Regia – Sonny Laguna, Tommy Wiklund (2018)
Puppet Master è una saga artisticamente defunta al terzo capitolo (e già usare la parola artisticamente è una discreta iperbole), che però è stata così svergognata da tirarne fuori altri nove, di capitoli. E tutto questo senza contare i cross-over con Demonic Toys. Non posso dire di essere una completista, perché credo di essermi arresa col sesto o col quinto film. Eppure, in maniera alquanto inspiegabile, i pupazzi nazisti ideati dal sempre santo Charles Band alla fine degli anni ’80, sono entrati nella nutrita galleria di icone horror e, arrivati a questo punto, è logico che se lo siano meritati, se non altro per la longevità e la resistenza.
L’ultimo film della timeline ufficiale (che però è comunque incoerente e parecchio incasinata) della saga risale all’anno scorso e, nel frattempo, Fangoria ha pensato di resuscitare il tutto con un reboot, impiegando anche nomi di un certo peso, ovvero il duo che nel 2012 ci aveva regalato Vittra alla regia, e nientemeno che Zahler alla sceneggiatura, che avrà sicuramente scritto il film nei ritagli di tempo e mentre era sbronzo, ma è comunque garanzia di non dover assistere a un qualcosa di totalmente idiota. O almeno a idiozia controllata.
Conoscendo poi i gusti di registi e sceneggiatore, l’unica certezza era che lo splatter avrebbe fatto la parte del leone, ed è in effetti la cosa migliore del film. Ma cerchiamo di procedere con ordine.
The Littlest Reich azzera tutta l’involuta cronologia dei film precedenti e recupera solo il personaggio di Andre Toulon, qui interpretato da Udo Kier; se nel corso della saga Toulon era stato a corrente alternata vittima e carnefice, qui è senza dubbi e discussioni un perfido nazista assassino con l’ossessione per i burattini, mezzo francese e mezzo tedesco, emigrato in Germania per collaborare coi nazisti e usare le sue marionette per stanare ebrei nascosti e spiare i piani del nemico.
Dopo la guerra, Toulon si nasconde negli Stati Uniti, dove uccide indisturbato fino al 1989 quando non viene beccato e crivellato di colpi dall’agente Doreski (la divina delle divine, Barbara Crampton).
Trent’anni dopo la morte di Toulon, in un hotel da qualche parte in Oregon, si tiene una convention con relativa asta in cui vengono messi in vendita i suoi pupazzi. L’idea di mettere tutte insieme nello stesso luogo decine di marionette di Toulon non si rivela particolarmente ispirata, e infatti comincia una mattanza che, se non altro per quantità di emoglobina e creatività di alcuni omicidi, non può sfuggire a nessun appassionato degno di chiamarsi tale.
E tuttavia, l’appassionato di turno deve avere la consapevolezza precisa che nel film non ci sarà altro e che, se si esclude qualche interessante intuizione di Zahler a livello di scrittura (su cui torneremo) il film è di una povertà senza confini o scuse, diretto con quella parte del corpo su cui di solito ci si siede e montato, temo, a capocciate sulla tastiera. Per non parlare della recitazione, una vera agonia, se si escludono Crampton e Kier, la prima purtroppo impegnata in ruolo inutile, e il secondo sullo schermo per circa cinque minuti.
Ma parliamo del gore, che lo so, siete qui per questo: The Littlest Reich è il capitolo più violento della saga, quello con gli omicidi più estremi e che gode nell’investire lo spettatore con ondate e ondate di cattivo gusto. Non si ferma davanti a niente, The Littlest Reich, bambini e donne incinte compresi. Non ci sono freni a quello che i pupazzi nazisti sono in grado di fare e, quando esplode il gore, l’umorismo deviato di Zahler prende piede e Laguna e Wiklund si ricordano di essere su un set, allora il film è divertente e sembra quasi un prodotto professionale.
Il resto del tempo, l’impressione è quella di assistere a una rimpatriata tra amici che sghignazzano, fanno battute pessime e ti ruttano anche in faccia, tanto siamo in famiglia e nessuno si formalizza.
Il problema è che si tratta di un film costruito (si fa per dire) a uso e consumo di un pubblico privo di qualsiasi pretesa. E, direte voi, grazie al cazzo, Lucia: è la storia di marionette naziste che affettano la gente, cosa ti aspettavi? Un minimo di professionalità, e non solo nel reparto trucco ed effetti speciali che lì procede tutto alla grande, sarebbe stata ben accetta. I soldi sono pochi (e si vede, in ogni singola inquadratura che non comprenda sbudellamenti, il budget basso è evidente in maniera drammatica) e, di solito, questo giustifica molte mancanze, soprattutto a livello fotografico; ma un raccordo che sia uno, un passaggio da un ambiente all’altro che non faccia saltare sulla sedia (non in senso buono), lo si poteva anche azzeccare. I due registi, che avevano dimostrato, in passato, di sapersi muovere anche senza per forza navigare nell’oro, avrebbero potuto curare quel tanto la messa in scena da non dare la fastidiosa sensazione di assistere a un filmato amatoriale girato dal cugino di qualche redattore di Fangoria.
Però parliamo sempre di Puppet Master, e gli si vuol bene lo stesso, un po’ perché un ammontare simile di eviscerazioni, decapitazioni, morti atroci di massa assortite è difficile da trovare al giorno d’oggi, signora mia, che siamo diventati tutti raffinati con il post-horror o quel che è, ma ogni tanto tornare alla bassa macelleria impenitente non fa male ed è tanto rigenerante; un po’ perché c’è comunque uno scrittore dotato di una certa intelligenza, anche se a mezzo servizio, dietro la sceneggiatura del film, ed è di qualche interesse anche andarsi a cercare le tematiche che Zahler ha provato a inserire in un film, per sua stessa natura povero di ambizioni.
Era da Curse of the Puppet Master, sesto film della saga uscito nel 1998, che i pupazzi non erano gli antagonisti. La loro trasformazione in “buoni” era stata avviata addirittura a partire dal secondo capitolo, con la loro ribellione nei confronti del creatore Toulon. In seguito, Blade e compagni sarebbero stati quasi sempre alleati dei protagonisti contro i nazi, anche perché, nel canone originale della serie, non sono altro che anime di vittime del nazismo intrappolate nelle marionette.
Nel reboot di Zahler non è più così: i pupazzi sono nazisti al servizio del Reich e per loro la guerra non è mai finita. Prendono di mira zingari, ebrei, omosessuali, neri, asiatici e messicani. In pratica, nel corso del film, assisterete a un accanimento, di rado così spietato, nei confronti di qualunque minoranza vi venga in mente. E sono quasi sempre, almeno per quel poco che compaiono sullo schermo, dipinti da Zahler senza quell’aura di sgradevolezza che di solito spetta alle vittime di un film splatter di questo tipo. Niente personaggi insopportabili che siamo felici di veder morire nei modi peggiori, ma solo gente colpevole di essere nata col colore di pelle “sbagliato” o di avere un orientamento sessuale non ortodosso.
Con questo non voglio dire che The Littles Reich sia un film politico, perché sarei passibile di incarcerazione immediata, ma è evidente la volontà di fare satira, sebbene di grana grossa, sul clima che si respira un po’ ovunque in questo periodo.
Non a caso, la battuta finale del film è: “Sono accadute cose orribili a gente che non lo meritava”.
Anche per questo, alla fine un po’ di bene lo si vuole a The Littlest Reich, perché conferma l’idea secondo cui anche l’horror più cretino riesce a cogliere il momento meglio anche di tanto cinema più sofisticato.
Chi di voi non ha pensato, negli ultimi mesi, di essere circondato da marionette assetate di sangue?
Fino a tre mesi fa non conoscevo nemmeno il brand, ma mi ci sono già affezionato. Ne ho visti sei dei primi sette, e con godimento variabile, il tempo mi è sempre volato. Perciò, se tolte la recitazione pedestre e una vaga sceneggiatura, i pupazzi sono cattivi più che mai, per me è sufficiente. Spero di riuscire a vederlo presto. Recensione molto, molto bella.
Grazie 🙂
I pupazzi sono cattivissimi, i più cattivi di tutta la saga, fanno cose davvero riprovevoli e alla fine li si odia parecchio. Si sghignazza anche, soprattutto quando c’è di mezzo Udo Kier, quindi va benissimo!
E quindi gli si perdona pure il montaggio a colpi di testa e la regia a colpi di culo 😉 oltre al fatto che un tentativo di satira mirata (grezza quanto si vuole, ma mirata) non è certo da buttar via, coi tempi che corrono…
Io ho visto solo i primi tre anche perché sapevo che fine avesse fatto il brand dopo il terzo capitolo. E la cosa mi ha ricordato ciò che è successo a Hellraiser.
Però questo sembra effettivamente molto interessane e sicuramente lo recupererò.
Vabè, una carneficina senza precedenti. Divertente però, e neanche così malrecitato a dire il vero. Poi non avevi anticipato la presenza di Michael Parè, e certe apparizioni fanno sempre scendere la lacrimuccia.
Eh sì, c’è anche lui! Non fa molto, ma è comunque una bella presenza, Solo che Crampton e Kier erano già annunciati dal trailer. Lui no, o almeno non mi pare di ricordare che si vedesse.