Regia – Russel Mulcahy (1984)
Per la penultima puntata del Ciclo Zia Tibia 2018, ce ne andiamo in Australia, visto che nel corso dell’estate l’abbiamo percorsa in lungo e in largo, dal mare alle paludi di mangrovie, discettando di squali e coccodrilli. Mancavano solo i cinghiali selvatici dell’outback e chi sono io per negarvi i cinghiali selvatici dell’outback?
In realtà, l’esordio di Mulcahy mi è venuto in mente perché ho visto un altro film, Boar, che sempre di cinghiali parla, anzi, proprio come in Razorback, di un cinghiale gigante che impazza nell’outback. Non si tratta di un remake, ma è comunque costellato di omaggi e citazioni e, sempre che una delle vostre fantasie più sordide non sia quella di vedere John Jarratt nel ruolo di un bifolco bonaccione, non c’è alcun motivo per buttare via un’ora e mezza della vostra vita dietro al film.
Ma anche le disgrazie hanno i loro risvolti positivi, e così, dopo essermi sottoposta al supplizio di Boar, ho pensato di andare a recuperare questo classico della ozploitation dimenticato. Dimenticato anche da me, che non ne ricordavo un solo fotogramma.
C’è un vecchio cacciatore che si vede sbranare il nipote da un cinghiale gigante e nessuno gli crede, anzi, lo mettono addirittura sotto processo, accusandolo dell’omicidio del bambino. Sarà assolto per insufficienza di prove, ma la sua reputazione e la sua vita ne usciranno a pezzi.
C’è una giovane attivista per i diritti degli animali che, da New York, arriva nell’outback australiano allo scopo di documentare la crudeltà della caccia al canguro e fa una brutta fine.
E poi c’è suo marito, che dopo la scomparsa della moglie, si reca sul luogo per indagare, incontrando non solo l’ostilità degli indigeni, ma anche qualcosa di più pericoloso.
Questi sono, tenendosi sul vago e sena svelare troppo, gli elementi portanti della storia del film, che quindi non si riduce a una sotto-specie di slasher con il cinghiale al posto dell’assassino mascherato, come invece accade con molti prodotti analoghi. Qui siamo più, in parte, nel solco tracciato da Spielberg in Jaws, in parte all’interno del filone dell’eco-vengeance anni ’70 e, per finire nel classico, e tutto australiano, scontro tra una natura soverchiante e del tutto indifferente, e un’umanità piccola piccola, nonché crudele.
Ora, la cosa davvero degna di interesse di Razorback è come tutte queste variegate influenze culturali facenti capo al decennio precedente vengano prese da Mulchay e frullate attraverso l’estetica del videoclip anni ’80, di cui il regista era, all’epoca, un maestro. Secondo lo stesso Mulchay, i produttori del film lo ingaggiarono dopo aver visto il video dei Duran Duran da lui diretto, Hungry like the wolf. E l’impressione di assistere a un lungo video musicale è forte, in alcuni frangenti, soprattutto nel corso di una sequenza onirica, a metà film, dalla lunghezza spropositata e senza nulla a che spartire con la trama, e tuttavia magnifica. Una scena che, in un film del 2018, verrebbe sforbiciata senza pietà e che, in questo prodotto di serie B degli anni ’80, dura una buona decina di minuti di delirio privo di narrazione ed esclusivamente visivo.
Ecco, Razorback è tutto così: racconta una storia, che è quella del cinghiale gigante e dei vari tentativi per abbatterlo, e non vi si concentra mai, preferendo perdersi in mille rivoli, che risultano tutti più degni di attenzione rispetto al nucleo principale.
A tratti, Razorback è un film sperimentale, e non c’è da stupirsi se si pensa che Mulchay era un regista giovane, proveniente da un mondo a parte e alla sua opera prima. Se poi si consideriamo un istante Blade Runner e il suo linguaggio ultra-moderno, alle prese poi con un budget, in confronto a questo, faraonico, si può tranquillamente affermare che Razorback è lungi dall’essere un filmetto da tre lire su un cinghiale gigante.
Anche perché la bestia apparirà sì e no tre volte e tutto il resto del film è dedicato al peregrinare del protagonista Carl (Gregory Harrison) in un territorio sconfinato e ostile, che quasi lo respinge in quanto straniero e quindi al di fuori delle sue logiche brutali; un mondo dominato dalla crudeltà, degli uomini e degli animali, in cui il cinghiale è solo l’elemento che tiene insieme i destini dei vari personaggi.
Crudeltà: questa è la parola chiave di Razorback, un film dove non esiste pietà per nessuno, concetto incarnato alla perfezione dai due redneck che gestiscono il mattatoio locale; cacciano per divertimento, aggrediscono donne per vendetta, torturano e investono cani senza una ragione, se non un sadismo di fondo. Sono il simbolo di un’umanità abbrutita, e il loro terreno naturale non è rappresentato dagli sconfinati paesaggi australiani, ma dai soffocanti interni della macelleria dove i due vivono rintanati come belve.
Ci sono tanti riferimenti a Lo Squalo, nel film di Mulchay: dall’uomo medio a disagio nei confronti della natura, che però dovrà imparare a conoscere, per sopravvivere e uscire vincitore dallo scontro finale col mostro, al vecchio cacciatore ossessionato dalla bestia, che con essa ingaggia un duello personale, lungo anni, destinato per forza a soccombere.
Simile è anche la scelta di mostrare il razorback il meno possibile, nonostante fosse stato costruito un cinghiale a grandezza naturale, costato anche una tombola e impiegato pochissimo. Non so se per motivi legati al budget o alla resa della creatura, Mulchay sceglie di non mettere mai tutto in campo il super-cinghiale, ma di farcelo vedere tramite i dettagli: un occhio, una zanna, le fauci spalancate. Rarissime le sue apparizioni a figura intera, ma comunque efficaci, anche se si limita a starsene immobili e a fare i versacci.
Potreste divertirvi parecchio, guardando Razorback, e anche rimanere stupiti davanti alla pulizia visiva di questo film, facente parte di un sotto-genere che siamo di solito abituati ad associare a uno stile rozzo e niente affatto ricercato. Qui, invece si nota lo sforzo di fare di ogni inquadratura una piccola opera d’arte, sfruttando al massimo le potenzialità dei paesaggi dell’outback, ma allo stesso tempo, dando loro una patina di finzione cinematografica molto ostentata e anche molto costruita.
Alcuni campi lunghi sono belli da mozzare il fiato e ci sono sempre un taglio di luce o un’angolazione particolare che rivelano la profonda cura nella messa in scena e nella composizione posta da Mulcahy in ogni minimo dettaglio.
Non è il classico monster movie e non è neanche un’opera che è facile da associare all’exploitation più misera e becera, anche perché il gore è quasi assente e si sta parecchio tempo su personaggi e atmosfera.
Un film strano, peculiare, un ibrido se vogliamo, ma interessantissimo.
La mia generazione ne rimase a tal punto colpita che fra i miei amici “Razorback!” è ancora la risposta standard quando qualcuno dice “Australia.”
Mulchay ha fatto un lavoro impressionante sui paesaggi, quindi è difficile non rimanerne colpiti e non mettersi a fantasticare sull’outback.
Poi l’Australia è uno dei miei sogni e il cinema australiano ha sempre un impatto molto forte su di me.
È passato un secolo, ma sì, mi divertii parecchio. Bisogna che lo recuperi. Thank you fo the memories 🙂
Indubbiamente è un cult anche per me. Lo ricordo bene, l’avrò visto 3/4 volte… la scena dell’attacco alla donna nella macchina è terrificante, con quella sospensione di rumori che dura qualche secondo e che ti gela il sangue.
Il regista Mulcahy (credo si scriva così) veniva dai videoclip ma anche al cinema si era confermato un gran bel tipo, soprattutto col successivo Highlander.
Un film molto affascinante e particolare, davvero, con un razorback che è come una sorta di animalesca emanazione/materializzazione di quello stesso outback “alieno” e ostile in cui i protagonisti si trovano ad agire (e a cercare di salvare la pelle)… un grande Mulcahy pre-Highlander all’opera qui, senza se e senza ma 😉