L’ho scritto tante volte e amo ribadirlo in ogni possibile circostanza: l’horror, da un punto di vista artistico, sta attraversando un momento di forma straordinario e capace di coinvolgere quasi ogni angolo del globo, se si escludono i nostri angoli, ovviamente, ma non si può avere tutto. Oltre a questa dimensione sempre più internazionale, c’è da aggiungere che il cinema dell’orrore, a tutte le latitudini, si sta occupando della condizione femminile quanto e più del cinema d’autore. E anzi, l’horror è il genere che si dimostra capace, sopra agli altri generi e sopra ai film che di genere non sono, di offrire ritratti di donne complessi, sfaccettati, appartenenti al passato remoto o recente, figlie del futuro, radicate nella contemporaneità, di qualsiasi estrazione sociale, culturale, religiosa, e accomunate da problematiche universali. Se l’horror ha sempre avuto un ruolo, per quanto non del tutto consapevole, politico, in questa prima parte del secolo ha preso sulle proprie spalle, molto larghe e resistenti, la missione di solito appannaggio di una cinematografia considerata più nobile. E lo ha fatto, questo è il vero e radicale cambiamento, con consapevolezza.
Ora, l’apice di questo discorso è rappresentato da una pellicola iraniana, diretta da un esordiente (Anvari ha alle spalle una manciata di cortometraggi) e che, per usare un termine da vera cinefila, mi ha fatto cagare addosso per un’ora e ventiquattro minuti. Come scrive anche il mio amico Dikotomico, trattasi di visione a tratti insostenibile e, si badi bene, senza che Anvari versi anche una sola goccia di sangue.
Prima o poi dovremmo ridefinire il nostro concetto di “estremo”, non dovremmo più associarlo all’esposizione più o meno esplicita di frattaglie, esposizione che ormai domina, senza che quasi nessuno si scandalizzi e con buona pace anche dei grandi network, le serie televisive. Se si arriva a mostrare una testa spappolata con tanto di occhio sballonzolante sulla innocua AMC, non credo che un horror sia da considerarsi “estremo” in base a quanto e come mostra atrocità assortite in campo, a meno che questo mostrare non abbia ragioni ben precise o non sia, al contrario, totalmente anarchico e immotivato, come per esempio è accaduto in Baskin. Forse, allora, è “estremo”, un film dell’orrore che ti obblighi a subire dei ritmi rallentati, che sia in grado di colpire a un livello più profondo rispetto a quello epidermico, un horror che rivendichi un’identità autoriale. Ecco, il cinema estremo, oggi è proprio quello d’autore, l’horror d’autore. Questo non significa la rinuncia ai meccanismi di genere. Come ho già detto prima, Under the Shadow fa paura e, quando si tratta di ricorrere ai trucchi classici dello spavento, vi ricorre senza alcuna remora. Ma non si accontenta di questo e il suo non accontentarsi rende l’orrore ancora più efficace.
Ambientato a Teheran alla fine degli anni ’80, durante la guerra tra Iran e Iraq, Under the Shadow racconta di una giovane donna a cui, per un non specificato passato di attivismo politico, viene impedito di proseguire gli studi di medicina. Il governo richiama al fronte il marito (lui è un medico, lui gli studi li ha portati a termine) e lei rimane da sola con la figlia piccola, nell’appartamento di un condominio dove è all’ordine del giorno, per gli abitanti, rifugiarsi in cantina durante i bombardamenti. Sul palazzo piomba anche un missile e porta con sé un male antico, che prende di mira proprio la bambina. Si parla del djinn, essere a metà tra natura umana e angelica, che può manifestarsi in maniera benevola o maligna. Nel caso di Under the Shadow, la presenza del djinn è malvagia: si appropria della bambola preferita della bambina, il suo tesoro e, fino a quando il tesoro non sarà ritrovato dalla madre, non si potrà lasciare l’appartamento per mettersi in salvo. Dalla guerra, dalle bombe, dal demone.
Under the Shadow è un film che ti schiaccia. È come una paralisi del sonno, è implacabile, non puoi uscirne neanche se ti agiti e cerchi di gridare.
Lo stile di Anvari è di una pulizia formale e di un rigore davvero rari. La macchina da presa registra i movimenti dei personaggi principali tra le quattro mura dell’appartamento, lungo le scale del palazzo, nei corridoi che collegano le varie porte del condominio e, infine, in quella cantina dove ci si ripara da una guerra ogni giorno più vicina. È tutto così essenziale che sembra di assistere all’opera di un regista consumato, perfettamente in grado di rinunciare al superfluo. E invece si tratta di un esordio. Roba da non crederci, perché la maturità artistica di questo giovane autore potrebbe far schiumare di invidia tantissimi suoi colleghi più noti.
Ogni elemento, in Under the Shadows, è indispensabile. Non c’è nulla che risulti ridondante o di troppo. I dialoghi, le poche spiegazioni, gli effetti speciali che intervengono solo quando hanno un senso ben preciso e non se ne potrebbe fare a meno, la colonna sonora, un impasto indistinguibile tra un tappeto di sintetizzatori e i rumori d’ambiente. Il vento, soprattutto, ché è quello a portare il djinn nelle case e nelle vite delle persone.
Una concezione di orrore minimale, quotidiana, “povera”, ma allo stesso tempo di un’eleganza che non fa notare mai quanto poco sia costato il film. Anzi, l’impressione è quella di avere di fronte un prodotto di serie A, per la cura estrema dei dettagli. Perché essere indipendenti non deve significare essere sciatti. E il basso budget non può, mai e poi mai, essere un alibi per un’estetica rozza.
Under the Shadow, quindi, ti conquista a un primo livello per la sua bellezza e, una volta che le immagini ti hanno catturato, ti assesta i colpi più brutali e feroci sussurrandoti alle orecchie. Il classico caso in cui lo spavento non lo vedi arrivare se non quando è troppo tardi.
Il djinn, la cui apparenza è quella di una donna velata, che si insinua nella mente della bambina, facendola dubitare di sua madre (ecco di nuovo il terrore, condiviso da tantissime donne del cinema horror recente, di non essere delle buone madri secondo il sentire comune) è l’ennesima forma di oppressione cui la protagonista Shideh deve far fronte. La scelta tra restare a Teheran sotto le bombe o scappare, come fanno quasi tutti i condomini, per andare a vivere dai suoceri, non è poi così scontata come potrebbe apparire: abbandonare la propria casa e la città vuol dire abbandonare anche ogni residua indipendenza. E Shideh (interpretata da una magnifica Narges Rashidi), almeno all’inizio, non se la sente. O meglio, non ci riesce. Non è solo per se stessa, ma per sua figlia che sceglie di restare a Teheran fino all’ultimo, nonostante la presenza spettrale che le perseguita e nonostante la guerra.
La bambola “rubata” dal djinn potrebbe rappresentare anche solo una scusa, come insinuato nei minuti conclusivi dalla bambina. Potrebbe averla fatta sparire la stessa Shideh, pur di avere un qualcosa che la obblighi a restare. Ma il djinn non perdona, non lascia scampo. E, fuori dalle mura dove il demone si aggira tra le folate di vento, c’è la polizia, pronta a farne le veci.
Non c’è alcuna possibilità di salvezza per Shideh, non c’è per sua figlia. Dentro o fuori del palazzo, il djinn le ha prese e mai le lascerà andare via.
Ho letto in giro paragoni abbastanza sconvenienti con il Babadook, forse perché entrambi i film vedono al centro della scena una donna sola, con pargolo a carico e alle prese con presenze soprannaturali. Ma le cose in comune si fermano qui, al semplice scheletro della trama. Troppo diversi gli intenti, i sottotesti, i simbolismi, per riscontrare un’identità tra le due opere, ugualmente splendide, ma con delle anime addirittura opposte. Il modo che ha Under the Shadow di mischiare orrore soprannaturale e orrore reale, renderli un tutto unico, un mostro multiforme dove la realtà non si distingue dall’incubo e dove la storia genera demoni e i demoni danno vita alla storia, non è avvicinabile, in epoche recenti, a nessun altro film. È unico.
Siamo ancora a novembre, ma il podio per i migliori horror del 2016 comincia a farsi davvero affollato.
Ultimamente sembra che l’horror stia tornado a farsi valere. Questo film mi incuriosisce. Di solito sono proprio questi i generi di pellicole che riescono a spaventarmi seriamente.
Under the Shadow dimostra ancora una volta (come già era successo -pure se nell’ambito di un’opera indipendente americana- con la Amirpour un paio d’anni fa) quanto la “declinazione” iraniana dell’horror dovrebbe essere tenuta d’occhio attentamente. E non sarebbe male cominciassero a farlo anche quelli che, magari, continuano indefessi a circoscrivere l’autorialità della cinematografia di quel paese solo ed esclusivamente alla produzione di impegno sociale e civile…
Visto ieri. Molto bello
Ottima anche la tua analisi del film.
Devo ammettere che la scelta di ambientare un film horror in una Tehran degli anni ’80, sotto i bombardamenti della guerra tra Iran ed Iraq, poteva essere azzardata ma invece si rivela una delle carte vincenti di questo bellissimo film.
Si potrebbe parlare per ore ed ore di quanto l’orrore sia stratificato in questo film e come, per fare un semplice esempio, la paura in questo film sia come la pazzia ne “Il Silenzio Degli Innocenti” (uno dei miei film preferiti), presente un po’ in ogni suo aspetto.
L’horror nell’orrore. Cosa fa più paura?
Senza dubbio uno dei miei horror preferiti degli ultimi anni.
In generale, sono felice di assistere a questa rinascita del cinema dell’orrore di questi ultimi anni.
Dopo un periodo fatto solo di pessimi remake e reboot, finalmente si vedono comparire nuovi lungometraggi di una pregevole fattura, e soprattutto nuovi autori che dimostrano di amare un genere che sembrava ormai “morto” e che invece, grazie grazie a film come Babadook, We Are Still Here, ed ora questo Under The Shadow sembra “rianimarsi”.
Con tutto il rispetto forse uno degli horror più brutti che abbia visto ultimamente, scontato come il piscio dopo la birra, madre e figlia espressive come un muro di calcestruzzo, antipatiche, odiose, irritanti. Non capisco come si possa dare un giudizio positivo a questa porcata e me ne divoro di horror…