Eco-Horror: L’Ultima Onda

Regia – Peter Weir (1977)

Vi avevo avvisati che ci saremmo dedicati a un film un po’ più impegnativo rispetto a Burning Bright, rispettabilissimo B movie, molto leggero e divertente. Oggi, invece, ci tocca soffrire con Peter Weir che, due anni dopo Picninc ad Hanging Rock, dirige un’altra opera tutta basata sull’impossibilità di comprendere e abitare un paesaggio, quello australiano, ostile per natura e carico di misteri.
È interessante notare che entrambi i film, nonostante prendano in seguito direzioni molto diverse, hanno un apparente impianto da mistery: nel primo si indaga su delle ragazze scomparse, nel secondo su un omicidio; in entrambi i film questa struttura classica viene gettata alle ortiche con estrema noncuranza per raccontare altro. Se si sono versati fiumi di inchiostro per capire cosa fosse questo generico altro in Picninc ad Hanging Rock, su L’Ultima Onda abbiamo almeno una certezza: è un eco-horror. 

L’avvocato David Burton (Richard Chamberlain) accetta di difendere a titolo gratuito un gruppo di aborigeni accusati di aver ucciso un loro amico in circostanze molto poco chiare: non si sa come effettivamente sia morto l’uomo, forse annegato, ma se di annegamento si tratta, deve essere avvenuto in una pozzanghera. Gli imputati sono restii a parlare, come se nascondessero qualcosa, e l’avvocato comincia ad avere strane visioni, incubi, allucinazioni legate soprattutto a uno dei presunti assassini, Chris (David Gulpilil, attore leggendario, morto a novembre dello scorso anno nell’indifferenza generale), e a una generale situazione climatica quantomeno bizzarra.
In effetti, il film comincia con uno scroscio di pioggia nel deserto che si trasforma dopo pochi secondi in grandine, con chicci grossi come pietre che piovono in testa ai bambini di una scuola causando danni di una certa entità. Dal deserto si passa a Sidney e anche lì, l’acqua è l’elemento più presente in scena: case allagate, feroci acquazzoni, muri divorati dall’umidità, rubinetti lasciati aperti. Ma tranquilli, perché poi peggiora, e cominciano a piovere petrolio e rane.

Che vi sia un collegamento tra questi fenomeni atmosferici inusuali e il caso che sta seguendo Burton, è cosa tutta da dimostrare. Di sicuro il collegamento c’è per gli imputati. Anzi, solo loro sembrano conoscere a fondo la vera natura di quanto sta accadendo e solo loro sembrano avere una spiegazione per le visioni dell’avvocato, sempre più sgomento e incredulo. 
Si tratta di premonizioni, di mere coincidenze, di una rissa finita male o di un omicidio rituale eseguito secondo delle leggi che sono al di sopra di quella conosciuta e praticata da Burton? E da tutti quelli come lui, verrebbe da aggiungere, cui mancano gli strumenti per esistere nell’ambiente che hanno occupato in maniera abusiva, senza capirlo, senza instaurare con esso un dialogo, senza mai davvero rispettarlo, ma limitandosi a conquistarlo. 

Il problema principale di The Last Wave è che si tratta di un film molto ambiguo, che non ci pensa neanche un secondo a fornire delle risposte univoche alla miriade di dubbi disseminati nel corso dei suoi cento e passa minuti di durata. Problema per quella parte di pubblico che queste risposte le pretende; per chi vive, al contrario, nella convinzione che il cinema ha il dovere di preservare un certo tasso di ambiguità, pena la perdita della sua più grande arma di fascinazione, è nell’assenza di spiegazioni che risiede la sua grandezza. 
The Last Wave è infatti il racconto dell’attesa di un evento apocalittico che potrebbe avere delle ragioni ben precise come non averne affatto, che potrebbe rappresentare, come credono gli aborigeni, una sorta di ciclica pulizia del mondo, potrebbe avere connotazioni bibliche (la pioggia di rane) o potrebbe benissimo essere causato dal cambiamento climatico (sì, se ne parlava anche allora). 

Sono tre opzioni, tutte valide e tutte dibattute nel corso del film: nessuna di esse viene presentata come più attendibile o plausibile delle altre. 
C’è tuttavia una differenza sostanziale tra l’atteggiamento dell’avvocato Burton o del suo patrigno, uomo di chiesa, rispetto a quello di Chris e dei suoi “complici”: loro sono consapevoli del fatto che il misterioso evento in arrivo sia ineluttabile. Burton no, e infatti una delle sequenza più drammatiche di tutto il film lo vede discutere animatamente col patrigno, incapace a sua volta di dargli le risposte che cerca: “”I’ve lost the world I thought I had”, dice. Forse perché quel mondo in realtà non è mai davvero esistito. 
Per un individuo razionale è difficile accettare che esista un qualcosa che non può essere fermato o evitato. Sì, abbiamo la nozione della nostra morte, ma in realtà tendiamo abbastanza a ignorarla. Per tutto il resto, c’è una soluzione, no? Con questo tipo di mentalità, è il concetto stesso di premonizione che sfugge a Burton: non gli mancano soltanto gli strumenti per capire l’ambiente in cui vive, ma anche quelli per interpretare i segni che gli arrivano dal mondo dei sogni. 

The Last Wave è un film che ti inganna: si presenta all’inizio come una classica narrazione di incontro/scontro tra culture diverse, una roba già fatta milioni di volte; poi cambia faccia una prima volta e pare mettere lo spettatore di fronte alla scelta tra un approccio razionale o mistico a degli eventi dalla portata apocalittica; ma alla fine si trasforma ancora una volta e, dopotutto, ti mostra che non esiste una scelta, perché il disastro ambientale sarà una cosa con cui toccherà a tutti fare i conti, a prescindere dall’esserne stati la causa. 
Non è un film facile da seguire o anche da analizzare (credetemi, soprattutto se non si è esperti di storia e politica australiane e si è passato un pomeriggio a fare ricerche online invece di lavorare), ma è immensamente gratificante, una volta che si è riusciti non a decodificarlo perché è inutile, ma a farsi trasportare dal suo ritmo ipnotico e sonnambulo. 

Weir mette in scena questa complessa impalcatura facendo leva (come spesso gli capita, e giustamente) sulla suggestione visiva; è vero che l’andamento de L’Ultima Onda può risultare ostico, ma le immagini sono così potenti ed evocative che, a un certo punto, neanche più ti accorgi della presunta lentezza del film, e finisci per esserne letteralmente posseduto. Haunting è il termine che lo descrive meglio: non può esserci altra definizione, per esempio, per il sogno a occhi aperti di Burton in macchina, quando vede i passanti muoversi sott’acqua. 
The Last Wave è un enigma irrisolto, ed è un grandissimo film proprio per questo motivo. Si basa, nella sua interezza, sull’attesa di un qualcosa in arrivo, ed è volutamente privo di risoluzione. Lo stato onirico in cui cade Burton nell’ultimo quarto d’ora è così pervasivo da rendere la scena finale passibile di qualunque interpretazione. Verrebbe quasi da dire che non ne fanno più di film così, ma non è vero: li fanno ancora, li guardano molto meno rispetto a qualche annetto fa e il pubblico tende a rifiutarli perché non è più abituato a un linguaggio fatto di frammenti da rimettere insieme. 
Voi comunque vedetelo, se non lo avete già visto: non ve lo dimenticate più, promesso. 

9 commenti

  1. “potrebbe benissimo essere causato dal cambiamento climatico (sì, se ne parlava anche allora).”
    Dal 1972, più o meno.
    Nel 1977, anno in cui esce il film di Weir, si avvia la presidenza Carter in USA, e Carter decise di avviare tutta una serie di politiche ambientali, avviando un graduale processo di frenata sul cambiamento climatico.
    Ma poi come sappiamo, nel 1981 andò al potere Reagan e smantellò tutto, salvando in questo modo l’economia e sbugiardando gli scienziati cattivi e sì, anche gli aborigeni (cosa ne sanno quelli…)
    È interessante notare – ne abbimo già parlato – come il cinema degli anni ’70 avesse colto con estrema attenzione i segnali del pericolo ambientale. Quella dell’amministrazione Reagan fu (anche) una battaglia di comunicazione mediatica – meno ambiente, più esplosioni.
    Un grande successo – come mi diceva un cretino qualche giorno fa, “son passati quarant’anni e non siamo ancora morti, è segno che era tutta una balla.”
    Per citare un classico “Dannato pianeta di menefreghisti, non mi fanno nessuna pena.”

    1. Ma infatti non è casuale che l’eco-horror fiorisca proprio a partire dagli anni ’70, e poi sparisca gradualmente proprio nel corso degli anni ’80 per riaffiorare adesso.

    2. Luca Bardovagni · ·

      E alla fine, come epitaffio, arriva They Live di John Dio.
      Detto questo, adoro Weir da Kinghiano perchè è…antiKinghiano nei finali.

      SPOILER PER I POCHI CHE NON LI AVESSERO LETTI:
      The Stand? Arriva la mano di Iddio. Porca zozza. LA MANO DI IDDIO!!!
      It? UN RAGNONE PUZZONE
      La Torre Nera? SI RIPARTE DACCAPO.

      Weir non gli frega niente.
      Mette il suo NON FINALE.
      Non lo sa manco lui come finisce (questo ed Hanging Rock) .Fatevi delle domande . (Non) trovate le risposte. Tutto sommato lo trovo rispettoso del pubblico in un certo senso

      1. Sì, They Live è l’ultima parola su un’era tutta sbagliata, e ti mostra chiaramente quanto fosse tutta sbagliata.
        Weir, almeno nel periodo australiano, faceva davvero tutto quello che voleva senza rendere conto a nessuno. Che grande regista.

  2. Gargaros · ·

    Uno dei miei film preferiti di sempre. Ricordo che da piccolo mi metteva un’inquietudine assurda… e anche ora che so’ grandicello non manca di “entrarmi dentro e toccare corde che ben poche opere sanno toccare”. È per un film così (e per Hanging rock) che non perdonerò mai a Weir di essersi fatto assimilare da Hollywood.

    Dimmi solo quali altri film così fanno oggi, che corro a recuperarli.

  3. Gargaros · ·

    A propò, non direi che la morte di Gulpilil sia passata inosservata. Ricordo che ne hanno riportato parecchi siti anche non specialistici…

    1. Io ho letto la notizia soltanto sul Guardian. Però magari è colpa mia.

  4. Giuseppe · ·

    Che dire de L’ultima onda? E’ come se Peter Weir fosse riuscito a penetrare nell’Altierjinga, il Tempo/Mondo del Sogno della mitologia aborigena, per poi uscirne con una storia apocalittica che sembra appunto fatta della stessa materia (e della stessa indecifrabile logica, aggiungo) dei sogni.
    Suggestivo e imperdibile…

  5. Non conoscevo, recupero assolutamente

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: