
Regia – James Wong (2006)
Chiudiamo il mese di luglio con quello che, col tempo, è diventato il mio capitolo preferito di una saga capace di incarnare come poche altri prodotti cinematografici al mondo, il nichilismo fatalista della mia generazione (e in parte di quella successiva). Non potevo lasciar passare l’estate senza parlare di Final Destination: del primo film abbiamo celebrato l’anno scorso il ventennale con la giusta enfasi; il secondo, a mio parere, ha un’ottima sequenza d’apertura e poi si impantana malissimo tra personaggi insopportabili e dialoghi dozzinali; il quarto è invedibile e basta, mentre il quinto l’ho recensito dieci anni fa, ai tempi della sua uscita nelle sale, e magari sì, avrei potuto rivisitarlo per sottolinearne la grandezza, ma poi ho pensato che io rivisito l’intera saga almeno una volta l’anno.
Ho optato per il terzo film proprio perché li ho rivisti tutti, uno dietro l’altro, in questi giorni. Alla fine della maratona, il terzo è quello che ne è uscito invecchiato meglio e girato con più classe e consapevolezza rispetto agli altri, molto probabilmente perché segnava il ritorno del regista del capostipite, James Wong.
Perché guardiamo un Final Destination?
Sono vent’anni che cerco di rispondere a questa domanda; da appassionata di vecchia data e oramai ufficialmente anziana, devo fare una confessione di un certo peso: il concept di Final Destination basta, da solo, a gettarmi in uno stato d’ansia da cui poi esco con una certa difficoltà.
Abbiamo detto milioni di volte in questi 10 anni che il mestiere dell’horror consiste nel renderci consapevoli della nostra fragilità esistenziale e del nostro essere mortali; Final Destinaion affronta la questione fuor di metafora: l’assassino è la Morte stessa, non personificata, non incarnata in una qualche forma a noi comprensibile e quindi gestibile; la Morte è una forza da cui non si può fuggire. Non ci patteggi, non la sconfiggi, non esiste un luogo abbastanza sicuro per nasconderti.
I protagonisti dell’intera saga di Final Destination cercano di fregare la morte e, puntualmente, soccombono, perché cos’altro pretendi di fare?
Ciò che davvero impressiona è il meccanismo, per quanto sempre più barocco con l’avanzare dei sequel, assolutamente accidentale delle morti dei vari personaggi. Ci si rende conto di quanto ogni singolo oggetto d’uso comune presente nella nostra vita possa trasformarsi in un’arma dalle caratteristiche letali, quanto cose che facciamo senza pensarci tutti i giorni come salire in macchina, prendere la metro, andare in un parco dei divertimenti, potrebbero causare la nostra fine in un battito di ciglia. Come dicevo prima, quello di Final Destination è un concept paralizzante, e dobbiamo ringraziare gli autori della serie cinematografica perché non lo hanno mai preso del tutto sul serio, altrimenti staremmo qui a pagare dieci anni di terapia per ogni seguito.
Final Destination 3, tuttavia, è tra tutti i film della saga quello che prende la faccenda in maniera più grave e solenne. Molto è da attribuire all’interpretazione della divina Mary Elizabeth Winstead, che nel 2006 era appena agli inizi di una carriera mai troppo celebrata e sempre troppo sottovalutata. Il suo personaggio gode di una scrittura superiore a quella degli altri protagonisti dei vari film che compongono il franchise, ma a parte questo, ci crede tantissimo e non c’è il minimo ammiccamento nel suo modo di recitare. La sua Wendy è genuinamente terrorizzata, il senso di minaccia che le pesa sulle spalle è reale, è sentito, e fa paura. Da qualche parte ho letto, non ricordo dove, che Winstead si è caricata addosso il peso dell’intera saga e se lo è portato a spasso ben al di là del singolo film. Credo sia vero: se si esclude il cast del primo capitolo (ma neppure troppo) il suo è il volto più riconoscibile e meno dimenticabile di tutti e cinque i film.
Ma non è solo un fatto della scelta, perfetta, del personaggio principale: Final Destination 3 funziona perché non è un sequel diretto del film del 2000, ma è quasi un reboot che mischia le carte, cambia le regole in corsa e si inventa dei nuovi meccanismi per provare a fregare la morte o almeno anticiparne le mosse. L’idea delle foto che contengono un indizio sulla dipartita dei sopravvissuti all’incidente che dà il via al tutto è utile a una formula che, già al secondo film, appariva un un po’ fiacca e ripetitiva. Alza la posta in gioco e concede ai personaggi qualche possibilità in più.
Perché guardiamo un Final Destination?
Questa domanda è ancora un enigma irrisolto, eppure a un livello puramente superficiale, la risposta pronta c’è: per il disastro iniziale e per le successive morti bizzarre e violentissime.
Da questo punto di vita, Final Destination 3 è il migliore del mucchio, e stacca di un punticino il quinto film, che ha forse la sequenza d’apertura più elaborata e complessa, ma non ha nulla che possa soltanto avvicinarsi alla scena dei lettini abbronzanti.
Per chi non se lo ricordasse, il film comincia in un luna park e la premonizione di Wendy riguarda un malfunzionamento della montagna russa nota come Devil’s Flight (la voce del diavolo rosso gigante che presidia la giostra è di Tony Todd).
Wong, arrivato al terzo capitolo, non può più contare sull’effetto novità: noi sappiamo cosa sta per accadere e non è affatto una sorpresa che i binari cedano facendo precipitare nel vuoto i vagoncini con le persone urlanti sopra; e allora si punta tutto su un crescendo di tensione che, al momento della partenza della giostra, è già diventata insostenibile.
C’è un lavoro sul suono e sul montaggio, nei momenti che precedono l’incidente, di altissimo livello: il ritmo imposto alle immagini dilata il tempo all’infinito, mentre gli effetti sonori amplificano ogni scricchiolio fino al parossismo. Quando siamo arrivati alla fine della prima salita (che pare eterna) siamo in debito d’ossigeno, e quel che viene dopo, così accuratamente preparato, ha un impatto molto più forte rispetto, per esempio, al disastro nell’autodromo del quarto film.
Le varie morti sono poi tutte o quasi all’insegna della creatività più sfrenata: i già citati lettini abbronzanti, con quella dissolvenza incrociata sulle bare gemelle, giusto a metà tra il kitsch estremo e il cinema d’avanguardia, la sparachiodi, il motore che esce dal cofano, i pesi che ti schiacciano la testa, l’insegna alla fiera che ti taglia a metà. Se dovessi fare una classifica delle 10 morti più belle dell’intera saga, almeno 3 verrebbero da questo film: sono impressionanti, ma senza essere grottesche, esagerate ma non paradossali. Mantengono, in altre parole, quel minimo di credibilità tale da generare ancora inquietudine e non soltanto la risata sguaiata e crudele che, al contrario, è il fondamento di Final Destination 2 e di The Final Destination 3D.
Il che ci riporta alla solita domanda: perché guardiamo un Final Destination?
Provo a rigirarla: perché questa serie di film esiste? Perché ha senso che esista ed è giusto che esista?
Credo che la risposta stia proprio nel nostro rapporto con la morte, e credo anche che, a seconda di come la esorcizziamo, la ignoriamo o cerchiamo di stabilire con l’idea della nostra inevitabile fine una tregua, cambi anche il nostro modo di avvicinarci ai singoli film della saga.
Dimmi che Final Destination preferisci e ti dirò chi sei, insomma.
Final Destination 3 è il forse il più equilibrato nello sposare le esigenze dello spettatore che, ribadiamolo casomai non fosse abbastanza chiaro, va a vedere questi film consapevole di ciò che lo aspetta. Ci va proprio perché lo sa, ricerca quella paura, quel senso di precarietà, quel terrore quasi animale che si prova quando veniamo forzati a realizzare ciò che rifiutiamo di prendere in considerazione per una larghissima percentuale della nostra vita cosciente.
È una cosa che facciamo ogni volta che ci sediamo di fronte a un horror, ma con Final Destination il gioco è a carte scoperte e il mostro non si sconfigge, perché il mostro coincide con il destino comune di tutti gli organismi viventi.
Vi fa ancora tanto ridere?
Di James Wong,il film che mi ha maggiormente colpito, tecnicamente non è diretto da lui ma ne era il produttore esecutivo insieme al regista Glen Morgan,il bellissimo “Willard” del 2003,quel curioso racconto già adattato nel 1971,tra l’altro mi pare che sia l’unico film in qui ricordo di aver visto Crispin Glover in un ruolo da protagonista,in generale vantava un ottimo cast! Davvero un peccato che fù un enorme flop al botteghino!
Adesso mi hai un po’ scombinato i ricordi. Ho sempre preferito il 2 a tutti gli altri. Vivendo la serie come una giostra splatter puoi divertirti con la fantasia delle morti che vengono messe in scena, ma a me personalmente Final Destination non ha mai fatto ridere. Nemmeno mi ha fatto troppo riflettere sulla morte o su altro (perché per la mia sensibilità lo facevano altri film) ma non mi è mai sembrata una serie superficiale o da denigrare, anzi: interessante e molto efficace in sala. La disanima ci sta tutta, come al solito mi apre dei mondi, mi mette in discussione e… Mary Elizabeth Winstead forever!
Io il 2 l’ho sempre trovato di un cinismo al di là delle mie possibilità di sopportazione. Il regista (poveraccio, è anche morto) non mi è mai piaciuto, qualunque cosa abbia fatto (Shark Night 3d, mamma mia), e quindi faccio proprio fatica.
Concordo con l’award per il best della saga. Per quel che riguarda il discorso “esistenziale” che menzioni e che è l’impianto filosofico della saga… Bhe. Sono umano e mortale , ovvio che la mia fine mi scocci. Pero sarà che la mia tesi la scrissi (oddio, IL TEMPO CHE PASSA!… piuttosto inerente :D) su Epicuro, sarà che il mio lavoro è in case di riposo ed RSA… Alla fine la morte l’accetti. E’ un paradosso. Non la puoi accettare, in realtà. Accetti di non poter farci niente.
Accettato questo, svuoti dall’angoscia final destination. Rimane il divertimento.
Quello che mi tocca corde più profonde è il DISFACIMENTO, e sì che lo vedo tutti i giorni. (E quanto horror di GRANDISSIMA FATTURA, di recente su questo! I titoli sarei offensivo a citarteli).
E’ la magia (nera) dell’horror. Va a toccare le nostre corde profonde che sono diverse l’uno dall’ altro…
Il decadimento sì, è una cosa che terrorizza. Però Final Destination non è tanto sulla morte in sé, come concetto astratto che prima o poi tocca a tutti; è sull’assoluta casualità della morte, quello è un concetto che rischia di paralizzarti, almeno secondo me.
Si, anche secondo me. In effetti, è proprio quello che impedisce a questa saga di avere davvero una funzione esorcizzante nei confronti del tema trattato. Semmai, con la creatività delle morti messe in scena non fa altro che rimarcare il concetto, e quest’ultimo personalmente fa sempre passare in secondo piano la pur minima possibilità di suscitarmi una risata liberatoria (che sia “innocente” oppure crudelmente cinica, comprendendo quindi secondo e quarto capitolo). Paura, tensione, terrore, inquietudine, senso di impotenza (vediamo bene a quali risultati porta tentare di prevenire le mosse della Grande Mietitrice): oltre all’assai inventiva componente splatter, sono questi gli elementi che meglio caratterizzano il franchise e che in Final Destination 3 si trovano ad essere particolarmente equilibrati, con Mary Elizabeth Winstead praticamente agli esordi ma già capace di bucare lo schermo… credibilissima nel suo essere spaventata a Morte (il maiuscolo è quanto mai in tema).