Regia – Eli Roth (2015)
Ritrovarmi a parlare (bene) di due film di Eli Roth nello stesso anno mi fa una certa impressione. Senza contare le belle parole che ho speso per elogiare il suo recente lavoro come produttore. Ma mi fa anche un gran piacere, perché significa che chiunque è in grado di evolversi, maturare e, alla fine, sorprendere. Credo che (e io sono la prima) si tenda a distribuire etichette con una certa fretta, a catalogare questo o quel regista come una bufala o, al contrario, a esaltarlo per un solo film riuscito. La vicenda Eli Roth di sicuro mi insegnerà a essere molto più equilibrata nei miei giudizi.
Finito l’angolo dell’autocritica, passiamo a Knock Knock, che pare una brusca inversione di rotta nella carriera di Roth, da sempre associato a bassa macelleria e che, per il suo quinto lungometraggio da regista, sceglie di ridurre al minimo sindacale (ma pure al di sotto) la quantità di emoglobina e si butta sul thriller psicologico.
In realtà non è proprio così, perché Roth, sia che parli di cannibali, sia che decida di raccontarci una peculiare home invasion, rimane sempre il solito cazzone che tutti conosciamo e mantiene tutte le sue caratteristiche, compresa quella “freevolezza” di cui parla Kara Lafayette nella sua recensione.
Ora è da stabilire come mai, pur non avendo modificato di molto il suo approccio al cinema, questo regista sia riuscito a mutare pelle e a diventare, finalmente, adulto e consapevole.
Non è un semplice problema anagrafico. Credo piuttosto che gli anni lontano dalla macchina da presa, passati a fare da mecenate ad altri, a limare i difetti e le ingenuità di giovani registi, lo abbiano aiutato a guardare al suo lavoro con occhi diversi da quelli del fan che vuole solo secchiate di sangue in faccia.
In poche parole, Eli Roth è diventato un professionista, cosa che prima non era. E questo professionismo si riflette nella messa in scena dei suoi film, affrontati in maniera meno confusionaria, e da un punto di vista tecnico, e da un punto di vista narrativo.
Insomma, Eli sa cosa vuole raccontare e come lo vuole raccontare. Si avvale di collaboratori fissi, quasi tutti sudamericani, ha trovato la sua musa in Lorenza Izzo, che ha tutte le potenzialità per diventare una scream queen di un certo livello, e si diverte ancora come un cretino. Non so a voi, ma a me sta ogni giorno più simpatico. Né The Green Inferno né Knock Knock sono tra i migliori titoli dell’anno, ma si difendono nel loro essere prodotti di buona fattura, ambizioni medie e intrattenimento assicurato. È come se il ragazzino terribile cresciuto all’ombra di Tarantino avesse trovato la propria dimensione e ci sguazzasse dentro, tutto felice e pacificato.
Se in Knock Knock mancano le frattaglie perché non richieste da una trama che si basa tutta sul gioco al massacro mentale di un padre di famiglia destinato a pagare molto cara una scappatella, la “poetica” (perdonatemi) di Roth è invariata, ma approfondita e resa molto più chiara. Come del resto tutta la sua ambiguità di fondo.
Il cinema di Roth, scambiato più volte per cinema politico biecamente reazionario, è in realtà un cinema spensierato e amante del caos. O meglio, amante degli agenti del caos che se ne vanno in giro a sfasciare tranquille certezze borghesi. E, teniamolo a mente, i borghesi di Roth sono sempre borghesi “buoni”, quelli progressisti, quelli che vogliono essere brave persone, che ce la mettono tutta per esserlo e, alla fine, falliscono. Il loro fallimento viene reso palese dall’irrompere di quel caos che non guarda in faccia a nessuno, che è libero, procede senza condizioni e non si pone proprio il problema di devastare appartamenti di lusso, in nome di una rivalsa su un ordine così fragile da crollare nello spazio di tre quarti d’ora.
Tre quarti d’ora durante i quali il protagonista Evan (Keanu Reeves), ha tutte le occasioni per mettere, anche cortesemente, alla porta le due fanciulle che si sono presentate a casa sua nel cuore della notte, durante un weekend di assenza di moglie e prole. E tuttavia non lo fa, fino all’inevitabile conclusione.
Io capisco i detrattori di Knock Knock, come capisco chi ha scelto di interromperlo dopo pochi minuti di visione. Stava irritando anche me, per la sua superficialità così rumorosa, per come dava l’impressione (sbagliata) di dipingere Evan come una povera vittima di un giochino orchestrato da due stronzette.
Ma i film vanno visti tutti per poterli giudicare e allora, con tutta la mia irritazione, sono andata avanti. Ed è arrivata una sequenza emblematica: Evan è legato a una sedia, mentre le due ragazze lo torturano sparandogli nelle orecchie a tutto volume il fischio del suo costosissimo stereo vintage. Inizia a protestare, a urlare, a inveire contro le sue aguzzine e pronuncia le parole che (a mio parere) lo condannano in maniera definitiva: “Voi due eravate come una pizza gratis”.
Ecco.
A questo punto, nonostante si possa di sicuro provare pietà per Evan e per come la sua tranquilla esistenza viene sistematicamente fatta a brandelli dai due angeli della vendetta (interpretati dalla Izzo e da Ana de Armas), il film diventa molto chiaro e la nostra prospettiva viene forzata a cambiare.
Che poi, se ci si riflette bene, altro che Hostel, altro che The Green Inferno: Knock Knock potrebbe essere davvero il primo e unico film veramente controverso firmato da Eli Roth. Proprio quello privo di tendini recisi e occhi strappati. Proprio quello che arriva in sordina, senza campagne di marketing che millantano dosi di violenza in realtà inesistenti. Solo tre attori, una casa e un peccatuccio che potrebbe apparire come veniale.
Perché il comportamento di Evan è messo in scena ai limiti del lecito. Sarebbe stato facile se Knock Knock fosse stato un rape & revenge, facile e con una collocazione pronta all’uso. Invece non è così. Per questo mi azzardo a dire che, al netto della vena cazzara che contraddistingue Roth da sempre, si tratta di un film controverso e soggetto a svariate interpretazioni.
Si pone, Roth, come severa entità giudicante nei confronti del suo personaggio, adottando quindi il punto di vista delle due ragazze? Oppure il regista si identifica con Evan e spinge così il pubblico a giudicarlo?
Può anche darsi che ci stia prendendo tutti per i fondelli e ci lasci qui, a scannarci, mentre lui se la ride.
Ma una cosa è certa: Knock Knock è come una vocina all’orecchio che ti sussurra, beffarda, che tutto ciò su cui credevi di aver impostato la tua vita è fasullo.
Si apre con quel carrello che attraversa tutte le stanze della casa di Evan, in ordine, con le foto di famiglia che ritraggono mamma, papà e pargoli belli, felici e sorridenti, le suppellettili alla moda mischiate alle sculture della moglie di Evan, l’arredamento elegante e le superfici pulite e splendenti sotto le luci artificiali. E si chiude con lo stesso, identico movimento di macchina che questa volta indugia in un ambiente reso lurido e fatiscente dall’ondata di caos che è appena passata attraverso quelle pareti.
Home invasion e quindi intimità violata. Eppure, nel caso di Knock Knock, l’intimità non sembra essere mai esistita, non tra quelle mura, mentre la casa prende vita, acquista senso e realismo, solo a partire dall’ingresso delle due ragazze.
Quasi un home invasion al contrario, dove le intruse non sono lì per dispensare violenza, ma per rispondere a una urgente necessità, per quanto grottesca ed estrema, di giustizia.
Bel e Genesis, che portano a galla la verità in una villetta edificata sulla menzogna.
Restando sempre sul filo di una morale dai contorni sfumati, rifiutando a priori di prendere una posizione netta (anche se c’è quella frase sulla pizza che indica una certa direzione nelle simpatie di Roth), Knock Knock lascia a noi la scelta. Possiamo continuare a vivere nelle nostre dimore linde e rassicuranti, ma dobbiamo stare attenti a non aprire mai la porta al caos che vive all’esterno.
Perché il caos è vendicativo. Il caos non perdona nessuno.
E possiede un’etica molto più ferrea e spietata della nostra.
Ecco, a me è venuto in mente un paragone (non così tanto) azzardato: perché mai è lecito riconoscere in Roth un professionista, che in sostanza s’è circondato di maestranze, ha messo su una squadra, in pratica, è s’è messo a fare film, e ciò non è ancora valido per chi fa lo stesso e si mette a produrre narrativa?
Perché il mondo è così pieno di stronzi?
Cheers. 😀
PS: perdona l’off-topic
Ma scusa, esiste un Tarantino della narrativa italiana? Se c’è, stalkeriamolo. :3
Io credo che dipenda dal fatto che il cinema costa, anche a livelli indie, un pozzo di soldi e quindi, prima di andare sul set, devi trovare qualcuno di esterno che giudica la tua sceneggiatura e ti dà quel pozzo di soldi per produrre il film. Anche i film autoprodotti necessitano di interventi esterni. E quindi ci si sente molto più tranquilli.
Solo che anche questo discorso sta diventando sempre meno valido, perché la tecnologia oggi permette di farsi il proprio film praticamente dentro casa. Ma se il cinema indipendente è sempre stato visto come una sorta di alfiere della libertà contro le major brutte e cattive, alla narrativa indipendente questo ruolo ancora non è stato conferito.
Visto e piaciuto (ok, a me i film cazzari piacciono, eccome!). Il mio commento è stato proprio “un Roth diverso”. In realtà lui è sempre uguale a se stesso… ma quella “pizza gratis”, oh, che poi un pelino in ritardo arriva a dire il vero, ti fa davvero cambiare posizione sulla poltrona.
Speriamo che questo rimanga l’andazzo 🙂
Infatti arriva parecchio tardi, però è così potente che ti fa saltare. Quindi il giudizio cambia per forza.
Ehi, grazie di aver citato il mio freevolo articoletto.
Io sono tanto contenta dell’evoluzione di Eli, come ti dissi. Vedremo belle cose in futuro, me lo sento.
Ma sono tanto contenta anche io. Sta facendo un bel percorso. Poi magari un giorno ci esce pure il capolavoro.
Secondo me è normale più film si girano più si impara dagli errori lo diceva anche David Bowie per arrivare al proprio stile ci vogliono almeno 2-3 dischi,anche se adesso se sbagli ilm o disco sei bruciato..
Sì, ma ci sono registi che esordiscono alla grande, mentre Roth è stato un caso abbastanza strano. Nessuno era disposto a dargli credito e se lo è dovuto conquistare col tempo.
Si è vero ma i veri talenti sono pochi,ci sono anche registi che cominciano bene,dopo non mantengono le promesse
E più deludente cominciare alla grande e poi scendere che il contrario non pensi?
Poi ovvio più ai soldi ha disposizione più puoi migliorare il resto:cast,direttore della fotogaìrafia e altro
Anche alla luce di Knock Knock, ho come l’impressione che Eli Roth per anni abbia dato al pubblico quello che voleva e, da un certo punto in poi (gli anni di mecenatismo lo hanno sicuramente aiutato. L’esempio recente di Clown parla da sé, direi…), abbia cominciato a far capire a quello stesso pubblico cos’è che davvero vuole/riesce a raccontare lui. E’ sempre lui, chiaro, ma stando così le cose c’è stato un bel passo avanti: forse non è ancora il momento di lasciare la bici incustodita quando passa, ma ci stiamo arrivando 😉
Visto e sinceramente sono rimasta un po’ confusa. Vedo di spiegarmi. Roth spiazza con qualcosa di diverso dalle sue solite porcherie, “The green inferno” meno peggio di altri ma per quanto mi riguarda sempre porcheria resta, ma poi butta tutto in caciara, meno violenta, ma sempre caciara. Insomma, alla fine mi è parsa una gran buona occasione sprecata. Ma forse io e Roth siamo incompatibili….
Già, perché poi il vero problema che spesso ci dimentichiamo (e che Roth qui ci ricorda molto bene, e, potrei dire, in modo psicoanaliticamente postmoderno) è che ” caos che vive all’esterno”, come tu scrivi, è lo stesso che vive all’interno di ciascuno di noi. E forse è sempre da quell'”interno” che è sempre partito.
la versione adulta di Hard Candy? Film che ho amato anche molto eh
Non proprio… Hard Candy era molto più denso e di spessore…
Bello, soprattutto la parte della seduzione, le allusioni, i tentativi di resistenza. Sicuramente era giocabile su altri registri, per renderlo più intenso, magari con altri attori (lui a me proprio non riesce ad andare giù). Però a me il finale comunque ha colpito ed è riuscito a lasciare un gusto amaro in bocca.
Sì, anche io credo che le capacità di Reeves siano molto limitate, ma qui funziona piuttosto bene. Roth non penso abbia la sensibilità per andare più a fondo di così. Ma ne ho apprezzato molto il tentativo. Alla fine è un buon thriller.
Qual è la morale di questo film? Semplice: Mai aprire la porta agli sconosciuti! Può essere anche il più insospettabile degli insospettabili a rovinare la nostra vita. Fossi stato io al posto di Evan, avrei risposto alle due ragazze (Genesis e Bel) che non conoscevo la persona che stavano cercando e neppure l’indirizzo. Ma soprattutto avrei detto loro che essendo da solo ed impegnatissimo, di aiuto non gliene avrei potuto dare. Quindi di conseguenza, le avrei indirizzate al più vicino bar/locale, dove sicuramente avevano il telefono.