
Regia – Nia DaCosta (2020)
Una bella settimana dedicata ai remake, verrebbe da dire, se non fosse che il Candyman di Nia DaCosta (non, e sottolineo non, di Jordan Peele) non è un remake, ma un sequel, da intendersi sia nell’accezione spirituale sia letterale del termine: dal un lato, come molte rivisitazioni moderne di classici del cinema horror con oltre 30 anni di vita sul groppone, ne aggiorna la mitologia ai tempi attuali, cercando di riparare a tutta quella serie di errori che un tempo non erano considerati tali, ma oggi, per fortuna, vengono finalmente riconosciuti; dall’altro riconosce gli avvenimenti del primo film, quello diretto da Bernard Rose nel 1992, e instaura con esso un dialogo molto interessante, che si dipana proprio a partire da come le comunità costruiscono le proprie leggende, e come sia sempre più complicato tenerle vive in un mondo che smarrisce i riferimenti culturali e il senso di appartenenza.
Il Cabrini-Green, quartiere di Chicago realmente esistito, nonché ambientazione e protagonista aggiunto di Candyman 1992, non c’è più. O meglio, non c’è più come lo ricorda chi ha visto il film: nel 2002, i palazzoni che facevano da sfondo alle vicende del personaggio di Tony Todd sono stati demoliti, e con essi il ricordo dell’uomo con l’uncino.
Il film di DaCosta parte quindi da un’affascinante fusione tra realtà e fiction; la storia stessa del Cabrini-Green diventa parte integrante del racconto cinematografico in questo Candyman, e la sua assenza (che, ve lo assicuro, pesa) deve essere affrontata in qualche modo. E così. DaCosta ne fa la solida base da cui far partire tutta la sua complessa narrazione.
Adesso, il fu Cabrini-Green è un quartiere fighetto che sorge sulle macerie del suo antenato malfamato, ma la sua natura profonda e ancestrale di luogo infestato non cambia, è soltanto sepolta sotto la dimenticanza, schiacciata dai voluti e programmatici sradicamento e dispersione di una comunità, cui se ne è sovrapposta un’altra che tuttavia non conosce e non vuole sapere quali leggende abbiano per anni nutrito le paure e le speranze degli abitanti di quei casermoni di cemento.
Eppure basta davvero poco perché una vecchia storia caduta nel dimenticatoio si faccia carne e torni a mietere vittime.
Il Candyman del ’92 è un film eccezionale, uno dei migliori horror degli anni ’90, forse addirittura il migliore, se si esclude Scream che è fuori scala. Di solito si tende un po’ a inserirlo nello stesso scaffale degli slasher: dopotutto c’è un tizio con un uncino al posto di una mano che ti ammazza se dici il suo nome 5 volte davanti allo specchio. Però Candyman non è uno slasher; ha una struttura molto complicata, fatta a incastro, parla di leggende urbane localizzate in un ambiente molto specifico e di un elemento estraneo, Helen, che pretende di introdursi in quell’ambiente e capirlo, senza avere la più pallida idea di ciò a cui sta andando incontro.
È anche un film problematico, senza nulla togliere ai suoi meriti: Bernard Rose soffre un po’ dello stesso complesso della sua protagonista Helen, quello del white savior. Inoltre, Candyman tendeva ad adagiarsi un po’ troppo sull’antico stereotipo (risalente addirittura a The Birth of a Nation) dell’uomo di colore che si avvicina con fare predatorio alla donna bianca.
Detto ciò, e basta leggere un paio di articoli, ascoltare qualche intervista o podcast o guardare il bellissimo documentario Horror Noire per farsi un quadro preciso della situazione, Candyman rimane un film fondamentale per gli appassionati di horror afroamericani. È il film che ha cambiato tutto, forse anche in misura maggiore rispetto a La Notte dei Morti Viventi.
Per questo motivo, la sua eredità non è facile da gestire. Si tratta di rifondare un film da una prospettiva differente, non soltanto di raccontare il seguito di una storia; si tratta di fare i conti con un passato di violenza e oppressione, e di comprimere il tutto in 90 minuti.
DaCosta ha 31 anni, è nata 3 anni prima che Candyman arrivasse nelle sale, è una regista molto giovane al suo secondo lungometraggio e si deve barcamenare tra varie spinte che vanno tutte in direzioni differenti. È incredibile la coerenza narrativa del suo Candyman, che forse avrebbe beneficiato di un quarto d’ora in più, per dare un respiro maggiore alla narrazione e approfondirne alcuni aspetti, ma che fila lo stesso come un treno, riesce ad avere un’anima più tradizionalmente slasher del suo predecessore, più gore, più violenta, più viscerale; riesce a operare non un semplice cambio, ma un ribaltamento completo del punto di vista, e a dare una nuova identità, collettiva, universale, al mito dell’uomo zuccherino.
Le persone sono storie; le storie si tramandano e, nel passare da un orecchio all’altro, si trasformano e si distorcono. È così che nasce il mito. Ma cosa succede se sono sempre gli altri a raccontare la nostra storia?
Io credo che sia questo il nucleo centrale del nuovo Candyman, nonché la parte più importante di quel dialogo instaurato col suo predecessore.
All’inizio del film, uno dei personaggi racconta al protagonista Anthony (Yahya Abdul-Mateen II) una versione delle vicende del Candyman del 1992. Non è la versione che conosciamo noi, è diversa perché filtrata attraverso una determinata prospettiva, è falsa, anche se i suoi snodi principali vengono formalmente rispettati.
Questo è quanto è accaduto alla nostra comunità per anni, sembra volerci dire Nia DaCosta: i traumi, le violenze subite, intere generazioni cancellate, tutte queste storie sono arrivate al mondo tramite altri, raccontate da altri, ridotte e addomesticate per gli altri.
Il Candyman del ’92, in un certo senso, rassicura lo spettatore bianco perché la sua eroina è bianca, è buona, salva un bambino dalla fiamme, mentre il mostro (nero) lo vorrebbe sacrificare. Il dramma della discriminazione viene certamente considerato da Rose, ma è comunque un personaggio bianco a farsene carico.
Quello che molti critici afroamericani, parlando di Candyman, definiscono il “Black martyrdom” deve far parte di una conversazione il cui scopo non può e non deve essere rassicurare e confortare i bianchi sul loro ruolo. Al massimo, questi possono giocare la parte delle vittime dell’uomo con l’uncino (che nel primo film erano quasi tutte nere), possono stare sullo sfondo e morire male, perché non sono più al centro del discorso.
Nel primo film, Candyman era un mostro che terrorizzava una comunità nera, e il suo regno di terrore terminava con l’intervento di Helen; DaCosta rivendica Candyman come appartenente alla comunità, lo rende un simbolo, oltre che una leggenda; si riappropria della creatura mostruosa rovesciandone il significato e ritorcendolo contro i suo creatori.
Per cui Candyman è sì il pittore che commise l’imperdonabile errore di innamorarsi di una donna bianca, ma è anche un ragazzino condannato alla sedia elettrica, un uomo linciato dalla folla, un senzatetto ammazzato di botte dalla polizia.
È spietato e dispensa giustizia come una divinità vendicativa, e lo fa alla cieca, senza fare distinzioni tra innocenti o colpevoli. Nessuno ha mai fatto tali distinzioni per lui.
Le ultime parole che ascoltiamo nel film sono “Tell everyone“, tradotto da un adattamento dei dialoghi pedestre in un innocuo “spargi la voce”. Nessuno, d’ora in poi, dimenticherà più Candyman e il suo uncino, e di sicuro nessun bianco si azzarderà mai più a raccontare la sua storia.
Un film che mi ha positivamente colpito,nonostante la sua natura di sequel non commette l’errore di fare il copia incolla dell’originale,ma al contrario prende una sua coraggiosa direzione personale che forsè non piacerà a tutti ma che io ho trovato decisamente rinvigorente nei confronti del mito di Candyman! Molto brava è stata la regista Nia DaCosta e devo dire che la presenza di Jordan Peele come co-sceneggiatore si è fatta sentire,rendendolo ancor più dichiaratamente politico rispetto al più tradizionale seppur ottimo approccio di Bernard Rose,una nuova versione del Boogeyman del Cabrini-Green chiaramente ispirata dai recenti eventi negli stati uniti che non hanno fatto altro che rinnovare nuovamente le molte ombre che coinvolgono le forze dell’ordine! Due parole poi sui bellissimi titoli di coda,un film che finalmente i titoli finali te li vedi tutti perchè sono ottimi è un altro spettacolo a sè,e non perchè devi aspettarti una scena alla fine dei crediti! Alla fine Tony Todd c’è lo hanno dato alla maniera dei brevi camei di Bruce Campbell! Film decisamente promosso,visto da solo in una sala completamente vuota con me al centro,che esperienza!!
Per Fabio, mi hai fatto ricordare di quando ho visto Vampires di Carpenter al cinema: sala completamente vuota con me al centro:-)
Caspita che bello! Mi spiace un sacco che di John Carpenter io non sono mai riuscito a vedere una suo film in sala!
Anche noi eravamo da sole in sala. Ci sono andata con due amiche e avevamo il cinema tutto per noi. Bella esperienza, però un po’ dispiace che il film qui da noi non stia avendo alcun successo.
In questo periodo difficilmente riuscirò a vedere qualcosa, a seguire come prima… però leggerò. Scrivo per dire che mi piace molto l’evoluzione del blog degli ultimi mesi: la trovo davvero molto costruttiva, al di là dei “gusti” e dei “vissuti” personali legati al cinema o dall’accordo o meno rispetto agli spunti e alle analisi. Anche i contributi dei lettori mi sembrano sempre più fichi! Il podcast è carinissimo… Mi ricordo quel post sofferto sul far parte o meno di un gruppo… Daje!
E io ti ringrazio, perché sto cercando davvero di cambiare questo posto e dargli una bella riverniciata. Dopo 10 anni o si cambia o si muore.
E domani invece appuntamento con “Malignant” il nuovo horror di James Wan! E vai!
Un paio di curiosità: sull’ “horror afroamericano” (citi ovviamente Romero) che importanza dai a “the people under the stairs”?
2- Mi dici che questo sequel non riscuote successo. Da quel che ho capito viene proprio malcagato, da noi. Sono abbastanza perplesso. Lo devo ancora vedere, ma credevo che solo il titolo avrebbe attirato la nostra generazione a FROTTE. Hai qualche ipotesi?
p,s,-Visto ieri l’episodio su Redrumia Twitch. Non hai affatto una brutta faccia e Giada REGNA, come avrei detto a sedici anni 😀
The People Under the Stairs è un altro dei fondamentali, e non ha nemmeno tutta la faccenda del white savior a “sporcarne” la memoria. Ma d’altronde parliamo di un uomo avanti anni luce, Craven.
Sul perché Candyman non abbia incassato da noi, mentre negli USA è al primo posto, e DaCosta è la prima donna afroamericana ad arrivare prima al box office, è un mistero, credimi. Non lo capisco. Di sicuro c’è di mezzo la pandemia, le sale sono ancora vuote. Io ci sono andata parecchie volte, però il pubblico era sempre scarsissimo.
Giada è la guest star migliore che potessimo avere 😀
Recensione stupenda come sempre. Mi hai fatto riflettere sugli aspetti dell’originale (ha la mia età!) che oggi potrebbero risultare problematici e che quando l’ho visto non avevo ritenuto troppo marcati. Trovo geniale il tuo discorso sul “punto di vista” espresso nei media e di come inevitabilmente mutano con il passare del tempo e l’evoluzione della nostra cultura. Giustamente dal white gaze (per quanto più o meno illuminato) dell’originale si è arrivati ad una riappropriazione legittima del personaggio da parte della comunità afroamericana. Spero di riuscire a vederlo al cinema!
Io ti ringrazio tantissimo per la generosità 🙂
Sono tematiche che la critica d’oltreoceano sta affrontando da parecchio tempo, ma qui da noi si stenta ancora a prenderle sul serio, si invoca la cancel culture (che non esiste), si frigna sulla dittatura del politicamente corretto.
E intanto il progresso ci ignora e fa a meno di noi
Francamente mi risulta difficile capire perché il nuovo Candyman abbia così poco seguito da noi, essendo per di più un sequel (appunto) che non rinnega l’originale proponendo un doveroso aggiornamento di prospettiva e punti di vista (niente più white savior, qui): per la cronaca, voglio sperare che non sia proprio questa la causa dello scarso finora riscosso dalle nostre parti…
Ma secondo me non sanno neanche che esiste, questo Candyman: si è perso quasi del tutto l’interesse per le uscite in sala 😦
[…] caso vi consiglio l’ottima recensione de Ilgiornodeglizombi per farvi un’idea precisa (QUI). Quindi cosa poterò oggi? Un’altra pellicola horror che stavo aspettando da molto tempo con […]
Cara Lucia, ti scrivo pur consapevole che non ami rispondere ai commenti in post non recenti; pazienza, non ho ancora scritto la rece del film, che ho visto ieri sera (notte, per la precisione, grazie al fatto che l’unico cinema che l’ha ancora in programmazione, un multisala peraltro, gli ha destinato unicamente lo spettacolo delle 22:45), ma approfitto per esternarti suggestioni che non vi troveranno spazio.
Trovo che l’aspetto del sequel che mi ha colpito più positivamente è stata la capacità – che tu rilevi perfettamente – di non rinnegare quanto narrato nel film del 1992 e di integrarlo, espanderlo con una visione prospettica che tenga maggiormente conto del fatto che il tizio di cui non si deve ripetere il nome 5 volte davanti allo specchio sia un coloured.
Al contrario di Peele e tanti altri, però, io non considero questo cambio prospettico così radicale rispetto al film di Rose, nè penso che renda giustizia maggiore al personaggio e alle sue connotazioni “social justice”.
La prospettiva di Barker, che è anche quella di Rose, è – per semplificare – quella di una donna bianca (liberal) attratta dal proibito (The Forbidden, non a caso) che si ritrova a vivere un calvario simile a quello dei neri del cabrini green: accusata ingiustamente, imprigionata, incompresa quando un suo atto d’amore – il salvataggio del bambino – viene scambiato per un atto disumano, e infine bruciata sul rogo. Rose, tracciando un parallelismo tra una donna attratta dal proibito e uno schiavo nero torturato e ucciso per avere “infettato una bianca”, compie un’operazione estremamente sofisticata e per moti versi poetica che, a mio parere, ha poco a che fare con le sindromi del “nero predatore” e del “white savior”. Helen e C@ndyman sono vittime che solo l’aldilà potrà trasformare in carnefici.
La prospettiva black del sequel a mio parere appiattisce la sofisticazione del film del 1992 riducendola ad un troppo grossolano “daje al bianco”: sia esso un critico d’arte, una studentessa un po’ bulla o un poliziotto fango, cadrà comunque sotto i colpi di uno spirito nero pronto a sfoderare il suo uncino.
Ma Candyman è un post recentissimo!
Io, sinceramente, trovo che sia un’ulteriore semplificazione quella di ridurre un film così a “daje al bianco”.
Il problema, secondo me, è la prospettiva da cui si narra una storia, che è tutto, nonché la nostra capacità di ascoltare le voci di chi ha più titoli di noi per raccontarla.
Se quasi tutti i critici o i semplici appassionati afroamericani amano il Candyman del ’92, ma lo trovano viziato da certi stereotipi e da una prospettiva da white savior, allora c’è del vero, perché è mio dovere dare retta a chi è direttamente coinvolto ed è stato danneggiato da questi stereotipi.
Nel racconto di Barker, che è brevissimo, la componente razziale non c’è proprio, è tutta una cosa che ha aggiunto Rose e, per il ’92, era molto audace e innovativa.
Però non è il racconto di un trauma generazionale come il nuovo Candyman.
Non so se mi sono capita da sola 😀
Ho visto Horror Noire e mi è piaciuto molto, comprendo che dalla prospettiva black il film di Rose possa essere viziato da stereotipi ma la cosa del white saviour proprio non la comprendo, secondo me è proprio un fraintendimento.
So di sembrare grossolano, ma nel nuovo film muoiono solo bianchi per mano di un’entità che rappresenta vari neri che, negli anni, nei dintorni di cabrini green, sono stati uccisi per motivi razziali. A me appare una semplificazione non mia, ma proprio del film, e per la mia sensibilità personale preferisco di gran lunga – al di là del fatto che il sequel non mi sia dispiaciuto – la sofisticazione del film di Rose (per quanto possa suscitare perplessità alla comunità black) rispetto all’eccesso di trasparenza del film di DaCosta.
La tematica delle “persone sono storie” e del fatto che la narrazione black sia quella meno ascoltata è interessante ma secondo me è molto meno preponderante e non evita la semplificazione cui facevo riferimento.
Lo dico senza intento polemico, sia chiaro, nel tentativo di rendere più chiaro il mio pensiero. Mentre, a costo di sembrare completamente rimbambito, ammetto di non comprendere a cosa tu ti riferisca quando parli di “racconto di un trauma generazionale” a proposito del film della DaCosta.
Un abbraccio
Per trauma generazionale intendo il fatto che Candyman, nel film di DaCosta, non si limiti a essere un mostro unico con una singola storia personale: è il riflesso delle sofferenze patite dalla comunità nera a un livello generazionale, appunto: il trauma è collettivo, ma cambia anche a seconda dell’epoca e della generazione che lo subisce, e questo Candyman li rappresenta tutti.
Per questo le vittime devono essere bianche.