
Regia – Mark Rosman (1982)
Non fate caso alla data di produzione di questo gioiello della golden age dello slasher: The House on Sorority Row esce due volte, la prima a novembre del 1982, in distribuzione limitata e senza fare una lira; viene poi ritirato dalle sale e, grazie alla casa di distribuzione indipendente Film Venus International, riesce ad arrivare in parecchie sale e in alcune grandi città nel gennaio del 1983. Al secondo fine settimana di programmazione, il film balza al numero uno nella classifica del box office e finisce per incassare la bellezza di 10 milioni di dollari a fronte di un risicatissimo budget di un solo milione. Di conseguenza, mi pare molto più giusto festeggiarlo oggi e riservargli tutto l’affetto che merita. Perché ne merita in quantità industriale.
Rosman, che poi ha avuto una carriera essenzialmente televisiva ed è finito a girare film per la Hallmark, era un giovanissimo e ambizioso regista che, come tanti suoi colleghi tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, usava l’horror come una palestra, un terreno di sperimentazione linguistica e un modo per mostrare al mondo ciò di cui era capace. Per scrivere questo film, si ispira a I Diabolici di Clouzot, che detta così pare una bestemmia, ma se vi prenderete la briga di recuperare The House on Sorority Row, vi accorgerete che è del tutto pertinente.
Il film racconta infatti di un gruppo di consorelle appena laureate e pronte a festeggiare la laurea con un party epocale. L’idea è quella di organizzarlo nel dormitorio del titolo, se non fosse che l’anziana e un po’ squinternata direttrice della sorority, la signora Slater, le vuole cacciare via tutte non appena finita la cerimonia dei diplomi, per motivi che saranno chiariti soltanto in seguito. Le ragazze non ci stanno e organizzano uno scherzo ai suoi danni. Che va a finire malissimo, con la morte della signora e il suo cadavere che galleggia nella piscina del dormitorio.
Ovviamente, nessuna delle neolaureate ci tiene a farsi rovinare la vita da un incidente. Nemmeno la nostra final girl designata, Katherine, che per circa due secondi fa quella moralmente corretta che vuole chiamare la polizia, ma si lascia convincere a nascondere il delitto e a proseguire indisturbate con i festeggiamenti. Durante la notte, però, le consorelle vengono fatte fuori una dopo l’altra con il bastone da passeggio di Slater e il suo cadavere sparisce dalla piscina. Che sia ancora viva e in cerca di vendetta?
Come ogni slasher che si rispetti dal ’74 a oggi, The House on Sorority Row poggia su una rigorosissima unità di tempo, luogo e azione: tutto si svolge nel giro di 36 ore, gli omicidi avvengono durante il party e si esce dal dormitorio studentesco in una sola occasione, ma giusto per allontanarsi di pochi metri.
Spartano ed essenziale, ma con una storia abbastanza ingarbugliata per i parametri dell’epoca, The House on Sorority Row trova il suo punto di forza nello stile di Ronson, già assistente di De Palma, e straripante di inventiva e creatività nella messa in scena e nei movimenti della macchina da presa.
Ha la struttura dello slasher più classico, ma esercita l’arte della suspense in maniera, passatemi il termine, hitchockiana. Se il buon vecchio Alfred è il papà del genere, questo potrebbe essere uno dei suoi figli prediletti. Più che concentrarsi sulla meccanica degli omicidi (che alla fine sono quasi tutti fuori campo), il film mira a costruire lunghe sequenze di tensione preparatorie e a disseminare indizi, in parte come un whodunit, in parte come trattato sui sensi di colpa, le paranoie, le recriminazioni tra un gruppo di persone che hanno poco in comune se non l’età e il fatto di vivere tutte nello stesso luogo. È quindi un po’ più complesso di un Venerdì 13 o di uno dei suoi vari epigoni, di certo più sofisticato, se non altro per un linguaggio che non è quello semplice, schematico e rudimentale di molti slasher dei primi anni ’80, ma appunto quello mutuato da Hitchcock, dal suo allievo De Palma e dal mistery europeo degli anni ’50 e ’60.
Poi, sempre dentro a un B movie ci troviamo, e quindi non si perde una sola occasione per mostrarci le protagoniste il più possibile svestite o con improbabili tenute da camera trasparentissime che non lasciano alcuno spazio all’immaginazione. Quando si ricorda di far parte dell’exploitation, sa anche essere abbastanza violento, e quindi possiamo passare con una certa mancanza di vergogna da un magnifico piano sequenza durante la festa, con la macchina da presa che inquadra, uno dietro l’altro, i volti di tutte le ragazze colpevoli e le isola dal contesto allegro e spensierato che le circonda, a una testa mozzata infilata nella tazza del gabinetto. In fin dei conti, erano pur sempre gli anni ’80, e questo è pur sempre uno slasher che viene prodotto con lo scopo preciso di portare il pubblico giovane in sala.
Ma non era forse questa la cosa bella del periodo? Che l’horror, l’exploitation, la serie B in generale erano il territorio prediletto per sperimentare? Bastava attenersi a un paio di regole molto facili da rispettare (un po’ di pelle esposta, un po’ di sana violenza) e poi si era liberi di fare ciò che si preferiva. Guardiamo per esempio all’ultima mezz’ora di di The House on Sorority Row, quando l’unica a restare ancora viva è la final girl designata e il film si lancia in una estenuante scena psichedelica a base di allucinazioni, cadaveri che tornano in vita, medici impazziti, giocattoli usati come armi improprie e assassini vestiti da giullari. Da un lato si segue fino alla lettera il tipico atto conclusivo dello slasher: la nostra Katherine che si aggira, ormai da sola, nella casa e deve sfuggire al killer e trovare il modo di accopparlo; dall’altro Ronson gestisce questa prevedibile in maniera del tutto originale, inserendo un colpo di scena dell’ultimo minuto, immergendo ogni cosa in un neon rosato, trasformando lo spazio del corridoio e della soffitta del dormitorio in un luogo irreale e contaminato dallo stato psicologico alterato della sua final girl.
È un gran bel pezzo di cinema puro e inaspettato, e The House on Sorority Row è pieno di questi momenti che forzano gli argini del genere di cui comunque fa (orgogliosamente, aggiungo) parte.
Sapete tutti quanto io sia appassionata di slasher, compresi quelli più infimi e dozzinali, ma quando uno slasher riesce a essere anche un buon film, c’è da festeggiare. Auguri quindi a The House on Sorority Row, che ha quarant’anni e li porta da gran signore.
Uh, che bello! Buon compleanno!
Qualche anno fa vidi quello che a questo punto immagino fosse il remake (Sorority Row), peraltro più sul bruttino da quel che ricordo. Grazie della dritta, andrò a recuperarlo.