Mettiamo subito le mani avanti, così poi si spera di non dover ribadire nuovamente il concetto: Peninsula è un film inferiore a Train to Busan, ma non è quella tragedia di cui molti stanno parlando, anzi, è un ottimo zombie movie, anche se forse un po’ troppo generico, su cui pesa il confronto col colossale predecessore. Se Train to Busan non fosse mai esistito, e Peninsula fosse semplicemente un film svincolato da quell’eredità, credo che ora ci staremmo tutti strappando i capelli e gridando al miracolo. Purtroppo, tuttavia, Train to Busan esiste e non lo si può ignorare, nonostante Peninsula racconti un’altra storia e altri personaggi.
La differenza principale, che pare soltanto un problema di facciata, e invece è di sostanza, è che Train to Busan partiva come un film relativamente piccolo, diventato un blockbuster per tutta una serie di circostanze fortuite; Peninsula è costruito, in partenza, per essere un blockbuster e ne possiede tutte le caratteristiche, finalone strappalacrime dilatato all’inverosimile compreso, destinato a far storcere il naso a quelli dalle facili accuse di buonismo.
La vicenda di Peninsula ha inizio contemporaneamente a quella di Train to Busan, forse appena spostata in avanti nel tempo, quando le autorità coreane hanno già abbandonato qualunque velleità di tenere sotto controllo la situazione e alcuni fortunati hanno l’opportunità di salire su delle navi con destinazione Giappone o Hong Kong, ma comandate dall’esercito statunitense, dove otterranno lo status di rifugiati. Il nostro protagonista è un militare con famiglia al seguito che, durante il tragitto per arrivare al porto, lascia indietro una donna con la sua bambina che lo aveva supplicato di aiutarla.
Purtroppo per lui, l’epidemia si diffonde anche sulla nave in cui è imbarcato: ad arrivare sani e salvi a Hong Kong sono soltanto lui e suo cognato.
Quattro anni dopo, la penisola del titolo è un territorio disabitato, ove pare si aggirino soltanto orde di non morti. Ritroviamo il soldato dell’inizio del film a Hong Kong, ma non come rifugiato, bensì come clandestino, discriminato da tutti perché parte di quel paese di appestati che un tempo era la Corea. Per arrabattarsi, insieme al cognato, lavora per un boss della malavita locale, e riceve un incarico che potrebbe cambiargli la vita per sempre: recuperare da Incheon un camion con un carico di circa 20 milioni di dollari. Messa insieme una squadra di disperati come lui, si parte per quella che un tempo era la casa di tutti i componenti del team improvvisato; in dotazione, armi e un telefono satellitare. Se torneranno vivi e coi soldi, riceveranno due milioni a testa.
La sorpresa, che poi tanto sorpresa non è, è che la Corea non è affatto disabitata, ma c’è un discreto numero di sopravvissuti: alcuni di essi hanno intenzioni amichevoli, altri, la maggioranza, poco raccomandabili.
Ho sprecato un intero paragrafo per descrivere soltanto l’antefatto di Peninsula, che si svolge al 90% della sua durata a Incheon, nel corso di un paio di nottate infernali. Questo per farvi capire quanto sia più articolata la struttura di questo spin-off (sequel mi pare inopportuno) rispetto alla magnifica semplicità del film precedente.
Più articolata e più derivativa: Il Giorno degli Zombi, Doomsday, 1997: Fuga da New York e un pizzico di Fury Road, giusto per citare i titoli cui Peninsula si ispira in maniera più evidente.
Si moltiplicano i personaggi, si moltiplicano le ambientazioni, aumentano le scene d’azione, e se tutto funziona perché diretto, messo in scena e realizzato con grande classe, si dà per forza meno spazio alle singole storie e all’introspezione. C’è così un gran numero di personaggi che svolgono la funzione di mera carne da cannone e ciò che si acquista in varietà lo si perde in profondità.
Ma è sempre questo il prezzo da pagare quando si sale di livello: Peninsula ha tenuto a galla il box office coreano in un momento difficilissimo com’è quello che stiamo tutti vivendo, ed è un’operazione che, se non approvo in toto, almeno comprendo. Spiace soltanto un po’ perché, con i mezzi a disposizione, la bravura dimostrata di Yeon nel saperci dire tutto di un personaggio senza infarcire la narrazione di dialoghi e spiegoni, e la forza emotiva di Train to Busan, che stava tutta nel colpirti al cuore senza essere mai ricattatorio, era lecito aspettarsi qualcosa di più da tutti questi punti di vista. E invece il regista li ha messi da parte, in favore del ricorso all’azione continua, alla velocità che mai si arresta, a un ritmo che non dà al film lo spazio per respirare.
Tranne che nell’ultima sequenza, dove bisogna dare atto a Yeon di essere riuscito a creare dal nulla delle emozioni vere, pur su personaggi su cui non abbiamo avuto il tempo materiale di investire. Ma non posso fare a meno di chiedermi cosa sarebbe accaduto se, al contrario, un finale così intenso fosse stato messo in coda a un film di pari intensità, e un briciolo di rimpianto c’è.
Occupiamoci però dei lati positivi: in Peninsula c’è tanta di quell’azione che vi basterà per almeno dieci anni. Arene dove poveri disgraziati vengono gettati in pasto agli zombie, militari usciti di senno, ragazzine che guidano l’auto come fossero piloti di Formula 1, inseguimenti dalla lunghezza estenuante, piramidi umane di non morti a caccia dei nostri protagonisti, scontri all’arma bianca, corpo a corpo e con armi da fuoco. Peninsula è un film ricchissimo, così ricco da rincoglionire, se mi passate il termine. Se ne esce stanchi, un po’ saturi da tutte queste immagini che ti passano davanti alla velocità della luce e senza un attimo di tregua. Se Train to Busan sfibrava per la tensione che era in grado di trasmettere la macchina da presa mentre si muoveva in spazi ristretti, Peninsula è un bombardamento visivo e sonoro, un enorme giocattolo dove il regista si è sbizzarrito a mettere dentro tutto.
Credo sia anche strutturato appositamente per piacere al pubblico occidentale, a partire dalla non piccola porzione di film girata in inglese, fino ad arrivare alle citazioni dal cinema d’azione statunitense di cui il film è costellato. L’estetica del film, le scelte compiute da Yeon in materia stilistica e narrativa, fanno pensare a un prodotto nato per sfondare in maniera definitiva sul mercato internazionale. E chissà cosa sarebbe successo se non fosse arrivata una pandemia a mettere i bastoni tra le ruote al progetto.
Chissà, soprattutto, se la serie di film iniziata con Seoul Station andrà avanti ancora o se Yeon si è stufato e ha deciso di piantarla qui.
Per quanto mi riguarda, di zombie movie coreani con questa ambientazione, personaggi sempre diversi e storie sempre nuove, ne vedrei a decine senza stancarmi mai.
Magari però, se ci sarà una prossima volta, cerchiamo di conciliare un po’ meglio le esigenze del blockbuster con quelle di un cinema più attento alle sfumature.
Ci conto.
Questo si aggiunge ai millemila horror che devo recuperare quest’anno, ma parlando di zombie coreani hai mai visto The Odd Family: Zombie on Sale (o forse si trova come Zombie for Sale)?
E’ divertentissimo e a tratti persino tenero, sono sicura che ti piacerebbe un sacco!!
Visto anch’io e concordo perfettamente con la tua recensione.
Ero un po’ titubante perchè se ne parlava male a destra e a manca, ma onestamente non ho capito a fine visione i motivi di questo astio, soprattutto quando proveniva da gente che si sdilinquiva per la saga di Resident Evil e per TWD.
Guarda, io ho persino letto qualcuno paragonare questo film a TWD, che a me pare quasi sacrilego, per non dire apertamente blasfemo 😀
Hai descritto fuga da New York con gli zombies, lo sai? E a me VA BENISSIMO. Se non c’è l’introspezione, la profondità, etc. mi VA DI NUOVO BENISSIMO. Mi sa che Yeon è troppo giovane (cinematograficamente) per subire il fandom di “lo doveva fare così”.
Che dio salvi l’intrattenimento zombesco ben fatto.
Ma infatti va tutto benissimo!
Io ho soltanto qualche piccola perplessità sul fatto che mi sembra tutto molto costruito con l’intento di piacere a tutti, un po’ quello che fa la Disney, ma in versione horror, non so se mi spiego.
Ti sei spiegata bene, ed è molto probabile che a questo secondo giro sia andata proprio così. Certo, sarebbe un peccato se Yeon d’ora in poi privilegiasse l’approccio blockbuster su tutto il resto per poter continuare a far breccia presso il pubblico internazionale… personalmente non credo succederà, anche se mi piacerebbe essere ufficialmente smentito da un prossimo sequel (sempre sperando che la serie continui, ovvio).
Più che altro Yeon si è dimostrato capace di spaziare tra i generi: è partito con l’animazione, poi è passato a Train to Busan, e ora questo giocattolone. È molto versatile e, secondo me, può fare ottime cose!
Ti dirò, torno d una settimana di film coreani e i loro blockbuster mi piacciono assai, Cinema spettacolare, avvincente, di grana grossa che taaac, all’improvviso ti sistema la scena toccante, il momento commovente e malinconico. Questo lo vedrò appena arriva- se arriva- o al cinema o su netflix, prime..magari Disney plus. ^_^