti dall’aldilà, tramite il telefono nero del titolo.
Questa è più o meno, e senza svelare troppo, la trama del film, ma già queste informazioni sono sufficienti a capire il tono generale: si tratta di un horror sovrannaturale su un assassino di bambini, ma attenzione, perché, e sta qui l’originalità di Black Phone, il male è tutto umano e il soprannaturale ha una funzione salvifica.
Il Grabber non è un demone e non è una creatura che si nutre di paura precipitata chissà quanti milioni di anni fa qui sulla terra; è un essere umano, uno squallido serial killer (lievemente queer coded, ma forse è solo un problema di doppiaggio, quindi non mi pronuncio) che indossa la maschera da demonio proprio per celare la sua disgustosa piccolezza; al contrario, le forze non umane all’opera hanno una connotazione positiva, per quanto spaventosa, e la vita o la morte dei protagonisti dipendono dalla loro capacità di interpretare i segnali che arrivano da un mondo altro, che possiamo continuare a chiamare aldilà per un fatto di mero comodo, e anche, credo, per convinzioni personali di Derrickson, che mai ha nascosto la propria fede, a partire dai tempi de L’Esorcismo di Emily Rose. E io, prima o poi, con quel film dovrò farci pace.
Tutto questo a noi interessa non tanto da un punto di vista ideologico, quanto da un punto cinematografico: Black Phone, seguendo l’impostazione appena descritta, si configura come uno dei film più family friendly mai realizzati su un assassino di bambini e, allo stesso tempo, quando deve fare paura non si tira mai un solo istante indietro. Ma è il modo in cui sfrutta i meccanismi della paura a essere interessante, considerando che parliamo di ragazzi molto giovani (dai 12 ai 17 anni) brutalmente massacrati da un serial killer. Già per questo motivo, il film non può essere un PG13, e infatti è una bella R portata con classe. Però la questione è: come si fa a mostrare gli effetti della ferocia del Grabber senza mettere in scena neppure un omicidio? Come si può rendere sempre più spaventoso il Grabber se al pubblico non facciamo mai vedere quello che fa? Se nemmeno lo raccontiamo, quello che fa, se lo stesso Grabber è un personaggio sfuggente, privo di un’identità propria, in parte per la scelta azzeccata della maschera alla London After Midnight, in parte perché noi lo vediamo soltanto ad altezza bambino, per così dire.
Lo stratagemma inventato da Derrickson per ovviare all’inconveniente è ingegnoso, genera tre o quattro salti sulla sedia che una parte di me è ancora rimasta attaccata al soffitto del cinema Adriano, permette di lasciare uno spazio considerevole all’immaginazione del pubblico, ma non è così misericordioso da sottrarre del tutto il suo sguardo alle atrocità commesse. Soprattutto, è profondamente empatica nei confronti delle vittime, e questo rende Black Phone un’esperienza emotiva piuttosto forte, oltre che un bell’otto volante di spaventacchi vari, ma gestiti con molta eleganza. Non ci sono jump scare classici in Black Phone; si tratta più che altro di apparizioni che non vedi arrivare e hanno un effetto destabilizzante, proprio a causa della loro doppia valenza di spauracchi annidati negli angoli bui e di uniche presenze amiche nell’incubo che Finney sta vivendo.
I due bambini protagonisti sono eccezionali, anche se la loro interpretazione è mortificata da un doppiaggio che riesce a peggiorare di anno in anno, e non si capisce bene perché. Stessa cosa per Ethan Hawke, con l’ulteriore aggravante che il suo è un ruolo giocato su voce e movimenti del corpo e finisce quindi per risultare privato del 50% del suo potenziale per noi italiani sfigati che ci dobbiamo sorbire una voce da personaggio (perdonate il termine) “effeminato” in una commedia sexy degli anni ’80. Come dicevo prima, può benissimo essere che il Grabber sia connotato in maniera queer nella versione in inglese, ma non credo che lo sia in maniera così grossolana e greve.
Se non altro, la prova fisica di Ethan Hawke è rimasta intatta, ed è davvero gigantesca: la sua sola presenza nella stanza è una minaccia, le sue movenze quasi aliene, quasi che fosse un rettile che veste pelle umana. Derrickson si conferma, per l’ennesima volta, un direttore di attori di altissimo livello. Forse è la cosa che gli riesce meglio.
Vi consiglio di andare a vedere Black Phone in sala, anche se vi sanguineranno le orecchie, perché è un film in cui si finisce per essere immersi, nell’ambientazione, nell’emotività dei personaggi, nelle splendide musiche originali firmate da Mark Korven (andate a vedere cosa ha fatto questo in carriera), e pure di un paio di brani di repertorio che non sono affatto da buttare, anzi: credo ci sia l’uso meno banale e scontato dei Pink Floyd della storia del cinema tutto.
Black Phone vi immerge nei suoi colori caldi di un autunno di fine anni ’70, in una storia che parla soprattutto di solidarietà tra vittime e tra deboli, della forza che si riceve dall’aiuto degli altri, del riscatto di chi non ha più una voce per difendersi.
Spero vi piaccia quanto è piaciuto a me, e spero che la Blumhouse continui a tirare fuori anche titoli di questo valore, giusto per dimostrare che è ancora in grado di dare le sue belle zampate al cinema dell’orrore.
Molto bello questo ritorno di Scott Derrickson,il film l’ho visto in compagnia di mia madre,ci siamo spaventati,divertiti,ma anche commossi!
la tua recensione mi ispira parecchio
È uscito, è uscito finalmente! Non vedo l’ora di andarlo a vedere e poi leggere la tua recensione! Evviva!
ciao Lucia, riguardo il doppiaggio concordo con te! Troppi film vengono penalizzati da doppiaggi frettolosi…ultimamente sto guardando i film tramite un sito che si chiama Flixtor, ne hai mai sentito parlare? I film sono in lingua originale e su molti di essi si ha la possibilità di scegliere il doppiaggio in varie lingue! fammi sapere che ne pensi!