
Regia – Mickey Keating (2021)
Keating è nato nel 1990. Non ha ancora compiuto 32 anni e questo è il suo settimo lungometraggio. Indovinate chi è stato a fare da chioccia a questo giovanissimo regista quando ha esordito nel 2011? Esatto, Larry Fessenden, che in pratica ha fatto da chioccia a tutti i nomi e volti più famosi del cosiddetto mumblegore, e infatti in un film di quel gruppo così caratteristico e distintivo di registi e interpreti, vediamo quasi sempre le stesse persone, davanti e dietro la macchina da presa.
In Offseason c’è Jocelin Donahue, un’attrice che forse avrebbe meritato una carriera un po’ meno nell’ombra, ma che quando c’è bisogno di classe cristallina al servizio dei micro-budget, non si tira mai indietro, soprattutto se le tocca reggere l’intero film da sola, come in questo caso. Però c’è anche Joe Swamberg, che chiunque abbia bazzicato l’horror da spettatore negli ultimi 15 anni dovrebbe aver visto sbucare un po’ dappertutto; infine, c’è Jeremy Gardner, anche lui attore, regista e sceneggiatore tanto presente sulla scena più indipendente. È tutta la grande famiglia che fa capo, appunto, a Fessenden, e che secondo me un po’ si incazza quando gli vai a parlare di elevated horror, perché loro elevano dagli inizi del secolo, nel loro piccolo e senza troppi clamori.
Offseason è un incubo minimalista che è quasi la versione mumblegore de La Maschera di Innsmouth, dove il Dagon di Stuart Gordon ne era invece la versione esplosiva e virata al gusto per il gore e le mutazioni dei corpi tipico del regista; Keating prende un materiale di partenza molto simile: una giovane donna, Marie, deve tornare sull’isola dove sua madre è cresciuta, e dove è stata sepolta, pare, contro la sua stessa volontà ultima; il motivo per cui Marie è obbligata a recarsi in questa desolata Lone Palm è poco più di un pretesto: qualcuno ha vandalizzato la tomba di sua madre e lei è l’unica parente rimasta in vita. Quando lei e il suo compagno (o ex compagno. Secondo me ex) George arrivano sul posto, scoprono di essere capitati lì nel giorno sbagliato: l’isola sta chiudendo per l’inverno, e quando dico chiudere, intendo proprio chiudere; l’unico ponte che la collega alla terra ferma viene sollevato e nessuno può più entrare o uscire. Marie e George credono di dover sbrigare solo qualche piccola pratica con il cimitero e poi potersene andare prima che Lone Palm venga isolata dal resto del mondo. Ma le cose, ovviamente, non sono così semplici.
Come vedete, ci sono tanti punti in comune con il racconto di Lovecraft, e non soltanto perché la successione degli eventi è ai limiti della trasposizione letterale, ma perché Lone Palm è Innsmouth: ha una storia molto simile che affonda in un remoto passato, c’è un antico patto con un un’entità uscita dagli abissi che ha soggiogato gli abitanti, e c’è una maledizione che grava sui discendenti di chi sull’isola è nato, destinati a tornare, attirati in quel posto da una forza irresistibile e lì presi in trappola, perché il collegamento con le divinità oceaniche è nel sangue e al sangue non si sfugge, non esiste un luogo in cui si possa scappare, non a lungo, almeno.
Marie, di tutto questo, non è neppure inconsapevole, ma pensa che i racconti della madre, quando era in fin di vita e lei la accudiva, siano soltanto i deliri di una persona che ha perso il contatto con la realtà. Ma la realtà di Lone Palm e di ciò che vive nascosto nel suo suolo è molto più solida e concreta della sua vita civilizzata a New York. E così, nel momento in cui lei e George attraversano il confine delimitato dal ponte mobile, entrano in un sogno lucido fatto di nebbia e solitudine, una gabbia soffocante messa in scena da Keating in maniera esemplare.
Se da un punto di vista narrativo, Offseason è un horror cosmico con parecchi elementi folk, visivamente usa un linguaggio molto semplice (abbiamo parlato di minimalismo), fatto soprattutto di campi lunghissimi in cui la nostra protagonista si smarrisce, colori plumbei e freddi, contrapposti al calore estivo dei titoli di testa e della sequenza che funge da epilogo, adatti a rappresentare quei non-luoghi in cui si tramutano le località turistiche quando finisce la bella stagione, macchina da presa fissa e stabile, e montaggio utilizzato per andare a sottolineare i momenti più concitati con degli stacchi improvvisi che spezzano il ritmo sonnecchiante del film. È, insomma, un film abbastanza classico per come sceglie di raccontare la storia di una persona finita in un posto il cui unico scopo è catturarla.
Però Keating impreziosisce questo impianto classico con tanti piccoli accorgimenti che generano un’inquietudine profonda, anche in momenti all’apparenza tranquilli: il fuori fuoco, per esempio che, unito a una nebbia più o meno perenne, dà la sensazione che i personaggi galleggino in una dimensione lattiginosa e liquida.
Oppure la scelta della durata delle singole inquadrature: c’è sempre qualche secondo o fotogramma di troppo, ma non perché ci siano degli errori, ma perché serve a confondere il senso di stabilità dello spettatore, serve a rendere il ritmo sbilenco in maniera quasi subliminale. In questo, il montaggio di Offseason, firmato da Valerie Krulfeifer sbalordisce e lascia senza parole.
Un’altra cosa in cui Keating si dimostra un regista molto in gamba e con una precisa cognizione della paura e dei suoi meccanismi, è l’aver reso l’isola come un organismo vivente, come un animale affamato e pronto a inghiottirti.
Per questo ho parlato di orrore cosmico con elementi folk: il folk è una cosa di facciata, la cospirazione degli abitanti dell’isola non possiede le caratteristiche di un The Wicker Man, e anzi, nemmeno la si può propriamente definire una cospirazione: non hanno scelta perché c’è questa cosa viva che è penetrata nell’acqua e nella terra. Marie cammina su un’entità che le pulsa sotto i piedi, e di cui l’isola non è altro se non una minuscola propaggine. Un’enormità che, per fortuna, non saremo mai costretti a vedere nella sua sconfinata interezza.
Più Lovecraft di così credo sia difficile.
Io non so da dove venga Keating, quali siano state le sue esperienze personali, dove abbia trascorso l’infanzia, ma non mi è capitato spesso di vedere così ben fotografata la malinconica desolazione dei posti che siamo abituati a vedere d’estate nel momento in cui si svuotano, il sole li abbandona, cala il silenzio e la solitudine si impadronisce di loro. Offseason è fatto di questo, genera la paura da questo, dall’idea che esistano luoghi maledetti, ma soltanto quando voltiamo loro le spalle. E se, per caso, ci dovessimo attardare, finiremmo per trovarci di fronte al loro vero volto.
Insomma, non credo ci sia bisogno di specificarlo, dato il pippone che vi ho attaccato, ma Offseason è bellissimo, è il primo vero, grande horror dell’anno (sempre escluso Scream), e lo distribuisce Shudder, a cui prima o poi toccherà fare un monumento per il contributo inestimabile che sta dando alla causa dell’horror a basso costo. Secondo la mia collega di Horror Vacui, che ha avuto la fortuna di vedere il film a Torino, Offseason è stato il migliore horror del 2021. Per quanto mi riguarda, si piazza in tutta serenità tra i favoriti per il 2022.
“Però Keating impreziosisce questo impianto classico con tanti piccoli accorgimenti che generano un’inquietudine profonda, anche in momenti all’apparenza tranquilli: il fuori fuoco, per esempio che, unito a una nebbia più o meno perenne, dà la sensazione che i personaggi galleggino in una dimensione lattiginosa e liquida. ”
Che bella questa annotazione! Complimenti per tutta la rece.
A me è piaciuto meno che a te perché, pur ammettendo che Keating abbia fatto miracoli con i mezzi che aveva a disposizione, l’ultima parte mi è sembrata un pò deboluccia. Poi è un problema squisitamente mio, ma in un’epoca in cui per fare effetti speciali decenti basta un mac e 2 programmini, che ci siano ancora film lovecraftiani nei quali ci fanno solo intravedere le creature per mezzo secondo in controluce mi mette un pò a disagio.
Grazie ❤
Però io sul fatto di non vedere le creature sono quasi sempre favorevole, perché è canonico con Lovecraft. Anche perché poi quando le vedi, per quanto possano essere ben fatte, è sempre una piccola delusione.
Soprattutto quando si tratta di questo tipo di creature.
Bello.
Pensavo a come da bambino/ragazzo l’orrore mi affascinasse TUTTO, anche quello di questo tipo (che trovavo nei fumetti come Dyland Dog o negli albi di Zio Tibia di mio padre, o nei racconti di Lovecraft): anche oggi, ma questo orrore assoluto mi spaventa al di là di come è reso nello schermo.
Rivedere la protagonista di The House of the Devil… in quel periodo e (anche) con quel film ho ricominciato a interessarmi all’horror. Sembra ieri, invece…
Ma che gioia rivederla. E che peccato non lavori tanto.
Oltre a Lovecraft direi che fra gli ingredienti (ben dosati, come traspare dalla tua dotta rece) non stonerebbe nemmeno un pizzico di Hodgson, magari con le sue gigantesche e mostruose entità viste ne La terra dell’eterna notte… Sì, già da ora -ancora prima di vederlo- mi pare di avere buone probabilità di arrivare a condividere tutto il tuo entusiasmo 😉
Sembra splendido… Arriverà mai in DVD in Italia?