Pillole di fine novembre

La tristezza di Jason sotto la pioggia è anche la mia quando non posso uscire in bici. Quando poi piove e tu hai anche un occhio solo perché l’altro è momentaneamente orbo, c’è solo il cinema salvarti la vita, persino in visione periferica. Questo per dirvi che, mentre ero un pirata, non sono stata proprio con le mani in mano e ho fatto una bella scorpacciata di film, tanto che spesso arrivavo a fine giornata col mal di testa per lo sforzo a cui sottoponevo l’unico occhio sano.
Dato che di recensirli tutti non ho né il tempo né la voglia che qui c’è da parlare, prima o poi, di Detroit e abbiamo una filmografia intera da sezionare, ecco che riesumo le pillole. Prendete dunque il vostro taccuino e segnatevi questi titoli. Sono tanti e sono abbastanza meritevoli.

Cominciamo con 68 Kill di Trent Haaga, già pupillo della Troma e sceneggiatore, tra le altre cose, del quarto capitolo della saga del Vendicatore Tossico. Questo è il suo primo film realizzato al di fuori dell’underground più spinto ed è una prova interessante, con un cast di tutto rispetto e una trama criminale a base di personaggi completamente amorali, violenza estrema e il furto di 68.000 dollari gestito in maniera dilettantesca con conseguenze tragi-comiche.
Haaga, abituato alle esagerazioni e al cattivo gusto imperante in casa Troma, gira un film sovraccarico, buttandoci dentro di tutto: spacciatori, prostitute, tossici con tendenze sadiche, snuff movie, inserti psichedelici, incubi, deliri e allucinazioni. C’è un protagonista maschile, Chip, (Matthew Gray Gubler) ingenuo ai limiti dell’idiozia, che passa frastornato attraverso questo tritacarne (non solo in senso figurativo) di avvenimenti, completamente annichilito dalle sue tre comprimarie femminili, interpretate da AnnaLynne McCord, Sheila Vand e Alisha Boe e non si capisce poi così bene se si tratta di una riflessione buttata in farsa sul rapporto tra i sessi o se il povero Chip sia una vittima di tre pazze o un cretino integrale che si merita tutto ciò che gli accade.
Ma non è poi così importante, perché il divertimento è garantito, il ritmo alto e la durata così breve da non lasciare spazio a troppe domande.

Ve lo ricordate Marcel Sarmiento? Quello che, nel 2008, aveva diretto Deadgirl, da cui ancora non mi sono ripresa del tutto. È stato fermo per un bel po’, se si escludono un corto per The Abcs of Death e uno per il secondo V/H/S. Torna ora, dopo questo lungo silenzio, con Totem una ghost story all’apparenza molto classica, forse troppo: Kellie è un’adolescente che, dopo il suicidio della madre, si è occupata del padre in lutto e della sorellina minore. Ora suo padre ha conosciuto un’altra donna e le ha chiesto di andare a vivere da lui. In concomitanza con l’arrivo di questo elemento estraneo al nucleo familiare, cominciano a verificarsi strani fenomeni, che sembrano tutti convergere verso la piccola di casa, Abby, nei cui confronti Kellie ha un atteggiamento molto protettivo.
Il problema principale di Totem è che si sviluppa con modalità eccessivamente canoniche e anche un po’ prevedibili. Ma questo problema diventa il suo maggiore punto di forza per motivi che non posso star qui a spiegarvi, altrimenti rischio di rovinarvi un’opera che trova la sua vera ragion d’essere negli ultimi dieci minuti. Basta un finale che è l’equivalente di una pugnalata alla schiena per salvare un film intero? La decisione sta a voi. Per me la risposta è sì, altrimenti non impazzirei per roba come Sleepaway Camp o Halloween IV.

Ho una grandissima simpatia per Joe Lynch, perché è un regista di serie B che va avanti per la sua strada, con una poetica coerentissima a base di trippe, frattaglie e amore per il genere. Non che abbia fatto sempre cose egregie, anzi; è un po’ approssimativo, a volte sciatto, altre invece tende a girare (un po’ come il suo amico e collega Adam Green) più con la mentalità da fan che con quella da professionista. Però a uno che ha diretto Wrong Turn 2, e soprattutto la scena iniziale, non si può non voler bene e gli si dà sempre una possibilità.
Mayhem è, credo, il suo film dal budget più elevato, ma solo per il comparto attori, che vede la presenza di Steven Yeun in un ruolo da protagonista e dell’australiana Samara Weaving, oramai lanciatissima, che gli ruba la scena ogni quattro secondi circa. La cosa bella è che Yeun, dopo essere uscito da quella fogna di The Walking Dead, sta cominciando a scegliere ruoli davvero singolari, come se fosse finalmente libero di divertirsi un po’. Stima.
Come il (secondo me) migliore The Belko Experiment, anche Mayhem è ambientato tutto negli uffici di una grossa corporazione. Nel caso specifico, dipendenti e grandi capi sono messi in quarantena a causa di un virus che elimina i freni inibitori e ti trasforma in una specie di maniaco sessuale, ma assetato di sangue. Tutti sono contagiati, personaggi principali compresi, e Lynch mette in scena una lotta furiosa per la sopravvivenza che comincia ai piani bassi dell’edificio e termina all’ultimo piano, dove risiedono i dirigenti.
Niente di complesso o politicamente rilevante, a parte un paio di battute sulla perfidia delle multinazionali e sulla stronzaggine estrema di chi si trova alla loro guida. Ma non penso che esista qualcuno pronto a guardare un film di Joe Lynch alla ricerca di chissà quale significato, posto che qualcuno sappia che Joe Lynch esiste, al di fuori di una nicchia molto ristretta di appassionati di cinema di serie B. Noi ne facciamo di sicuro parte e Mayhem è un film con tutti i pregi e difetti di questo regista, più la fortuna di avere una protagonista con carisma da vendere e che sa portare con eleganza una pistola sparachiodi.

Molte recensioni che ho letto in giro per la rete definiscono Super Dark Times, opera d’esordio di Kevin Philips, una versione oscura e marcia di IT, soprattutto se scritte da qualcuno a cui IT non è piaciuto. Ma non basta avere dei ragazzini in bicicletta per essere accostati al film di Muschietti o al romanzo di King e, a fare certi paragoni, non si rende neanche giustizia a Super Dark Times che va a parare in tutt’altro territorio, non ha nulla di soprannaturale e, anzi, è una vicenda di ordinario e quotidiano squallore di provincia.
L’ambientazione è a metà anni ’90 e mi viene da dire che, mentre gli anni ’80 sono il luogo della nostalgia per eccellenza, il decennio successivo è invece deputato a storie di degrado e grigiore, un po’ come nel bellissimo Boys in the Trees.
I ragazzi di Super Dark Times si trascinano lungo pomeriggi tutti uguali, fatti di noia, desideri frustrati e bullismo. Gli adulti sono assenti, semplici ombre stagliate sullo sfondo e, anche quando cercano di essere partecipi, non si accorgono di quello che accade ai loro figli.
Quando Josh uccide accidentalmente il bulletto odiato da tutti Daryl, il suo migliore amico Zack lo aiuta a nascondere il corpo e a coprire tutte le tracce. Ma questo fatto, oltre ad allontanare i due ragazzi e a mettere fine a un’amicizia che dura da una vita, farà scattare la bomba a orologeria che si nasconde nella psiche di Josh, trasformandolo in un mostro.
Non è una visione facile, Boys in the Trees, prima di tutto perché è un racconto dai ritmi molto dilatati, e spesso sembra addirittura girare a vuoto, come le vite di Josh, Zack e dei loro amici; e poi perché è un film che spoglia, con precisione chirurgica, l’adolescenza da qualsiasi forma di poesia. Un film ostico, ma anche molto coraggioso, da vedere quando l’intrattenimento non vi basta più e volete andare davvero a fondo, anche a costo di uscirne feriti.

Ci sarebbe un trattato da scrivere su The Ice Cream Truck, e non perché sia un film straordinario (non ci si avvicina neanche a esserlo), ma per come lavora bene sulla sua protagonista, rispettando e allo stesso tempo, disintegrando i codici dello slasher e la figura della final girl.
La regista Megan Freel Johnston, alla sua opera seconda, dirige e scrive una stramba commistione tra commedia, horror e satira sui sobborghi americani che funziona quasi per magia e molto di più nella componente satirica che in quella strettamente horror. I problemi del film sono infatti tutti legati alla scarsa resa egli omicidi, che non hanno nulla di speciale né per come sono messi in scena né per come è costruita la tensione che dovrebbe precederli né, infine, per quanto riguarda il gore, del tutto assente o quasi.
E tuttavia è un film pieno di idee dirompenti, a partire dal furgoncino dei gelati del titolo, che si aggira per questo quartiere residenziale dove la nostra protagonista Mary (Deanna Russo) si è appena trasferita ed è in attesa che la raggiungano marito e figli, mietendo vittime tra l’indifferenza generale, fino a Mary stessa, final girl di quarant’anni che combatte un assassino sessuofobo e punitivo di ogni comportamento immorale, portandosi allegramente a letto il figlio diciottenne dei suoi nuovi vicini di casa.
Se solo si fosse curato un po’ di più l’aspetto horror del film, rendendo l’assassino un vero spauracchio, un’incarnazione degli incubi repressivi della piccola e media borghesia, allora The Ice Cream Truck sarebbe stato tra i migliori film dell’orrore dell’anno. Così, è solo un interessante studio di un personaggio deviante dalla norma, scritto con empatia e delicatezza e anche molto ben interpretato. Un peccato, davvero. Ma un’occhiata la merita, anche perché è passato sotto il più assoluto silenzio e mi sembrava giusto provare a spingerlo un po’.

E per questa edizione delle nostre Pillole è tutto. Nei prossimi giorni vedrò di approfondire altri film su cui vale la pena spendere più di due parole e, soprattutto, troverò da qualche parte la forza di parlare del film della Bigelow, che devo ancora metabolizzare: mi sento come se mi fosse passato sopra un treno e, appena provo a mettere ordine tra le idee, mi scoppia il cervello. Ergo, pazientate che prima o poi l’articolo arriva. Lo scrivo qui, così non mi posso tirare indietro.
A prestissimo e buone visioni, possibilmente con entrambi gli occhi funzionanti.

13 commenti

  1. valeria · ·

    segnati tutti. mannaggia, questa lista da film da vedere sta diventando veramente troppo lunga XD

    1. E tu pensa che la mia è praticamente infinita. Non riuscirò mai a star dietro a tutto 😀

  2. Lucia, non dirmi che non hai mai visto Criminal Minds, li Matthew Gray Gubier è uno dei protagonisti principali ed è adorabile….

    1. No, non lo seguivo proprio.
      Gubier lo conosco perché di solito lo trovo sempre nei film di Richard Bates Jr.!

      1. Allora ti consiglio di dare un’occhiatina agli episodi di Criminal Minds che Matthew ha diretto, dalla quinta stagione in avanti, sono una decina e, a parte alcuni che sono legati alla trama orizzontale della serie, sono piccoli omaggi all’horror classico…

  3. Strano, io invece adoro l’autunno proprio perché piove, fa buio presto e perché si deve stare al chiuso buona parte del tempo 😀
    Mi intrippa molto Super Dark Times, mi sa che lo recupero a breve!

    1. No, io e il buio alle 16 proprio non ce la facciamo ad andare d’accordo. A me piace il caldo, mi piace l’estate e ho bisogno del sole. Preferisco quando ci sono 40 gradi 😀

  4. Giuseppe · ·

    Altri interessanti titoli da aggiungere in lista… e, viste le dimensioni al di là dell’umano che ha raggiunto, per riuscire a vedere tutto quello che c’è dentro le proverbiali nove vite dei gatti mi farebbero molto comodo 😀
    P.S. Pensavo che aprissi la settimana proprio con “Detroit” ma porterò pazienza, no problem… 😉

    1. Giuro che è più complicato del previsto, questa volta 😀 Ma ce la faccio, promesso.

  5. Dei titoli citati ho visto solo Mayhem, molto simpatico e divertente, anche se penso anche io che The Belko Experiment fosse meglio (forse perché alla combo Gunn/McLean non riesco a resistere?).
    Degli altri… a pelle quello che mi ispira di più è Ice Cream Truck: odiando gli anni ’90 e i film ammorbanti di quel decennio probabilmente odierei anche Super Dark Times mentre l’ultratrash targato Troma potrebbe essere troppo anche per me. Magari Totem, chissà…

    1. Ma 68 KIlls non è trash, è solo incasinatissimo e molto violento. E poi non è della Troma, anche se il regista viene da lì. Considera che la Troma ci ha regalato James Gunn 😀

  6. Alberto · ·

    Anch’io sono curioso di sapere cosa pensi di Detroit, che dalle mie parti è passato come Vil Coyote e già svanito. Tra le pillole mi piacerebbe 68 Kill, chissà che qualcuno non lo sottotitoli prima o poi.

    1. È stato distribuito malissimo, anche qui a Roma era in poche sale e ho dovuto fare i salti mortali per vederlo. Ma ne è valsa la pena.

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