Regia – Silvio Narizzano
“We use not condiments of any kind in this house, Patricia! God’s food should be eaten unadorned. We are vegetarian. For instance, this meat loaf is synthetic, compounded of bread, oatmeal, and wheat germ.”
In principio fu Baby Jane. Il film di Aldrich diede inizio a un filone in cui moltissime attrici di una certa età ebbero la possibilità di allungare le proprie carriere nell’horror, dato che la Hollywood mainstream aveva deciso di metterle in naftalina anzitempo. Non solo Joan Crawford e Bette Davis, quindi, ma anche personaggi come Shelley Winters, Debbie Reynolds, Geraldine Page, Ruth Gordon. Sono le signore terribili del cinema horror tra gli anni ’60 e gli anni ’70, una galleria di pazze, squilibrate e assassine, madri di una tradizione che prosegue ancora oggi. Basta pensare a come vengono impiegate le varie Dee Wallace o Mary Woronov, tanto per fare un paio di nomi appartenenti alla generazione successiva.
In ordine di tempo, subito dopo la Davis e la Crawford, c’è stata Tallulah Bankhead, che era anche piuttosto giovane, nel 1965. Classe 1902, la Bankhead aveva lavorato con Preminger e Hitchcock, prima di sparire dalla circolazione negli anni ’50, languendo in varie apparizioni televisive, per essere poi riesumata dalla Hammer per questo b-movie, nato proprio sulla scia di Baby Jane.
Una giovane donna, Pat (interpretata da Stefanie Powers) torna in Inghilterra dagli Stati Uniti in compagnia del suo nuovo fidanzato. Quello precedente, Steven, è morto in circostanze tragiche. Pat, prima di sposarsi, vorrebbe andare a trovare la mamma di Steven, un’anziana signora un po’ svitata che vive in campagna, per chiudere definitivamente con il passato.
All’inizio, la signora Trefoile sembra solo una fanatica religiosa tutto sommato innocua: ha tolto tutti gli specchi dalla casa perché segno di vanità; obbliga la servitù e Pat ad assistere a interminabili letture della Bibbia; dà in escandescenze quando vede Pat vestita di rosso e le fa togliere il rossetto, perché simbolo del peccato. Vedendola attaccata morbosamente al ricordo del figlio, Pat non ha il coraggio di dirle di essersi fidanzata di nuovo. Passa la notte da lei e, quando la mattina dopo è pronta a partire, la signora la chiude nella sua stanza e non la fa più uscire. La sua missione, le dice, è purificarla e farla unire per sempre con Steven.
Una Notte per Morire (titolo italiano opinabile e che poco ha che spartire con la storia del film) è una interessante incursione della Hammer in territori molto distanti dal gotico e legati a una concezione di orrore più realistica, più vicina ai gusti del pubblico contemporaneo. A dirigere il film, troviamo il canadese di origini italiane Narizzano, che firma qui il suo esordio in un lungometraggio. Lo stile di regia è sicuramente datato e privo dei guizzi di genialità che possiamo ammirare nei lavori dei registi regolarmente affiliati alla Hammer (Fisher in testa a tutti), ma il marchio della leggendaria casa di produzione è visibile nei colori accesi, nelle luci che, all’inizio del film sono quasi naturalistiche per poi sfociare in un delirio psichedelico mano mano che la follia religiosa della signora Trefoile cresce e si manifesta in tutta la sua furia.
Ma il film, che rimane comunque un bell’esempio di costruzione graduale della suspense, è prima di tutto lo show personale di Tallulah. L’attrice sarebbe morta tre anni dopo, ad appena 66 anni, e si ammalò durante le riprese. La produzione pensò di sostituirla in corsa, ma lei scelse di ridurre drasticamente la sua paga e promise che la malattia non avrebbe compromesso la lavorazione. Guardando il film, si nota quanto ci tenesse al ruolo e quanto stesse dando tutta se stessa per interpretarlo. E infatti, la sua recitazione è impressionante e piena di sottigliezze, minuscoli dettagli che si scoprono dopo ripetute visioni. Il modo in cui usa la voce, già di per sé inconfondibile, lascia di sasso: sentirla passare dai toni educati e impostatissimi della prima parte del film ai ruggiti della seconda, fa venire i brividi.
Dall’altra parte, la Powers le tiene testa fino a un certo punto, ma riesce a difendersi anche troppo bene, considerando chi fosse la sua antagonista e quale peso avesse recitare accanto a un gigante simile. La Bankhead è tutta sguardi gelidi, gesti trattenuti, scatti di rabbia dominati a stento. La Powers ha un ruolo meno appariscente, il suo unico compito è, in fin dei conti, subire fino a quando non arriverà qualcuno a portarla in salvo. Ma Tallulah domina il campo con una sicurezza e un carisma da applausi a scena aperta.
Non so a voi, ma io rimango sempre incantata da queste interpretazioni sul “viale del tramonto”, anche quando si trattava di partecipare a un prodotto di serie B, dopo essere stata una star di serie A. E sarebbe stato anche semplice, per una professionista di quel calibro, recitare col pilota automatico e fare la macchietta caricaturale della fanatica religiosa. Invece no, la Bankhead è riuscita a infondere umanità a un personaggio che avrebbe potuto essere solo un cattivo di seconda fascia. La scena in cui, per esempio, si guarda allo specchio e si mette il rossetto non si limita a mostrare la follia della signora Trefoile, ma tira fuori anche tutte le sue fragilità e disperazione. Tanto che, alla fine, si tiene anche un po’ per lei.
Il merito però va anche ai dialoghi perfetti scritti da Matheson. I continui botta e risposta tra Patricia e la sua anziana carceriera sono l’impalcatura su cui si regge tutto il film, perché non si limitano a esporre i deliri di una pazza allucinata fissata con il peccato e la parola di Dio. Rappresentano proprio due visioni del mondo differenti, due generazioni che scontrano su un terreno etico e comportamentale e hanno posizioni inconciliabili. Come se Pat fosse l’incarnazione del futuro, di un nuovo tipo di donna che proprio in quegli anni stava emergendo e trovando spazio, mentre la sua antagonista fosse un passato sempre più distante e destinato a soccombere.
Un’opera che si spinge parecchio oltre una semplice copia di Baby Jane, che per ovvi motivi non ne possiede la classe cinematografica e la bellezza pura, ma che forse riesce a raccontare qualcosa di più sull’epoca di passaggio in cui è stata realizzata. Di sicuro, Fanatic (o Die! Die! My Darling, titolo americano che non piacque alla Bankhead e per cui l’attrice fece addirittura causa alla distribuzione) è un film da riscoprire. Anche perché ha, ancora oggi, un ritmo incalzante e micidiale.
Gli anni ’70 sono una meraviglia, il mio decennio preferito senza rivali. Per il 1975, ho selezionato tre film: La Fabbrica delle Mogli, di Bryan Forbes, In Corsa col Diavolo, di Jack Starret e L’Ultimo Treno della Notte, di Aldo Lado.
oltre all’interpretazione straordinaria della bankhead (che effettivamente mi ha ricordato molto bette davis), una delle cose che più ho apprezzato del film é il personaggio di patricia, che non rimane passivamente a farsi malmenare come tanti (troppi) personaggi simili, ma anzi prova in più occasioni a ribellarsi fisicamente e/o verbalmente (che poi non gliene vada bene una fino alla fine é un altro discorso XD). un altro film della hammer che amo molto anche per questo motivo é “taste of fear” (o “scream of fear), a dimostrazione del fatto che, se ben scritte, le protagoniste degli horror erano cazzute già anni fa XD
bellissima recensione 🙂
Sì, infatti i dialoghi tra le due donne sono splendidi. I personaggi femminili della Hammer (e del cinema horror britannico in generale) sono molto interessanti e cazzuti.
La povera Pat è sfigatissima. C’è la sequenza in cui riesce per un attimo a fuggire e si getta addirittura nel fiume per andare via, ma poi viene ripresa subito, che mi fa sempre tanta rabbia.
Ruolo particolarmente ironico, quello della Bankhead nelle vesti di una fanatica religiosa peccatofoba, considerando che fu una delle attrici più scandalose della Hollywood pre-Codice.
E in effetti si ritrovò a lavorare per gli inglesi della Hammer perché era troppo scomoda (e sovente troppo erratica) per Hollywood.
Fumava 150 sigarette al giorno – e quello era il minore dei suoi vizi.
Grande attrice, gran donna, molto sfortunata.
E infatti, nel passato del personaggio, si accenna al mestiere di attrice. Hanno usato le foto di lei da giovane, facendola anche incazzare un po’ 😀
150 sigarette al giorno e una voce straordinaria, infatti.
Tanto fumo e altrettanto arrosto, nel suo caso 😉 E lo dimostra egregiamente il personaggio al quale riesce a dare vita, riuscendo ad evitare sia una macchietta “negativa” di facile presa che una fanatica magari sì più costruita e sfaccettata ma completamente priva -appunto- di qualsivoglia briciola di residua umanità (che ad occhi superficiali avrebbe forse potuto farla apparire come la cattiva perfetta, ancora più pericolosa nei confronti di Pat), qui invece ancora presente e spiazzante… il tutto grazie anche a Matheson, ci mancherebbe.
P.S. Voto per il film di Forbes (stavolta lo azzecco il titolo vincente, me lo sento).
Pare che in effetti La Fabbrica delle Mogli sia in testa 😉
È anche il film su cui punto io, per una volta 😀
La Hammer faceva piccoli capolavori, di genere e di sceneggiatura.
Spero assolutamente di vedere la tua recensione de L’Ultimo Treno della Notte
Soprattutto quando c’era uno scrittore come Matheson, a scrivere le sceneggiature.