I remake del 2000: The Texas Chainsaw Massacre

Regia – Marcus Nispel (2003)

Il concetto di remake è vecchio quanto la storia del cinema. Quando qualcuno si lamenta perché a Hollywood (o in qualunque altra parte del mondo) non ci sono più idee originali, la risposta da dargli sarebbe che, con ogni probabilità, non ce ne sono mai state moltissime, e che comunque l’originalità è una faccenda abbastanza sopravvalutata.
Premesso ciò, l’ondata di remake che, per comodità, facciamo risalire al primo decennio del XXI secolo, ma in realtà potrebbe essere benissimo periodizzata a partire dal post 11 settembre, possiede delle caratteristiche specifiche: si tratta di un ciclo produttivo in piena regola, con un inizio e una fine, con delle premesse e degli strascichi a esso successivi; fonda, a suo modo, un’estetica e possiede un “pacchetto”  di contenuti più o meno fissi, entrambi riconoscibili. Insomma, basta un fotogramma preso da uno di questi remake, a prescindere da regista, produttore o sceneggiatore, per identificarli immediatamente. 
Non solo: proprio a partire dal rifacimento prodotto da Bay e diretto da Nispel del film di Hooper del 1974, nasce un nuovo modo di fare cinema dell’orrore negli Stati Uniti, che oltrepassa il confine piuttosto circoscritto del remake e si estende anche ai film cosiddetti “originali”. 
È una tendenza che già si respira con Wrong Turn (quasi un remake non autorizzato, a dire la verità), che esploderà poi con i vari Saw e Hostel, ma a guardare con attenzione, è già tutto presente nel film che ha dato inizio alle danze. Per farla breve (e questo post, per forza di cose, non sarà breve), The Texas Chainsaw Massacre di Marcus Nispel è un film importantissimo, anche senza darne (ancora) un giudizio di merito.

Quando ci parliamo di remake, a mio avviso, partiamo sempre da un errore di fondo, che finisce poi per pregiudicare un discorso centrato a riguardo: pensiamo che ogni remake, anzi, che il remake in quanto tale sia un’operazione nostalgia, atta quindi a capitalizzare sul ricordo dei bei tempi andati di chi ha vissuto un determinato periodo storico e i film che lo hanno contraddistinto. Peccato che i remake dei primi anni ’00 non capitalizzino sulla nostalgia, perché quella è una faccenda che appartiene agli anni ’10: Star Wars è un’operazione nostalgia, Stranger Things è un’operazione nostalgia. The Texas Chainsaw Massacre non è rivolto a chi gli anni ’70 li aveva vissuti in prima persona, è rivolto a chi è nato dopo. Il suo pubblico di riferimento è formato per una larga percentuale da chi, nel 2003, andava al liceo, e in parte anche alla mia fascia d’età. Ho compiuto 25 anni proprio il mese in cui il film di Nispel è arrivato nelle sale; troppo anziana per non avere il ricordo di Non Aprite quella Porta, troppo giovane per averlo visto in sala e averne assaporato l’atmosfera in prima persona. 
E tuttavia, essendoci quel volpone di Michael Bay dietro, è evidente che The Texas Chainsaw Massacre lucri su qualcosa, altrimenti non se ne spiegherebbe il successo e non si spiegherebbe l’ondata di remake fatti a sua immagine. 

Non fatevi ingannare dall’ambientazione negli anni ’70, perché è puramente di facciata. Quelli del film di Nispel non sono gli anni ’70: sono sbagliati i costumi, sono sbagliati i corpi, sono sbagliati i dialoghi. Ma non è frutto di un errore o di sciatteria. Se ci fate caso, Non Aprite quella Porta è uno dei rarissimi remake a rispettare, almeno formalmente, l’epoca storica in cui si svolgeva l’originale; tutti gli altri, o quasi, vengono trasferiti in periodo contemporaneo, proprio a differenza di analoghe (all’apparenza) produzioni del decennio successivo che si basano sulla ricostruzione meticolosa di un modo di fare cinema e di un preciso momento, allo scopo di solleticare i nervi nostalgici di una generazione di tonni (la mia). Se vogliamo andare a scovare un’operazione nostalgia contemporanea a questi remake, dobbiamo citofonare a Rob Zombie e al suo The Devil’s Rejects, tanto per farvi capire a cosa mi sto riferendo.
E allora, su cosa, esattamente, capitalizza Michael Bay? Quali punti di pressione va a toccare per trascinare così tanti ragazzini in sala, e addirittura arrivare a cambiare nel profondo il modo in cui Hollywood si approccia a un genere, l’horror, da sempre non troppo amico degli studios?

La risposta corta è che Bay capitalizza sull’angoscia e lo smarrimento di un paio di generazioni; quella lunga è che, soprattutto negli Stati Uniti (ma anche da noi, non è che il 2001 sia stato proprio una passeggiata, nevvero?), c’è una sinistra somiglianza tra gli anni ’70 di Tobe Hooper e gli anni ’00 di Bay: si respira la stessa disillusione, la stessa aria pesante di sconfitta e fallimento, c’è la percezione, vaga ma dolorosa, che forse i cattivi siamo noi, e serpeggia una sfiducia nei confronti dell’autorità, che spesso sfocia in terrore e odio puri. Di recente, la stampa si è sperticata in paralleli tra Vietnam e Afghanistan; Michael Bay, duole dirlo, ci era arrivato 20 anni prima. 
La differenza è che il new horror parte “dal basso”, da un pugno di registi indipendenti e arrabbiatissimi che sono stati capaci di fotografare una situazione come nessuno prima di loro; i remake del 2000 partono dall’alto, dagli studios che capiscono quanto sia facile fare dei soldi su una analoga situazione. Quindi il recupero non è nostalgico, ma si muove su un terreno di fobie simili, da aggiornare ai tempi attuali. Per questo i protagonisti di The Texas Chainsaw Massacre non sono dei ventenni degli anni ’70, ma dei ventenni del 2003 con una data posticcia appiccicata in sovraimpressione prima dei titoli di testa. In seguito, cadrà anche quest’ultima finzione, e i film saranno direttamente ambientati nel presente. 

Stabilita la sua importanza all’interno della storia del genere, non resta che da chiedersi se The Texas Chainsaw Massacre del 2003 sia un buon film. Anche in questo caso, la risposta non è semplice e non è univoca, anche perché il dono dell’oggettività non ce l’ha nessuno, figuriamoci io che al massimo ho il dono di trasformarmi in Zia Tibia il primo giugno.
Ho passato quasi vent’anni della mia vita a detestare questo film per partito preso e, ora che ho cercato di rivederlo con uno sguardo meno schierato e più maturo, ci ho comunque trovato gli stessi difetti della prima volta: è voyeuristico ai limiti della pornografia, ha uno stile patinato che continua a non piacermi, oltre al fatto che ho sempre trovato un po’ stramba la sua illuminazione; spesso non si capisce da dove arrivi la luce e nelle scene notturne l’impressione è che una flotta di ufo stia gravitando sopra le cime degli alberi coi fari sparati a cannone; ha un’insistenza sul dettaglio lercio, marcio e lurido di cui tuttavia si nota la costruzione a tavolino. Non è il marciume vero di Hooper, è ricreato per schifare, non è sentito, non è sincero, è fittizio. Hooper con un paio di piume di gallina e qualche ossicino ti gettava in un antro demoniaco; Nispel ti piazza le dita mozzate come elementi d’arredo, i liquami di dubbia origine e tutta la sporcizia del mondo e non riesce a essere autentico; è barocco dove il film originale era essenziale nella sua brutalità. 
C’è poi la faccenda della povera Jessica Biel che a un certo punto deve essere investita da getti d’acqua in maniera pretestuosa giusto perché la sua canottiera aderisca il più possibile alla pelle. È lo stesso Leatherface, che è un dritto, ad azionare a cazzo il sistema anti-incendio del mattatoio. Ma qui si inaugura il “tank top horror”, e pure questo ce lo ritroveremo tra le scatole per tutti gli anni ’00. 
Eppure, ha delle cose bellissime di cui ai tempi non mi ero resa conto. O avevo fatto finta di non vedere. 

Da un certo punto di vista, parecchi di quelli che continuo ad annoverare tra i suoi difetti principali sono al contrario dei tratti distintivi di un’estetica che questo film ha contribuito a fondare e che, lo vedremo, saranno ricorrenti. È un linguaggio, ed è ben preciso, è quello del torture porn, e se sono convinta che Nispel lo maneggi in maniera maldestra e che, tanto per fare un nome a caso, Aja sia molto più consapevole, bisogna comunque ammettere che il regista è stato tra i primi a usarlo in un determinato modo e con determinati scopi.
Al di là di queste considerazioni, il film ha anche alcuni momenti memorabili, delle intuizioni visive che sarebbe sciocco ignorare: una delle più belle inquadrature del decennio è quella del suicidio di Lauren German all’inizio del film, con la MdP che passa da dentro il buco sulla nuca della ragazza e si allarga senza stacchi fino all’esterno del pulmino dove viaggiano i protagonisti; la sequenza in cui Faccia di Cuio “indossa” la faccia del fidanzato di Biel è anche a forte impatto, un po’ per il framing più sporco del solito, un po’ per la recitazione di Biel, molto credibile, è uno dei pochi momenti in cui si respira un autentico senso di orrore. 

Ma più di tutto, The Texas Chainsaw Massacre funziona quando si allontana dal modello originale e si inventa il personaggio del finto sceriffo interpretato dal grandissimo R. Lee Ermey. Inserisce un elemento di novità assente nel film Hooper, rappresentato da una figura autoritaria, anche se fasulla, e ci mostra con una potenza inusitata cosa significhi trovarsi alla mercé di un potere caotico, folle, irrazionale, che può decidere della nostra vita e della nostra morte. I ragazzi si fidano dello sceriffo, porta una divisa, in quel momento, per loro, è fonte di salvezza. Questa fiducia viene tradita nel modo più feroce possibile, fotografando, finalmente con sincerità, una ferita generazionale che in quegli anni abbiamo patito tutti. 
In fin dei conti, mi sento di salvarlo, questo remake. È un’opera che suscita delle reazioni forti, non solo importante storicamente, ma anche artisticamente. 
A suo modo, una pietra miliare. 

11 commenti

  1. Il tuo è un bell’articolo Lucia,anche se sulla cosiddetta messa in scena stranamente barocca di Marcus Nispel andrebbe aperto un capitolo a parte che non hai menzionato,e riguarda la sua provenienza professionale! Di lui sappiamo che proviene dal mondo dei video clip musicali,e devo dire che dopo tantissimi film vari visionati nel corso del tempo,mi sono reso conto di quanto questa provenienza possa essere un vantaggio oppure un grave handicap! Di norma un regista proveniente dal mondo degli spot pubblicitari oppure appunto dai video musicali,tendono ad essere avantaggiati sul piano stilistico avendo una bella creatività,il problema è che molti di loro quando vengono portati in un ambiente lavorativo differente come il set di un lungometraggio cinematografico,evidentemente hanno molta difficoltà nel separare l’estetica “videoclippara” da quella cinematografica,Nispel per la maggior parte ha diretto questo film come appunto un video-arte musicale come ad esempio lo strano uso delle luci da te menzionato! Sono decisamente pochi i registi provenienti dal quel mondo ad essere riusciti ad evolvere la loro messa in scena nel passaggio al mondo del cinema,i migliori esempi che mi vengono in mente sono i fratelli Ridley e Tony Scott oppure Alex Proyas! Di certo però concordo con te che nel bene e nel male questo film abbia influenzato molto il cinema dei primi anni 2000,non lo considero un brutto film,e come hai detto tu il fatto che non sia una banale operazione nostalgia,un pò me lo rende anche simpatico! Ciao!

    1. Sì, non ho menzionato Nispel videoclipparo perché credo sia una cosa nota a chiunque conosca vagamente il film di cui stiamo parlando. Ora, non mi ricordo bene se Proyas era un pubblicitario o un regista di videoclip, ma entrambi i fratelli Scott vengono dalla pubblicità.
      Alla fine, credo, una provenienza vale l’altra, perché da qualche parte devi pur cominciare, e puoi utilizzare gli strumenti appresi facendo videoclip e applicarli al cinema senza che questo diventi per forza un difetto. Il problema di Nispel, secondo me, è che dopo l’esordio, non si è più evoluto, e se si guarda per esempio Venerdì XIII, di qualche anno dopo, le cose sono pure peggiorate.

      1. Proyas ha diretto sia videoclip che spot pubblicitari prima di darsi al cinema! Se ti rivedi Il Corvo e poi Dark City ci si rende conto di quanto il regista abbia adattato il suo linguaggio da quello puramente art-house tipicamente musicale a quello cinematografico,semplicemente ritengo che un regista come Nispel probabilmente darebbe il suo meglio nella direzione di un videoclip piuttosto che di un film,informandomi ho saputo che proprio il produttore Michael Bay in virtù del suo passato pubblicitario,avesse scelto Nispel ritenendolo adatto! L’occhio puoi avercelo anche per l’estetica con un passato da videoclipparo,ma evidentemente occorre anche un diverso tipo di disciplina,per non ritrovarsi a dirigere un video musicale allungato! Concordo che una provenienza vale l’altra,ma penso che non sia poi così facile!

      2. “Venerdì 13” di Marcus Nispel era tremendo,il mio cuore batte per “Jason X” folle quanto si vuole e zeppo di stramberie,ma almeno ha avuto il coraggio di reinventare da zero la saga!

  2. Una nota veloce sull’operazione nostalgia: le operazioni nostalgia non sono MAI rivolte a chi ha vissuto un dato periodo, ma a chi quel periodo lo ha visto da lontano e per procura. Il publico di Happy Days non sono i ragazzini degli anni ’50 che a fine anni ’70 hanno trenta/quarant’anni, ma i ragazzini dei tardi anni ’60, che gli anni ’50 se li sono solo sentiti raccontare o li hanno visti in TV. Ed ora li rivedono in TV, ma con un linguaggio aggiornato; il look & feel della rappresentazione di un’epoca (e non della realtà), ma storie, personaggi el inguaggio del presente.
    Allo stesso modo Stranger Things non ci dà gli anni ’80, ma l’immaginario dei film degli anni ’80, aggiornato per un pubblico che negli anni ’80 andava all’asilo, e li ha vissuti per procura (e ora continua a farlo).
    Il che poi non è diverso da ciò che fa Nispel. Fa un film “al gusto di anni ’70” per chi quegli anni se li è sempre solo sentiti raccontare. La differenza con le operazioni nostalgia è solo una questione di gradazioni di artificiosità, e di onestà della rappresentazione.
    Io poi naturalmente trovo tutto questo estremamente malsano, ma è noto che io sono una persona che manca di ironia.

    1. Io non sono del tutto d’accordo: l’operazione nostalgia è rivolta principalmente a chi c’era ma magari era troppo piccolo per ricordare com’era sul serio. Almeno questa è l’operazione di roba come la nuova trilogia di Star wars, the Mandalorian o Stranger Things. Sono prodotti rivolti alla gente della mia età, e infatti si stanno tutti imbizzarrendo perché a breve non sarà più la loro infanzia il serbatoio nostalgico, ma quella dei ragazzi nati nei ’90: Fear Street, il nuovo Scream, etc.
      I remake di cui parlo io bypassano direttamente la nostalgia e si rivolgono ai giovani e ai giovanissimi. Soprattutto, non hanno il tocco nostalgico, ne fanno tranquillamente a meno.

  3. Blissard · ·

    Interessante la tua contestualizzazione; personalmente non sono mai riuscito a capire come mai questo remake abbia avuto tanto successo alla sua uscita, successo che ho constatato con mano qualche anno dopo quando, portando qualche dvd horror a casa di amici, molti dei quali non appassionati del genere, ho dovuto accantonare subito quello di NAqP perchè l’avevano già visto tutti.
    A me non è affatto dispiaciuto all’epoca, non l’ho odiato anzi ho apprezzato l’idea di realizzare una versione “pane e salame” di quello che, a conti fatti, è stato un horror epocale e rivoluzionario. Non so se è stato l’11 settembre o altre catastrofi psichiche collettive, ma ad inizio anni 2000 i coloratissimi slasher-splatter anni 80 e il metahorror anni 90 sembravano reperti archeologici, e il NAqP di Nispel (che, lo dico a mio rischio è pericolo, per me è un buon regista) ha anche il merito di adattare il teen-horror alla sporcizia patinata di Seven e alla visceralità (irraggiungibile) dell’originale hooperiano, creando uno strano ibrido dal fascino trasversale e bizzarro.

    1. L’horror “divertente” muore di stenti con l’11 settembre. Che poi è una data spartiacque che usiamo perché ci fa comodo, ma se ci si fa caso, le cose cominciando a cambiare direzione con Columbine.
      Però è anche vero che, dal 2003 circa in poi, la tendenza a fare horror ultraviolenti e cupissimi non è soltanto statunitense. Forse è che le catastrofi collettive le stavamo vivendo più o meno tutti. Negli USA è interessante, come dici tu, l’uso di questi corpi giovanissimi e attraenti che arrivano dritti dagli slasher anni ’90, in un nuovo contesto che gioca letteralmente a ridurli a brandelli. Credo che parlerò in maniera più approfondita di questo con House of Wax.

  4. Tigrero · ·

    E diciamolo! Sto film al netto di difetti evidenti, non era male… Non ho mai capito l’odio per questo film… È il remake meno peggio degli anni 00… Poi veniva da dei seguiti abbastanza inguardabili… E mi riferisco anche a TTCM2 che è un film nato storpio, montato, tagliato dai produttori e non capito dal pubblico… Poi c’è da dire che l’ultima parte in Found Footage da una bella botta a fine pellicola… Questo è salvabile non un capolavoro ma almeno mi ha fatto conoscere l’originale quando ero ragazzino… Io non avevo fratelli maggiori e quindi i film li scoprivo da solo, i remake, anche quelli più brutti, sono stati sempre didattici in quel senso…

  5. Giuseppe · ·

    Possiamo dire che qui, provando a riconsiderare questo remake al netto dei difetti da te giustamente elencati, si è forse avuta per un attimo l’illusione di un Nispel destinato a un percorso differente da quello oggi universalmente conosciuto (purtroppo) ma, appunto, alla fine è stata solo un’illusione. Come pure il suo Venerdì XIII ha ampiamente dimostrato (per non parlare del remake di Conan, ovviamente)…

    1. Purtroppo il remake di Conan mi è capitato di rivederlo abbastanza di recente, e non ha alcuna qualità in grado di redimerlo. Quello di Venerdì XIII non lo rivedo da anni, e me lo ricordo molto brutto, ma chissà cosa succederà quando arriverà il suo turno!

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