Something in the Dirt

Regia – Justin Benson, Aaron Moorhead (2022)

Tra le varie uscite dell’anno scorso andate disperse nella stasi di questo blog, c’era anche l’ultima fatica della coppia di registi più lovecraftiana del cinema indie americano. I miei adorati ragazzi Benson e Moorhead, freschi di un contratto con la Disney, e dopo aver diretto un paio di episodi della bellissima Archive 81 per Netflix, non hanno nemmeno pensato di smettere di girare i loro film casalinghi tra amici, perché si vede lontano un miglio che questi progetti minuscoli e terribilmente weird sono la loro vera passione, e sono anche molto bravi a realizzarli con budget inesistenti, troupe e cast ridotti ai minimi termini e la loro capacità di sapersi destreggiare in ogni ruolo chiave dei vari reparti, alternandosi come direttori della fotografia e montatori. Questo film, in particolare, è proprio una roba minuscola, ma anche con ambizioni elevate, una storia che, per scelta precisa, non va da nessuna parte, un mistero che non ha una soluzione e, più viene indagato, smontato e sezionato, più allunga le sue propaggini e diventa inspiegabile.

John e Levi sono vicini di casa; il primo (interpretato da Aaron Moorhead) vive nel condominio di Los Angeles in cui si svolge il film da una decina d’anni. Suo marito lo ha lasciato da poco, fa il fotografo di matrimoni, ma avrebbe voluto insegnare matematica, e non ha una vera e propria direzione da dare alla propria vita; il secondo (Justin Benson), è appena arrivato li ed è un barista che ha superato la trentina, con tanti progetti falliti alle spalle, in libertà vigilata per un’accusa paradossale e, anche lui, arrivato a un punto morto in un’esistenza che non gli ha riservato grosse soddisfazioni. I due legano quasi subito e John aiuta Levi ad arredare la sua nuova casa. Dopo aver sistemato un divano, notano una strana rifrazione della luce su un portacenere di vetro smerigliato vicino alla finestra. Poi la luce comincia a espandersi a ondate per la stanza e infine il posacenere a levitare a mezz’aria. Spaventati, ma anche eccitati da quello che inizialmente interpretano come un fenomeno soprannaturale (un fantasma, dicono), i due decidono di girare un documentario, magari per farci un po’ di soldi e svoltare. Something in the Dirt è la storia delle riprese di questo documentario e dell’improbabile amicizia tra due personaggi molto diversi. 

Come già in Resolution e in Synhcronic (ma anche The Endless, nonostante i protagonisti fossero fratelli), Benson e Moorhead sanno raccontare l’amicizia maschile come pochi altri registi sulla faccia della terra. Lo fanno senza usare nemmeno uno degli stereotipi cui il cinema ci ha abituato nel corso di decenni di buddy movie, ma nemmeno sfruttando l’epica alla Milius con la quale di solito l’amicizia maschile viene narrata. Il loro è un approccio minimalista in tutto, anche all’horror e alla fantascienza, e non solo per questioni di economia, è proprio la loro cifra estetica, e l’ossatura del racconto dei loro film. Hanno questa attitudine mumblecore, ma priva della spocchia del mumblecore, unita a una tendenza ad andare sempre sul metafisico. Sono, in altre parole, unici, e non hanno alcun corrispettivo nel cinema contemporaneo. 
Something in the Dirt non lo si può definire un horror; siamo più nel campo della fantascienza o del weird, se vogliamo essere specifici. È una vicenda di stramberie varie che si sommano e di una ricerca che continua ad andare a vuoto. Allo stesso tempo, è un’analisi interessante e profonda della paranoia tipica dei nostri tempi, della difficoltà di intessere rapporti umani di spessore, della mancanza di un senso, di una direzione, di un qualcosa che funga da cardine e punto fermo alla girandola impazzita della nostra vita. Ed è un film di una tristezza micidiale. 

John e Levi, ognuno a suo modo, sono infatti due personaggi senza speranza. Uno dei due, John, si rivela anche essere piuttosto sgradevole, mentre Levi, in tutte le sue bontà e ingenuità. ha una statura tragica che lo salva dallo squallore in cui si trova a passare le sue giornate, ma gli riserva un destino molto ingeneroso. Insieme, sono una bomba tossica pronta a esplodere, con John che, forte della sua superiorità intellettuale, manipola Levi ogni volta che può, e Levi che si lascia manipolare perché si sente un fallito, è completamente solo e ha un bisogno spasmodico di condivisione con il prossimo. 
Il documentario non verrà mai portato a termine, continueranno a girarlo all’infinito, cambieranno decine di collaboratori, monteranno e rimonteranno le riprese milioni di volte, ne perderanno alcune, si perderanno in una miriade di diramazioni differenti del mistero, e si spingeranno ogni secondo di più in una trappola senza vie d’uscita, in una spirale di paranoia e teorie del complotto, cercando i segni e le conferme alle loro strampalate spiegazioni in una Los Angeles che è messa in scena come una mostruosità tentacolare. 

Calcoli infiniti, soluzioni matematiche, soprannaturali, universi paralleli o alieni che controllano la mente umana tramite parassiti trasmessi dai gatti, società segrete, motivi geometrici che ricorrono sugli edifici della città, coordinate trovate su vecchi nastri VHS, partiture musicali suonate dalla luce. In Something in the Dirt c’è tutto questo, e anche di più, è una discesa in un rabbit hole sempre più stretto che, invece di dare un senso alle vite dei protagonisti, le fa partire per la tangente e le distrugge poco a poco, come distrugge la loro relazione, che non si capisce mai sino in fondo quanto sia sincera e quanto sia dettata da un lato dal puro interesse, dall’altro dalla consapevolezza di essere soli in un mondo ostile. 
Non so se sia il film migliore di questo duo delle meraviglie, ma è di sicuro il più crudele e spietato, e il più maturo, quello che offre uno spaccato doloroso delle insidie e i traumi della vita adulta, come se Benson e Moorhead, entrambi alle soglie dei quaranta, in piena pandemia, si fossero messi a fare una specie di bilancio generazionale e non ne fosse uscito nulla di buono. 

A voler essere brutalmente sintetici, Something in the Dirt parla di progetti che falliscono, mentre l’universo ci guarda indifferente e ride del nostro affannarci a trovare un qualche tipo di senso alla natura caotica degli eventi che scombinano i nostri piani. Crediamo ci sia una volontà maligna dietro, un qualche tipo di cospirazione ai nostri danni, quando invece le cose accadono e basta, e noi possiamo solo contemplarle, sperando non ci facciano troppo male.
È un film bellissimo, Something in the Dirt, costato tre lire e girato davvero nel cortile di casa con un gruppo di amici, da due registi che sono a un punto tale nella loro carriera da poter fare qualunque cosa. Potrebbero lavorare con budget considerevoli, e sono certa che la Disney qualche proposta gliel’avrà pure fatta, quindi aspettiamoci a breve di vedere un blockbuster che porta la loro firma. Ma sono anche certa che questi film minuscoli e bellissimi non smetteranno mai di farli.
La dedica finale di Something in the Dirt è al piacere di fare film con gli amici.
È una perfetta descrizione del loro modo di lavorare. Voglio tanto bene ai miei ragazzi e spero che rimangano così per sempre.

3 commenti

  1. “L’uomo pianifica e Dio ride.” Diversi anni fa vidi Spring, il loro horromance, me ne innamorai… Benson e Moorhead sono due autori difficili e pericolosi, non dico che distruggono ma destrutturano qualsiasi cosa che toccano, ancora prima dei generi, le fondamenta su cui poggiano le mostre certezze, la bussola che ci orienta nel labirinto di “quel che accade quando ci occupiamo di altro” (la vita) così dell’amicizia (Resolution), dell’amore (Sping) o della fratellanza (The Endless) intesa non come fraternitas ma legame famigliare e di sangue ne frantumano il pilastro riducendolo a rovina i cui frammenti sono per forza di cose meno del tutto, se non inservibili. Rispetto al disperante Resolution o al claustrofobico The Endelss il senso di malinconia, finitezza e inanità che pervade Spring fa sì che abbia preferito quest’ultimo agli altri. Molti dei temi di Benson e Moorhead sono gli stessi di Perry Blackshear: dall’amicizia (They Look Like People) alla fratellanza (When I Consume You) declinati nella stessa chiave introspettiva e irrisolta. Ma i due amici statunitensi hanno il potere di imprigionarti in un loop di depressione dal quale è difficile uscire. Grazie del consiglio ma passo.

  2. Giuseppe · · Rispondi

    Un altro lavoro minimale ma indubbiamente interessante, quest’ultimo dei nostri due registi, ed è verissimo che qualcuno dovrebbe decidersi a foraggiarli con dei budget adeguati, una volta per tutte. Temo però assai che la “cara” Disney tenderebbe a mettere un po’ troppo il becco nel loro lavoro, alla fine, rischiando di appiattirne lo stile e le idee… Fermo restando che meritano di avere un po’ di dollaroni in più a disposizione, non sarebbe meglio una soluzione intermedia alla Blumhouse, almeno per il momento? 😉

  3. Benson e Moorhead li ho scoperti con The Endless e, senza sapere che erano loro, mi erano piaciuti molto con Syncronic e tantissimo con Spring. Questo devo guardarmelo. Sono due autori con tante buone idee e mi lasciano sempre un mix di inquietudine e appagamento dopo la visione di un loro film.

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