
Regia – Marcus Nispel (2009)
Se, come abbiamo visto nel corso della nostra carrellata, i remake dei primi anni ’00 andavano a pescare soprattutto nel serbatoio del new horror anni ’70, proseguendo verso la fine del decennio si cominciano a intaccare gli anni ’80, perché è lì che, da un certo punto in poi, si rivolge la nostalgia del pubblico, e perché l’horror di quel periodo è più semplice, e anche i remake si stanno semplificando. Quando abbiamo discusso di Non Aprite quella Porta e di Le Colline Hanno gli Occhi, è stata più volte sottolineata la natura politica dei film originali e dei loro rifacimenti. Già a partire da My Bloody Valentine, che infatti è dello stesso anno di questo Venerdì XIII, la musica cambia radicalmente. Io lo so che non è un termine tecnico e dal particolare valore critico, ma d’ora in poi ci troveremo di fronte a una serie di film stronzi. E, ve lo giuro, per quanto ci abbia riflettuto, “stronzi” mi sembra la definizione più calzante.
Non credo esista un film più stronzo del remake di Venerdì 13 diretto da Nispel e prodotto da Bay. Con queste premesse, si prova ad analizzarlo rimanendo seri.
Che poi, chiamarlo remake non è del tutto corretto: Venerdì 13 2009 riconosce gli eventi accaduti nel film del 1980 e li inserisce nel prologo. È quindi in parte un sequel del primo film, in parte un omaggio all’intera saga e, nella sua totalità, un santino al personaggio di Jason, qui protagonista indiscusso, dato che di Pamela ci si libera nei primi due minuti. Ma dopotutto, e nonostante le domande trabocchetto di Ghostface, Jason è l’assassino di Venerdì 13, lo è nell’immaginario collettivo, e non credo che Bay avrebbe mai prodotto un rifacimento del primo film senza Jason, anche se forse sarebbe stato molto più interessante. Ma appunto, non era nelle intenzioni della produzione di realizzare un film interessante: Friday the 13th è un film programmaticamente stronzo.
Il motivo per cui lo è riguarda il modo in cui l’horror degli anni ’80 in generale, e lo slasher in particolare, è percepito dal grande pubblico cui, ricordiamolo, questi remake si rivolgono.
Venerdì 13 non è, non vuole essere, una riproduzione fedele del cinema horror anni ’80, non vuole ricalcare o riproporre per lo spettatore del XXI secolo l’atmosfera scalcinata di quegli slasher, e neppure quella della saga del povero Jason.
Dato che oggi comincia ufficialmente la Scream week, ne approfitto per ricordare che, senza aver visto Scream, non è possibile comprendere lo sviluppo del genere a esso successivo. Se io vi dico che il Venerdì 13 del 2009 è un Venerdì 13 scritto da Randy, o da un qualunque suo omologo contemporaneo, non credo ci sia molto altro da spiegare, però io sono pedante e spiego lo stesso. Venerdì 13 è un film concepito con in testa la formula stereotipata, e stabilita a posteriori, dello slasher anni ’80; è quindi fatto raccattando appositamente tutto il peggio che di solito viene attribuito al filone, mette le crocette su ogni possibile casella del manuale del perfetto slasher, ma è allo stesso tempo lontanissimo dall’estetica del periodo storico cui fa riferimento. In altre parole, gli sceneggiatori Mark Swift e Damian Shannon hanno visto Scream e non lo hanno capito.
Di conseguenza, abbiamo un gruppo (duplice, poi ci torniamo) di personaggi che incarnano i più retrivi cliché con cui di solito si colpevolizza lo slasher: boobs, blood e imbecilli assortiti, tutti intenti a bere come spugne, a fumarsi l’intera produzione di erba di un paese medio grande e a portarsi a letto ogni bipede in circolazione, mentre all’esterno un energumeno armato di machete li fa fuori perché se lo meritano e il pubblico esulta a ogni morto ammazzato. Non so se vi rendete conto che anche ciò che sto scrivendo io è un cliché, ma Venerdì 13 è strutturato in questo modo: i cliché li abbraccia, li spiattella uno dietro l’altro senza pudore e li spalma sui 97 minuti di durata. È il suo intento, è il suo scopo, è nato così, risultando poi uno dei film più stronzi che qualcuno abbia mai avuto l’ardire di mettere in scena.
La cosa che mi costa ammettere è che in fin dei conti funziona proprio perché è fatto in questo modo. E non mi costa ammetterlo perché io sia particolarmente legata al film di Sean Cunningham: era bruttino, lo sappiamo, ne abbiamo discusso qui decine di volte, e nessuno si ergerà mai a strenuo difensore del suo valore artistico.
Mi costa ammetterlo perché questa concezione dello slasher non è del tutto falsa: molto spesso, e soprattutto con il boom dei VHS, gli slasher degli anni ’80 erano sordidi e laidi e pornografici nel senso che le vicende narrate fungevano da mero collante tra un omicidio e l’altro o tra una nudità femminile e l’altra. E tuttavia, erano film di serie B, a basso costo, girati di solito in condizioni di miseria e fatti per raccattare quei quattro soldi necessari ad arrivare al film successivo; Venerdì 13 è, al contrario, una grossa produzione hollywoodiana, costa 19 milioni di dollari e ne incassa quasi 100 in tutto il mondo: avrebbe gli strumenti per essere diverso, ma se ne frega e preferisce fare ciò che è comodo, facile, immediato. Funziona perché attinge in una memoria condivisa familiare più o meno a tutti, e perché ci sono degli ottimi professionisti al lavoro, tra cui Derek Mears che, con tutto l’amore per Kane Hodder, si fa carico di portare sullo schermo il Jason più minaccioso e feroce di sempre. Non voglio dire di preferire il primo al secondo, ma che Mears, in particolare nella prima parte, quando Jason ancora non indossa la maschera, fa davvero paura.
Il film ha una sequenza d’apertura (oddio, sono venti minuti buoni), prima che appaia sullo schermo il titolo, che da sola varrebbe il prezzo del biglietto: è tesissima, violenta e contiene gli omicidi migliori; mi piace perché fa fuori in poco tempo la bellezza di quattro personaggi di cui non me ne potrebbe fregare di meno e, se questo deve essere l’andazzo del film, tanto vale spingersi su quella strada sino in fondo. Nel prologo di Venerdì 13 è possibile trovare condensata l’intera “poetica” della successiva ora e spicci: non si fa in tempo neppure a intravederlo, Jason, che già una sfortunata campeggiatrice si è sollevata la maglietta per mostrarci il seno, e non è neanche la modalità più bieca e lercia con cui Nispel ci esporrà a simili visioni; ovviamente, la poveraccia finisce bruciata viva nel suo sacco a pelo, prendendosi subito il premio come morte più atroce dell’intero remake. Una volta che Jason li ha massacrati (quasi) tutti, purtroppo comincia il film vero, con un nuovo assortimento di personaggi che riescono a essere irritanti anche senza aprire bocca.
Venerdì 13 è prevedibilissimi, e anche in questo segue il manuale, tranne per un guizzo finale che, a seconda dello schieramento, può essere giudicato scellerato o quasi rivoluzionario: è uno slasher che fa a meno della final girl, o meglio, ne sfrutta lo stereotipo fino agli ultimi minuti e poi la fa morire male a un passo dalla salvezza, per passare il testimone a un altro personaggio femminile che abbiamo visto sì e no in tre scene. Ma questo perché il film ha il suo final boy, ovvero Jared Padalecki al suo secondo remake horror degli anni ’00, quello in cui non viene tramutato in una scultura di cera, ma ce la fa ad arrivare ai titoli di coda. Quasi.
Se si esclude la scelta di cui sopra, Venerdì 13 è così canonico, triviale, volgare, così stronzo, appunto, da risultare in fin dei conti innocuo, cosa che tuttavia, nonostante le sue evidenti mancanze, il suo predecessore non è mai stato, in parte per l’influenza che ha avuto sullo slasher degli anni a venire, in parte perché la presenza di Pamela Voorhees scombinava parecchio le carte e lo salvava dall’essere soltanto un clone campestre di Halloween.
Questo è un clone non tanto di Venerdì 13, ma dell’idea che il mondo si è fatto degli slasher a botte di critiche negative e incomprensioni varie. È per questo, soprattutto, che non riesco a perdonarlo: dà ragione ai picchetti di mamme davanti ai cinema, dà ragione a Siskel che pubblica l’indirizzo di Betsy Palmer per farla insultare dai suoi lettori. Poi, a suo modo, è anche divertente. Come una festa piena di maschi adolescenti cinefili che ti guardano il culo.
Non lo vedo da una vita (come praticamente tutti i remakes di quegli anni) e persino la rece che scrissi all’epoca mi risulta estranea:
“Remake in cui da salvare c’è soltanto una cosa: l’idea di condensare in un solo film le prime tre pellicole della serie.
Tutto il resto è mediocre al quadrato: se già l’originale era una rimasticatura (sessista e sessuofoba) dei cliches degli slashers di fine anni 70, il remake è semplicemente copia di copia (di copia… vedere per credere Reazione a Catena di Mario Bava, anno 1971, capolavoro tral’altro), con attori dalle chiome impomatate e attrici dalle tette rifatte.
Professionale, non indegno ma completamente vuoto”
Tutto sommato la premessa poteva anche essere intrigante, ma temo che il grosso budget sia stato più un limite che foriero di possibilità.
Certo che a cimentarti in questa maratona di remakes anni 00ies dimostri uno stomaco d’amianto, personalmente non credo sarei in grado di rivedere certi film nella consapevolezza che rappresentano tutto ciò che non voglio trovare in un film horror.
Alcuni sono stati delle belle sorprese, come Non Aprite quella Porta, per esempio o, paradossalmente, Quando chiama uno sconosciuto.
Altri li ho rivisti (Prom Night e Halloween di Rob Zombie) ma non ce l’ho fatta nemmeno a scriverci sopra un articolo ragionato perché sai come ho cercato di impostare questa rubrica. L’unico che non sono riuscita a finire di vedere è stato The Omen.
Io invece – ma mi conosci e quindi te lo aspetti – non lo considero innocuo, perché contribuisce a formare un certo gusto e un certo pubblico, quelli che lo definiscono un filmone e poiché è tanta roba lo usano come standard su cui giudicare ogni pellicola, da Bambi a al Dune di Villeneuve.
Non solo questo film, naturalmente, ma l’ìintera categoria di quelli che chiami film stronzi.
E il vero problema è che questi ragazzini cinefili poi questa certa forma mentis se la portano anche a casa, e per strada, e a scuola o al lavoro. E nelle loro relazioni interpersonali.
Sì, il Venerdì 13 di Nispel è davvero imperdonabile… canonico, triviale, volgare, stronzo: tutto vero. E in primis (nonché purtroppo) realizzato da chi, forse convinto di essere un vero conoscitore dello slasher anni ’80, ha appunto solo finito per confermare in toto i pregiudizi di chi il filone l’ha sempre disprezzato senza mai nemmeno provare a capirlo. Talmente imperdonabile da non riuscire mai nemmeno ad essere in qualche modo divertente, almeno per me… 👎