
Regia – John Berlinger (2000)
TBWP non è soltanto un film, è un fenomeno culturale, rappresenta uno di quegli eventi destinati a cambiare per sempre la storia di un media, è l’horror più importante, come impatto sul pubblico di massa, dai tempi de L’Esorcista. Non vi devo spiegare perché: se siete abbastanza grandicelli vi ricordate cos’è accaduto ai tempi, se invece siete troppo giovani ma appassionati di horror (altrimenti non vi trovereste qui, credo), lo avete sicuramente letto da qualche parte online. Dico solo che si è trattato del primissimo film a usare la rete come veicolo pubblicitario in maniera non solo efficiente, ma sbalorditiva, riuscendo a entrare nella testa della gente, a seminare il dubbio se quanto mostrato sullo schermo fosse, in effetti, vero e non frutto di una messa in scena particolarmente accurata e verosimile.
Myrick e Sanchez avevano realizzato il film sotto l’egida della loro casa di produzione, la Haxan Films (sì, il nome scelto non è casuale). Dopo il successo inaspettato, invece di dedicarsi subito a un sequel, vanno entrambi a lavorare a progetti diversi, con alterne fortune. I finanziatori veri di TBWP, nonché detentori dei diritti per un eventuale secondo film, i produttori della Artisan, non intendono aspettare: vogliono un seguito subito, ora. Dopotutto, di fronte a un film costato circa 200.000 che ne incassa 245 milioni, il minimo che può accaderti è di diventare un tantino avido.
TBWP debutta al Sundance nel gennaio del ’99, esce in edizione limitata a luglio dello stesso anno e si fa strada nelle sale, conquistandosele a botte di un passa parola sempre più entusiasta, nel corso di tutta la “spooky season” di fine millennio. Non ha ancora completato il suo percorso distributivo internazionale (in Italia, per esempio, arriva soltanto all’inizio del 2000) che il seguito è già pronto per essere girato: riprese in primavera e sbarco nei cinema previsto per ottobre. Non è semplicemente un film pensato e realizzato di fretta, è una corsa senza freni dritti verso il disastro.
Io a volte mi chiedo se i produttori leggano davvero le sceneggiature che approvano, se guardino i giornalieri che il montaggio fornisce loro ogni santo giorno, se quando vanno sul set prestino davvero attenzione a quello che stanno facendo regista e attori. Sempre più spesso, anche nella mia vita professionale, mi rispondo di no. Non fanno nessuna di queste cose. Altrimenti non si spiegherebbe il percorso di post-produzione di un film come Blair Witch 2.
L’unica idea decente la Artisan la ha quando deve selezionare il regista per questo ingrato compito: Berlinger è al suo esordio in un lungometraggio di finzione, ma ha diretto parecchi documentari, alcuni di essi (Paradise Lost, per esempio) con uno stile che anticipa di parecchi anni il true crime contemporaneo. Non ha alcuna intenzione di fare un seguito fotocopia (che è invece un po’ quello che è successo qualche annetto dopo); ha in mente un meta-sequel che rifletta sull’impatto di TBWP sulla cultura popolare e che quindi abbia come principale elemento narrativo e oggetto di discussione il film di Sanchez. Al posto di una nuova storia con dei ragazzi che si perdono nel bosco e incontrano la strega, al posto di un altro found footage, Berlinger ci offre un film girato in maniera parzialmente tradizionale, in cui un gruppo ben definito di personaggi si muove sulle tracce di TBWP il film, alla ricerca della linea sottile che separa verità e leggenda.
Alcuni dei protagonisti credono che sia tutto vero, altri sono lì soltanto perché “I thought the film was cool“, altri ancora stanno scrivendo un saggio sulla strega di Blair. E poi c’è chi vuole ripristinare il buon nome della stregoneria dopo che il film l’ha caratterizzata in maniera pesantemente negativa.
“Il video non mente mai. I film sì“, dice Jeff (Jeffrey Donovan) a Erica (Erica Leerhsen) mentre brandisce una telecamera per riprendere il tour, ed è in questa battuta che dobbiamo cercare il senso del bizzarro sequel che ci troviamo tra le mani: il bersaglio di Berlinger è la facilità con cui ci si trasforma da fan a fanatici, nonché la predisposizione di una grossa fetta di pubblico a credere ciecamente in qualcosa, soltanto perché è stato ripreso in video.
Le riprese del film sono rapide e quasi indolore: Berlinger rispetta l’assurda tabella di marcia e presenta il film finito in tempo per la sua distribuzione, ma ai produttori non piace per niente. E qui torna la mia domanda: ma la sceneggiatura l’avevate letta? Ma col regista ci avete parlato anche soltanto un paio di volte?
Blair Witch 2, nelle intenzioni di Berlinger, doveva essere un thriller psicologico in cui il vero cattivo non fosse rappresentato dalla figura della strega di Blair, ma dal film TBWP. È, sulla carta, un’operazione ancora più sofisticata ed elitaria di Nuovo Incubo di Craven. Ovvio che non possa piacere a dei produttori che vogliono soltanto capitalizzare il prima possibile su un imprevedibile macchina sfracella incassi. Solo, ecco, potevano pensarci prima.
Com’è tristemente prevedibile, la Artisan chiede di girare del materiale aggiuntivo con un po’ di gore che nel cut originale era quasi del tutto assente. In compenso però, Berlinger deve lottare per tenere l’inquadratura in cui si vede il pantalone di Tristan macchiato di sangue dopo che lei ha abortito, perché altrimenti poi il pubblico si impressiona troppo. Quello no, la gente squartata nel bosco sì.
Oltre a inserire le nuove sequenze, e con esse una sotto-trama con un omicidio rituale assente nella versione di Berlinger, la produzione cambia anche il montaggio: la narrazione scelta da Berlinger era lineare, e il motivo era che non si doveva capire fino all’ultimo secondo quale sarebbe stata la sorte dei protagonisti; la produzione invece pretende una struttura fatta di flashback e flashforward in cui ogni mistero presente nella trama viene svelato all’incirca al minuto 2. Come se non bastasse, cambia il titolo al film, aggiungendo quel Book of Shadows del tutto inspiegabile: non appare mai alcun libro in tutti 90 minuti di durata del sequel. Ciliegina sulla torta, conoscendo i gusti dei giovani e sapendo che a loro ci piace la musica rock, quelli della Artisan modificano il commento musicale sui titoli di testa, eliminando la scelta di Berlinger (Witchcraft di Sinatra) e sostituendola con Marylin Manson.
Blair Witch 2 esce il 27 ottobre del 2000 negli Stati Uniti e viene ignorato dal pubblico, insultato dai fan del suo predecessore e scorticato vivo dalla critica.
Alla Artisan fanno cinque brainstorming per interrogarsi su questo risultato inesplicabile.
Ma poi, questo Blair Witch 2 è così brutto come lo si dipinge? No, anzi: per citare una cosa che ha detto Mike Flanagan a proposito di tutt’altro film, ma valida per quasi tutte le opere dalla storia produttiva complicata, è soltanto un film pieno di cicatrici, e sono tutte esposte e visibili al pubblico.
A suo modo, forse anche inconsapevolmente, ha avuto una inaspettata influenza sull’horror contemporaneo, soprattutto sul modo in cui il pubblico percepisce i film oggi e sul fandom del XXI secolo.
Ma la produzione voleva soltanto un horror soprannaturale, tra l’altro con delle idee molto specifiche sullo stile da usare, e se guardate gli inserti imposti dalla Artisan, vi accorgerete facilmente di che stile si tratta: sono corpi estranei, cicatrici sulla pelle del film, appunto.
Quella che doveva essere un’ambiziosa e complessa riflessione metacinematografica su come il concetto stesso di falso documentario (diretta poi da un documentarista punto nel vivo) può condizionare le menti più impressionabili, su come siamo portati dai media a prendere per vera qualunque cosa appaia in video, si trasforma così in un teen movie dalla struttura scricchiolante e dalla resa discutibile.
Un vero peccato. E pensare che tutto ciò si sarebbe potuto evitare se quelli della Artisan avessero letto la sceneggiatura che loro stessi avevano commissionato.
Erano anni strani i primi 00ies, Williamson e Dawson’s Creek avevano infettato l’immaginario orrorifico più di Craven; io ricordo solo di avere visto ai tempi BW2 e di non averlo neanche disprezzato. Invece grandissima delusione è stata rivederlo qualche anno fa, l’ho trovato un filmaccio senza capo nè coda, per via di una certa inettitudine con la quale si approcciano le scene orrorifiche e dell’incapacità di creare un’autentica tensione (per tutta la seconda parte del film, i protagonisti stanno chiusi dentro una casa a fissare le immagini di un pc).
E dire che l’idea di base è brillante e sarebbe stata sviluppata, molti anni dopo, nel – secondo me notevolissimo – remake di The town that dreaded sundown.
Non conoscevo le vicissitudini produttive, grazie Lucia.
Questo è un film che è stato giustiziato dalla produzione. Non il primo e non sarà l’ultimo, però dispiace particolarmente quando si tratta di film con delle idee che poi sono destinate ad avere una certa influenza nella cultura popolare al di là da venire.
Mi è capitato lo stesso, Blissard: quando lo vidi la prima volta mi sembrò ottimo. Mi piacque anche di più del primo (nulla da dire sull’importanza, intelligenza e genialità dell’operazione, sono vissuti miei). Quando lo rividi anni dopo mi intrigò molto meno. Però mi piacque.
Non sapevo tutta la storia produttiva: che peccato. Anche i film, come le persone, quando soffrono mostrano le loro cicatrici.
I travagli produttivi spiegano alla perfezione il risultato, pieno di incoerenze e cicatrici (sì, il termine rende alla perfezione l’idea) che purtroppo, almeno per quanto mi riguarda, il segno l’hanno lasciato: io lo vidi prima di TBWP e mi sembrò appunto quel teen movie dalla struttura scricchiolante e dalla resa discutibile che hai scritto ma, non avendo ancora un termine di paragone, la cosa mi lasciò abbastanza indifferente… poi però, rivedendolo dopo aver recuperato il predecessore, lo trovai davvero pessimo e a maggior ragione adesso, avendo saputo quanto si fosse dovuto discostare dal progetto iniziale (quei coglioni di produttori) 😦
Certo che vedere prima questo e poi TBWP deve essere stato una sorta di trauma primario. Chissà cosa ti aspettavi! :O