Killing Ground

 Regia – Damien Power (2017)

Io non voglio fare l’apologia a ogni costo dell’horror australiano, perché sarei una persona molto noiosa e ripetitiva, ma è davvero difficile non innamorarsi di questo cinema selvaggio, brutale e con una storia che può vantare una coerenza ferrea, a partire dalla Ozploitation e dai suoi titoli più famosi, come Wake in Fright e Long Weekend, fino ad arrivare a Wolf Creek. L’horror ambientato nelle zone meno urbanizzate dell’Australia sembra dirci, da sempre, la stessa cosa: la natura è vostra nemica, ma ancora di più sono gli esseri umani che hanno imparato a convivere con quell’ostilità sconfinata. È una tema caro anche a certi survival americani degli anni ’70, Deliverance su tutti, ma il modo in cui viene reso nel cinema australiano è speciale, primitivo, forse perché meno basato su facili dicotomie di stampo politico, forse perché hanno un modo differente di filmare il paesaggio, meno borghese, se mi passate il termine o ancora perché i personaggi che subiscono le ordalie a cui i registi li sottopongono sono più reali e vivi, gente a cui ci si affeziona volentieri.
Killing Ground appartiene a quella tradizione straordinaria e, oltre a brillare per crudeltà, è anche interessante per come gestisce le reazioni dei protagonisti a una situazione di pericolo estremo, mai scontate, mai prevedibili, tragicamente vere.

Sam e Ian sono una giovane coppia in campeggio per il fine settimana dell’ultimo dell’anno. Sono diretti in un luogo dove Ian andava da bambino, un laghetto isolato e raggiungibile solo a piedi, dopo aver lasciato le automobili qualche chilometro indietro su una stradina sterrata. Giunti sul posto, si accorgono con un certo disappunto di non essere soli: è stata infatti piantata un’altra tenda, più grande e più attrezzata della loro, ma non c’è nessuno, né al suo interno né nella zona adiacente.
I due credono che gli occupanti della tenda siano andati a fare un’escursione e, sperando che non siano troppo molesti come vicini, non ci pensano più e si godono il loro soggiorno. Ci scappa anche una proposta di matrimonio e tutto sembra andare a gonfie vele, fino a quando, la mattina dopo, Sam è attirata da un rumore proveniente dalla tenda, si avvicina, entra e scopre che dentro c’è un bambino di pochi mesi. E qui il film comincia sul serio.

Alternando le linee temporali, Power ci racconta cosa è successo alla famiglia scomparsa e cosa sta succedendo a Sam e Ian. Devo ammettere che, sul momento, la cosa mi ha disorientata, perché questa alternanza tra presente e passato non viene annunciata o spiegata in alcun modo e spesso ci si rende conto di assistere a dei fatti avvenuti il giorno prima solo in base al cambiamento della maglietta di un personaggio. Non è un difetto, badate bene, è un pregio e un segno di quanto bene è stato montato Killing Ground dalla bravissima Katie Flaxman. Infatti credo di aver sbagliato, parlando di alternanza: gli stacchi sono così fluidi e impercettibili che sarebbe meglio parlare di simultaneità.
È ovvio che ai genitori del neonato (e alla sua sorella maggiore) non sia capitato nulla di piacevole, ma Killing Ground è un film che andrebbe visto senza avere la più pallida idea del suo svolgimento e dei suoi meccanismi narrativi (cosa di cui ho purtroppo già parlato) ed è quindi doveroso da parte mia avvisarvi della presenza di copiosi SPOILER che vi consiglio di evitare.

Come in Wolf Creek, ma anche come nel già citato Deliverance, la minaccia è costituita dai locali, da chi in quei boschi all’apparenza idilliaci ci vive e ci caccia ogni giorno. Sono infatti due cacciatori di cinghiali che, un po’ per gioco, un po’ per noia, un po’ per una qualche forma di rivalsa sociale, attaccano prima la famiglia di campeggiatori e poi, vedendosi scoperti, si dedicano a eliminare Ian, Sam e il neonato Ollie.
Quello che stupisce, in Killing Ground, è l’escalation di crudeltà e sadismo. Mette a dura prova anche il più smaliziato degli spettatori. E attenzione, non si tratta di eccessi gore o di omicidi creativi, ma della noncuranza con cui un’intera famiglia viene uccisa, tra una risata e un sorso di birra. Sono scene abbastanza difficili da sopportare e rimandano al cinema duro e sporco degli anni ’70: delitti consumati nell’indifferenza, in pieno sole, il cui unico accompagnamento musicale è costituito dal canto degli uccelli, dai colpi di fucile e della urla delle vittime. Craven approverebbe la degenerazione progressiva e quasi inconsapevole della violenza. Sembra uscita dritta da L’Ultima Casa a Sinistra.

Aggiungete che Power (e il suo direttore della fotografia Simon Chapman, che non a caso lavora sempre con Sean Byrne) gira il tutto con un’impassibilità da manuale, mantenendosi molto distante dall’azione, lasciando fuori campo le peggiori efferatezze e mostrandocene solo gli effetti, utilizzando inquadrature molto larghe, dove i personaggi sembrano piccoli e sperduti in confronto al paesaggio che li circonda, e sarà difficile liberarvi dall’angoscia anche dopo la fine dei titoli di coda.
In seguito, il film si rilassa un po’ troppo, rientra tra i binari piuttosto comodi della caccia all’uomo tra i boschi e, a parte un momento che definire allucinante è poco, diventa un onesto survival come ce ne sono tanti. Se non fosse che Ian compie un gesto da analizzare in modo un po’ più approfondito.

Qualche anno fa è uscito un bel film svedese, Forza Maggiore, in cui una famiglia in vacanza si sfasciava davanti ai nostri occhi dopo che il padre, di fronte a una valanga che minacciava la terrazza dell’albergo in montagna dove erano andati a sciare, se le era data a gambe, mollando lì moglie e figli. La valanga si rivelava un falso allarme, ma questo evento portava a un totale deterioramento nel rapporto della coppia. Perché parlo di un film che, all’apparenza, non c’entra niente con Killing Ground? Perché il personaggio di Ian si comporta esattamente nella stessa maniera: vede, nascosto tra i cespugli, che uno dei cacciatori ha catturato la sua fidanzata (e Ollie) e se ne rimane ben nascosto, senza intervenire. Più tardi, scapperà addirittura, raggiungendo la macchina parcheggiata e correndo al più vicino posto di polizia. Scelta rivelatasi comunque inutile, ma questa è un’altra storia.
Ora, è molto interessante che sia il maschio della coppia a prendere questa decisione. In Killing Ground, dopo un inizio che faceva presagire una determinata gestione dei ruoli (lui campeggiatore esperto, sicuro di sé, lei un po’ spaventata dall’idea di essere in mezzo al nulla e anche un po’ piagnucolosa), ecco che la sceneggiatura opera una loro netta inversione, facendo venire fuori per gradi la personalità più forte di Sam e quella vagamente pusillanime di Ian.

Dopo aver visto una quantità pressoché infinita di slasher e survival dove il maschio di turno si getta in maniera sconsiderata addosso al killer per finire affettato cinque secondi dopo, il comportamento di Ian, per quanto venga facile giudicarlo un vigliacco, mi è sembrato molto umano e molto plausibile. Lui non va a chiamare la polizia perché è la scelta più razionale; in quel momento non lo è, perché uno dei due cacciatori ha preso Sam, l’ha legata a un albero e minaccia di ucciderla se Ian non esce fuori dal suo nascondiglio. Ian ha paura e agisce di conseguenza.
Non si tratta di una novità: è una cosa che accade spesso negli horror, soprattutto australiani, e recenti, quella di spogliare i personaggi maschili dalle caratteristiche più stereotipate, e se ricordate il protagonista di Wolf Creek, dovreste avere ben chiaro in mente quello a cui mi riferisco. Ma in Killing Ground il tutto viene portato al livello successivo, con il nostro eroe che all’improvviso si mostra vigliacco e Sam che non deve fare solo i conti con uno psicopatico, ma anche con il tradimento del suo compagno.
Sono piccoli (neanche tanto) accorgimenti psicologici che danno profondità e spessore al film, soprattutto alla luce del finale, ambiguo e sospeso, dove ci viene negato il confronto tra Sam e Ian e ci dobbiamo accontentare di un semplice sguardo che passa tra i due. E non so decidermi se sul volto di Sam ci sia comprensione o rassegnazione.

14 commenti

  1. bella recensione, recupero subito 🙂

    La descrizione delle dinamiche di coppia mi ha fatto venire in mente “Backcountry”, altro film in cui campeggiare si rivelava una pessima idea (lì il pericolo era diverso, ma giá dopo mezzora diventava una vera e propria calamita da incubi, almeno per il sottoscritto).

    1. Sì, Backcountry non era male affatto e la scena con l’orso ha fatto davvero venire gli incubi anche a me. Peccato solo che, secondo me, mollava un po’ sul finale.

  2. A Backcountry grande attore l’orso,ma li la colpa era del tipo che mi sembra toglieva la batteria al cellulare(pessima idea),anche il piccolo horror The Station aveva tra i vari abomini il tema della crisi di coppia,come anche Cujo(tradimento) poi li nel deserto australiano sembra veramente che ti può capitare di tutto per mancanza di punti di riferimento.

    1. Però qui non c’è una coppia in crisi, anzi. Sono felici, tranquilli e decidono di sposarsi.
      Poi lui si comporta in un certo modo e noi non sapremo se la coppia resisterà a questo.

  3. Questo film mi interessa davvero assai. Perché, come appunto Forza Maggiore, mi piacciono quelle pellicole che mostrano un ampio spettro di comportamenti e contraddizioni dell’essere umano. Io reputo che sia pressoché impossibile capire chi è coraggioso o no, e che la” codardia” sia una reazione, un sentimento molto umano.
    Più che altro, va che sto andando ot ed è un pensiero mio, mi sembrano molto diversi i modi di agire del protagonista di questo film e di quello di Forza Maggiore. Nel senso, questo fugge per chiamare la polizia, certo può andar malissimo come invece può quantomeno far arrestare i due, se fosse rimasto potrebbe esser anche lui tra i morti,e tutti sono attaccati alla propria vita, l’altro fugge solo per sé stesso e basta. In ogni caso lo vedrò perché questi ribaltamenti di ruoli, questo scavare in profondità e portare fuori il coraggio e la paura, mi garba come tema

    1. In realtà SPOILER
      .
      .
      .
      .
      .
      .
      .
      .
      .
      .
      .
      .
      .
      .
      .
      .
      .
      .
      .
      .
      Lui non scappa con l’intento preciso di chiamare la polizia. Lui se la dà a gambe e basta. Poi, durante il tragitto ci riflette due minuti e va alla stazione di polizia.
      Quindi la situazione è molto simile a quella di Forza Maggiore, anche se qui la situazione è molto più seria.

  4. ah, ecco! E no e allora che peste lo colga! ^_^

  5. Alberto · ·

    Che tu sappia è prevista un’uscita in sala?

    1. Che io sappia no, ma non credo proprio. È il classico tipo di film che, qui da noi, rimane inedito.

      1. Alberto · ·

        Uff

  6. Giuseppe · ·

    Sembra davvero disturbante quanto basta, e forse anche di più (compresa l’azzeccata scelta di tenere il peggio visivamente fuori campo lasciandone fare il gioco sporco ai suoi effetti, appunto)… un altro titolo per il quale non è assolutamente peccato ricadere di nuovo l’apologia dell’horror aussie, direi 😉

  7. Fabrizio · ·

    Bravissima, non avrei saputo scrivere meglio le parole delle tue prime 3-4 righe di recensione.
    Sull’argomento segnalerei GONE (cito anche l’insignificante sottotitolo italiano ‘Passaggio per l’inferno, solo per semplicità di documentazione, visto che in giro dovrebbe esserci un altro film omonimo).

    1. E infatti, mi pare che Gone sia stato scritto da Watkins, uno che di survival se ne intende parecchio 😉

  8. fabrizio · ·

    Lo hai visto?
    Quando la lentezza e il far succedere poco o nulla per decine di minuti interi divengono peculiarità pregevoli.
    Consigliatissimo a patto che non ci si aspetti immediati fuochi d’artificio tipo “Wolf Creek”

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: