Eco-Horror: Burning Bright

Regia – Carlos Brooks (2010)

Vi avevo avvisati che il nostro viaggetto nell’eco-Horror avrebbe toccato ogni aspetto del filone, da quello più serioso, esistenziale e accurato nella messa in scena del nostro rapporto malato col pianeta che abitiamo, a quello più dichiaratamente “di genere”, che di solito verte sul sotto (tanto sotto) filone dei cosiddetti animal attack. Che poi, sono tutti, ma proprio tutti, figli de Lo Squalo di Spielberg, a voler sintetizzare la faccenda al massimo. 
Solo che non ogni animal attack è anche eco-horror: prendiamo proprio Lo Squalo, in cui il pescecane non è che abbia una ragione ben precisa per papparsi la gente. Già Piranha e L’Orca Assassina sono più vicini alla definizione di eco-horror o eco-vengeance, perché le bestie coinvolte non sbroccano così, da un momento all’altro, ma c’è sempre di mezzo il fattore umano che contribuisce al loro rivoltarcisi contro.
Il sottoinsieme dell’animal attack prospera a lungo tra la metà degli anni ’70 e tutti gli anni ’80, poi subisce una battuta d’arresto, perché nel frattempo cambia la nostra relazione col mondo animale. Tranne con gli squali. Li squali li puoi continuare ad ammazzare allegramente in video, perché non frega un cazzo a nessuno. 
Divagazioni a parte, il filone risbuca a fasi alterne, con film interessanti ma sporadici, e un mare di spazzatura, di solito appannaggio di case di produzione livello Asylum. 

Io sono convinta di una cosa: quando Alexander Aja ha pensato di girare Crawl, aveva in mente Burning Bright, e l’intenzione era di fare nel suo film tutto ciò che il rating PG13 aveva impedito al povero Carlos Brooks di realizzare. La situazione di partenza è infatti pressoché identica: giovane donna rinchiusa in casa con animale feroce durante un uragano. Anche l’ambientazione, la Florida, è la stessa. La differenza sostanziale è che Crawl non è un eco-horror, mentre Burning Bright sì. E poi Crawl è un film superiore in ogni singolo aspetto, ma non siamo qui per parlare di questo. 
Siamo invece qui per rendere un po’ di giustizia a un film che non sarà di certo grande, ma si difende con i mezzi limitati a disposizione, ed è particolarmente riuscito nel descrivere le relazioni tra i due personaggi umani principali, e per gran parte del tempo unici in campo. 

Se pensate di star avendo una brutta giornata, pensate a Kelly, la protagonista di Burning Bright interpretata da Briana Evigan: lei vorrebbe tanto fare le valigie e andarsene al college, ma prima ha il fratellino più piccolo da sistemare, Tom (Charlie Tahan) che, oltre a essere una piattola per definizione in quanto fratello minore, è anche complicato da gestire in quanto autistico. La mamma dei due ragazzi è morta da poco, suicida, e Kelly è rimasta da sola a prendersi cura di Tom perché il loro patrigno è uno stronzo con il cervello delle dimensioni di quello di un piccione. Ora, con il college alle porte, Kelly non si fida a lasciare Tom nelle mani di un piccione stronzo, e quindi decide di metterlo in un istituto, che però costa un sacco di soldi perché è all’avanguardia. Tom sembra pure trovarcisi bene, e per fortuna che la mamma ha lasciato ai due figli un sostanzioso conto in banca. 
Solo che il piccione stronzo lo ha prosciugato per comprarsi una tigre per un folle progetto di un safari ranch, e quindi Kelly se ne torna a casa con Tom e lievemente incazzata, perché rischia pure di perdere la borsa di studio. 

E i suoi guai sono appena cominciati: per l’uragano in arrivo, il patrigno-piccione ha fatto chiudere con dei pannelli di legno ogni ingresso o uscita dalla casa, poi se n’è andato al bar a ubriacarsi e, come ciliegina sulla torta, ha chiuso anche la porta d’ingresso, senza accorgersi di aver lasciato entrare dentro la tigre acquistata quella mattina (chi ha visto il film saprà che ci sono delle ragioni ben precise per cui tutto ciò accade, ma no spoiler, grazie). La nostra Kelly si ritrova quindi impossibilitata a scappare, con porte e finestre inchiodate, una tigre affamatissima che si aggira per i corridoi, e Tom da proteggere, che è quasi del tutto privo di senso del pericolo. 
Ho definito Burning Bright eco-horror per un motivo in particolare: la tigra, poveraccia pure lei, non è particolarmente entusiasta di trovarsi in una tenuta in Florida adattata a terreno da safari per turisti, come non era particolarmente entusiasta di trovarsi al circo prima di essere venduta al patrigno piccione. Se lo squalo bianco è il villain in Jaws e gli alligatori sono i villain in Crawl, la stessa cosa non si può dire a proposito della tigre, che è una vittima delle circostanze tanto quanto Kelly e Tom. Sì, insomma, lo avete capito anche voi che il cattivo qui è il patrigno piccione. 

Ovvio che il film non azzardi un discorso sull’importazione di animali esotici, perché non ne ha il tempo, ma è altrettanto evidente che, tra i temi principali del film, ci sia anche questo, oltre a un paio di stoccate sul cambiamento climatico messe in bocca ai personaggi per far capire al pubblico dove  Burning Bright sia schierato con esattezza e senza possibilità di equivocare. 
Per quanto assurda sia la premessa (e non so quanto sia davvero assurda in Florida), Burning Bright tenta di affrontare la situazione paradossale in cui infila i suoi due protagonisti umani in maniera molto seria e realistica: la tigre, che è aggiunta in post produzione solo in casi rarissimi, si vede molto poco, nella migliore tradizione spielberghiana, e ciò che ci vende il racconto sono le reazioni di Briana Evigan alla sua presenza in casa. Briana Evigan che si prende il film e se lo porta al guinzaglio per 86 minuti: non credo esista un’attrice horror degli anni ’00 più sottovalutata di lei, forse perché arrivava da Step Up e per gli spettatori del 2010 era una cosa disdicevole, non lo so. 

In realtà, le sue origini da ballerina le tornano utili in Burning Bright, in cui affronta un ruolo fisicamente molto impegnativo. Vedere, per esempio, tutta la sequenza in cui si nasconde nel tubo della biancheria sporca e se ne sta abbarbicata alle pareti mentre la tigre cerca di raggiungerla con le sue zampotte per capire a cosa mi riferisco.
Ho letto, su quella miniera d’oro che è Letterbox, una recensione al film che suona, tradotta, più meno così: “la versione in lungometraggio di quello che combina il mio gatto quando non gli faccio fare il settimo spuntino della giornata”. E in effetti, per quanto negativa, è abbastanza centrata, e chiunque abbia un felino che gli gira per casa in questo momento sta sorridendo.
Solo che per quanto mi riguarda, non è necessariamente una cosa negativa: la tigre, che viene dipinta nella scena iniziale, quella del suo acquisto, come una creatura intenzionalmente malvagia, in realtà si comporta in modo molto naturale, senza assumere quella connotazione mostruosa che molto spesso hanno gli animali feroci in film di questo tipo. Non è di certo innocua, insomma, è pur sempre una tigre, ma è pericolosa perché si trova fuori dal suo ambiente, è inferocita perché è stata in gabbia, è affamata perché non viene nutrita da giorni. n questo senso, la componente ecologista di Burning Bright è molto spiccata e viva. 

Come dicevamo all’inizio, anche il rapporto tra i due fratelli è gestito con grandi attenzione e cura, tenendo conto dell’affetto che lega i due ragazzi, ma anche della difficoltà per Kelly, che è giovanissima, di portare sulle spalle tutto il peso delle problematiche di Tom, che dal canto suo sta male in quanto affidato a una diciottenne e abbandonato a se stesso. Kelly fa del suo meglio, ma lo vediamo che esausta. C’è una sequenza, in particolare, in cui Kelly sogna di uccidere il fratello, e non solo: sta addirittura per andarsene e lasciarlo lì con la tigre, quando trova un punto debole nella fortezza che è stata loro chiusa intorno. La relazione tra i due è quindi complicata e sofferta, ma anche molto sentita e, alla fine, per essere un PG13 su una tigre dentro casa, Bright Burn funziona molto più di quanto non si direbbe a raccontarlo. Funziona quasi contro la sua stessa volontà. 
Per la prossima puntata, giuro, affronteremo un film molto più impegnativo. 

 

3 commenti

  1. Io a questo punto mi siedo qui ed aspetto la recensione di “Roar” (1981).

    1. Roar è in programma, ma non saprai mai quando arriverà 😛

      1. Perché questa è la legge della giungla.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: