Double Feature: La carta da parati gialla

Il doppio spettacolo di oggi è un po’ particolare: si tratta di due film dall’impianto narrativo molto simile, basati sul progressivo degrado della salute mentale della loro protagonista femminile, quasi sempre chiusa tra le quattro mura del suo appartamento. Per questo motivo, ho preso in prestito il titolo dal celeberrimo racconto di Charlotte Perkins. Mi sembrava parecchio attinente, anche se poi alla fine è soltanto un’assonanza di ambientazione, generale atmosfera malaticcia e profonda introspezione nella mente dei personaggi, che si ritrovano in solitudine per gran parte dei rispettivi minutaggi. 
Uno dei due film arriva dagli Stati Uniti, l’altro dalla Svezia; il primo è più barocco e stilizzato, il secondo più austero; entrambi i film sono diretti o co-diretti da donne e in entrambi i film la protagonista è queer, ma la cosa non è il fattore scatenante della vicenda, è un semplice dato di fatto, cosa sempre molto interessante perché abbastanza rara; infine, entrambi i film hanno una durata molto breve, sotto l’ora e mezza. 

Cominciamo con Alone with You, scritto, co-diretto (insieme a Justin Brooks) e interpretato da Emily Bennet, e uscito giusto in tempo per festeggiare San Valentino nel migliore dei modi. La protagonista, Charlene, sta aspettando che la sua compagna Emma ritorni da un viaggio di lavoro, quando si accorge che nell’appartamento che condivide con lei c’è qualcosa di strano: le finestre sono oscurate e non si capisce se sia notte o giorno; la porta di casa è sbarrata e Charlie non può più uscire; da una presa d’aria sul pavimento arriva la voce di una donna che sta evidentemente piangendo e, come se tutto ciò non fosse già sufficiente per farsi prendere dal panico, il tempo comincia pure lui a fare le bizze, con un gran bel mischione tra presente e passato, e tra incubi e ricordi, e comunicare con l’esterno riserva orribili sorprese, come si evince da una tragica videochiamata con la mamma di Charlie (nientemeno che Barbara Crampton).

Il film ha uno stile visivo ultra ambizioso e raffinato, con sconfinamenti nella video-arte per tutte quelle sequenze in cui le visioni di Charlie interferiscono col mondo reale, ma, se può risultare un po’ indigesto, è perfettamente funzionale a un racconto che il mondo reale lo vuole mettere in discussione, perché si svolge tutto all’interno della testa di Charlie. Di conseguenza la narrazione non è fluida, è sincopata, piena di disturbi, di salti in avanti e indietro. Alone with You è fastidioso e vuole dare fastidio: l’intento è quello di farci stare dentro a una mente che sta andando in frantumi, per motivi che scopriremo alla fine, ma che sono in parte intuibili già dal presupposto iniziale: l’attesa di un qualcuno che non arriva mai. È un film sull’ossessione, su una storia d’amore che andava in una sola direzione e sulla sua inevitabile conclusione tragica; forse calca un po’ troppo la mano sull’estetica da saggio finale di studente di cinema, ma riesce a rendere molto bene la claustrofobia e l’impotenza, e la durata molto contenuta lo aiuta a non sfaldarsi tra le mani dei registi. 

Knockin è diretto da Frida Kempf ed è meno contenuto rispetto ad Alone with You: non si svolge soltanto all’interno dell’appartamento della protagonista e ricopre un arco temporale un po’ più lungo rispetto al film di Bennet, ma parte da uno spunto abbastanza simile: Molly è appena uscita da un reparto psichiatrico dopo un esaurimento nervoso dovuto alla morte della sua compagna in un incidente. Va a vivere in un condominio e cerca di ricominciare, gradualmente, a riprendere in mano la propria vita. Durante la prima notte nella nuova casa, sente bussare dal piano di sopra. Va a chiedere in giro agli altri inquilini, ma nessuno sembra essersi accorto dei colpi tranne lei. Col passare dei giorni, Molly capisce che i battiti hanno un ritmo regolare e si mette a studiare l’alfabeto morse, convincendosi che qualcuno abbia bisogno d’aiuto. Dati i suoi trascorsi, nessuno, né i condomini né la polizia, le crede e scivola in una spirale di paranoia e di follia con conseguenze drammatiche. 

Knockin è un film molto interessante per come ribalta la narrazione degli stereotipi della malattia mentale: dà l’impressione, anche molto sgradevole, di indulgere in questi stereotipi fino agli ultimi istanti e, alla fine, opera un rovesciamento di significato notevole. Non ci sono dubbi che Molly abbia delle problematiche e delle difficoltà dovute a ciò che ha passato, come del resto è spesso suggerito che la fissazione per una fantomatica richiesta d’aiuto al piano di sopra derivi dal fatto che non è stata capace di salvare la compagna dall’annegamento. Eppure le cose sono molto più complicate di come appaiono. Il film ha un’estetica molto studiata e molto controllata; in questo caso, l’obiettivo non è vivere per un’oretta e spicci nella testa di una persona malata, ma di fuorviare lo spettatore, di mandarlo in una determinata direzione, mentre la regista sta facendo un’altra cosa. 
C’è parecchio di Unsane di Soderbergh in questo piccolo film, ma senza la spocchia del regista americano e senza l’arsenale di soldi, star e mezzi a sua disposizione. È un lavoro molto sentito e viscerale, impreziosito da un’interpretazione da parte della protagonista Cecilia Milocco tra le più estreme io abbia visto negli ultimi anni. Credo sia uno di quei casi in cui un’attrice si affida con tutta se stessa a chi la sta dirigendo, anche se le toccherà recarsi in posti poco confortevoli, metaforicamente parlando. 
Come esordio a basso budget è un film quasi perfetto: ha un obiettivo, un linguaggio ben preciso con cui raggiungerlo, è efficace, breve, arriva dritto al punto e usa la sua brevità come arma per tenere sempre un ritmo molto alto. 
Scoprire questi debutti così appassionati è sempre una cosa che mi riempie di gioia, soprattutto se si tratta di registe intente a raccontare personaggi femminili diversi da quelli cui siamo abituati. Poi non sempre si ha il capolavoro alla prima botta, non sono tutte Julia Ducornau, ecco. Ma assistere alla nascita di una generazione di registe indipendenti e con una voce molto distinta e personale è uno dei motivi per cui continuo a raschiare il fondo delle uscite horror in VOD ogni settimana. Anzi, forse è il motivo principale per cui lo faccio. 

 

5 commenti

  1. Blissard · ·

    Li avevo visti “in giro” ma li ho colpevolmente trascurati, parto al recupero.
    Ho la sensazione che, dati i tempi che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, aumenteranno esponenzialmente i film incentrati sulla malattia mentale.

    1. Malattia mentale e confinamento: aspettiamoci tanti film sul tema, ma proprio una valanga.

  2. Andrea Lipparini · ·

    Ho apprezzato molto Knocking, empaticamente mi ha toccato molto..lei è straordinaria e anche la regia è ben condotta..noto con piacere ultimamente tanti bellissimi personaggi queer nei film horror di qualità..ben disegnati e psicologicamente stratificati..vedo di recuperare Alone with you 👍😊🌈

    1. Sì, sono sempre di più e soprattutto la queerness non è IL problema principale. E questa è una cosa bellissima, perché non diventa l’unica cosa che definisce un determinato personaggio, ma si limita a essere parte di lui o lei.

  3. Giuseppe · ·

    Knocking era già in lista da un po’, e adesso andrò ad aggiungerci Alone with you… certo che di questo passo, davvero, i film a tema da recuperare rischiano di diventare fin troppi 😦

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