Dai che forse ce la facciamo a rimettere questo blog in carreggiata. Eccoci qui, infatti, per parlare di altri quattro film visti nel corso del 2022 ma non recensiti per motivi di pigrizia/mancanza di tempo/stress/esaurimento di ogni energia mentale disponibile nelle riserve della vostra affezionatissima.
Il procedimento è sempre lo stesso: sono tutti film che mi piacciono, ma procedo in ordine di gradimento.
Partiamo quindi con un piccolo film diretto dai due registi di Villains, del 2019: Berk e Olsen tornano a collaborare con Maika Monroe per Significant Other, uscito anche in Italia con l’opinabile titolo di Non Siamo Soli e disponibile in streaming su Paramount +. È un film che, purtroppo, ha avuto l’incommensurabile sfiga di uscire quasi in contemporanea con Barbarian, e di conseguenza è passato un po’ inosservato, ma vi assicuro che, se avete amato le giravolte e il dadaismo di Barbarian, potreste apprezzare parecchio anche questo, nonostante gli sia nettamente inferiore. Racconta di una giovane coppia in campeggio nei boschi (il film è stato girato in Oregon), che già di per sé è una pessima idea. Lui è fissato con le escursioni, a lei non può fregar di meno; lui ha un po’ la faccia da scemo, ma tutto sommato è un bravo ragazzo, lei soffre di attacchi di panico e ha una vera e propria fobia per il matrimonio e qualsivoglia impegno di natura sentimentale. Lui, ovviamente, le chiede di sposarla. Il tutto mentre una specie aliena ha deciso, proprio in quel momento, di mandare un esploratore in visita sulla terra per colonizzarla. Altro non vi dico. Significant Other parte serissimo e, nella seconda parte, compie una sterzata molto brusca nei territori del camp spinto e della horror comedy. Forse ha il difetto di avere un’idea molto intelligente, ma un po’ troppo stiracchiata per un lungometraggio, e quindi si trascina un po’ e diventa ripetitivo, anche se dura meno di 90 minuti. Ma resta lo stesso un film interessante e molto divertente, soprattutto quando sbrocca.
Torniamo a parlare di un tema che ha contraddistinto l’horror di questo 2022 come pochi altri, la violenza sulle donne, con un altro film minuscolo, tutto ambientato all’interno di una casa nel bel mezzo di una tormenta di neve, la notte dell’antivigilia di Natale. Diretto da Alison Locke, The Apology è una produzione originale Shudder della quale, se avete ascoltato la classifica di Nuovi Incubi, avete sentito parlare la mia co-host Marika in termini entusiastici.
Darlene (Anna Gunn) è una ex alcolizzata che, nel ventesimo anniversario della scomparsa nel nulla della figlia adolescente, si prepara a festeggiare per la prima volta dopo tanto tempo il Natale con tutta la famiglia. Si presenta a casa sua l’ex cognato, con la scusa di un guasto alla macchina, ma in realtà con uno scopo ben preciso: scaricarsi la coscienza. È lui infatti il responsabile della sparizione della figlia di Darlene. Non è un spoiler, perché di cosa parla il film si capisce sin dal titolo, e non è importante la rivelazione sulla vera natura del simpatico e colto zio Jack, quando la reazione di Darlene alla scoperta, lei che per tutti questi anni non ha mai mollato un secondo e ha continuato a cercare la figlia, che ha sospettato di chiunque, tranne che del marito della sorella, al quale era molto legata, del quale si fidava e, fa intendere il film, forse era anche innamorata.
The Apology è un film contenutissimo, una guerra di nervi tra due personaggi che se le suonano di santa ragione per un’oretta e mezza scarsa, la storia di un uomo che vorrebbe scaricare la responsabilità delle proprie azioni sulle vittime, non soltanto sulla ragazzina appena sedicenne alla quale ha stroncato l’esistenza, ma persino su sua madre, con questo tentativo sordido di chiedere scusa quando ormai è troppo tardi, nella speranza di essere sollevato dal rimorso che lo divora da anni. Devo dire che avrei desiderato fosse un film più scatenato, più estremo, ma capisco la necessità, da parte della regista e sceneggiatrice, di tenerlo all’interno dei più stretti confini del realismo, e di conseguenza controllarlo, senza farlo mai deragliare. Non è una visione facile, ma vale la pena dargli un’occhiata.
L’horror, forse perché non è mai un genere che si pone problemi di opportunità e buon gusto, ha sin dall’inizio della vicenda Covid trattato l’argomento senza alcun tipo di restrizione. Basta pensare a Host, che esce proprio in piena pandemia e racconta di una seduta spiritica online durante il lockdown. È da pochissimo uscito lo slasher Sick, scritto da Kevin Williamson, ambientato nel corso della quarantena, e credo ne arriveranno parecchi altri. Eppure, credo che nessun film, horror e non, sia stato in grado di fotografare il senso di isolamento, angoscia e disperazione di quel periodo come l’ultima fatica di Andy Mitton, un regista a cui voglio bene come se fosse un fratello, e che ancora mi fa venire gli incubi quando penso al suo Yellowbrickroad. The Harbinger è la storia di Monique, una giovane donna che sta cercando di attraversare la fase più acuta di una pandemia chiudendosi in casa col padre e il fratello, ed è costretta a viaggiare per soccorrere una vecchia amica dei tempi del college, Mavis, in nome di una vecchia promessa sugellata tanti anni prima. A proposito di incubi, The Harbinger racconta proprio di sogni che non fanno svegliare. Sogni che si diffondono come un virus da un ospite all’altro. Come tutti i lavori di Mitton, sia da solo che in coppia con il collega Jesse Holland, è una produzione indipendente a bassissimo costo, ma realizzata con grande cura e, soprattutto, con una direzione degli attori magistrale e una capacità invidiabile di costruire un’atmosfera di puro terrore dal nulla. È un film cupo, pessimista, straziante e crudele nelle sue conclusioni, ma mette in scena con grande sensibilità sia una bellissima amicizia sia un nucleo familiare unito e tremendamente credibile. Rischia di lasciarvi un po’ tramortiti sul finale e, anche se non menziona mai direttamente il covid (si parla di una generica pandemia), porta a galla tutta una serie di brutti ricordi che forse a molti di voi non va di rivangare. È splendido, comunque, un’ennesima conferma di un talento fuori del comune che, non capisco per quale motivo, non riesce mai davvero a sfondare.
Chiudiamo però su una nota lieta, con Tommy Wirkola che ci insegna lo spirito natalizio e il verso significato delle festività che ci siamo da poco lasciati alle spalle. Violent Night è probabilmente il film più noto di questa breve lista, è arrivato in sala da noi (anche qui, titolo molto opinabile), ha nel cast almeno un paio di star, è una produzione hollywoodiana non principesca, ma certamente ricca e Wirkola, caso abbastanza raro, non se lo è scritto da solo. E in effetti la sceneggiatura è un po’ la parte dolente dell’intera operazione. Ma per fortuna l’eroe norvegese dei nostri tempi non ci dà proprio il tempo di soffermarci su quanto sia esile e anche abbastanza banale la storia a cui stiamo assistendo, perché parte a razzo con l’ultraviolenza per la quale è diventato famoso e non sta fermo un secondo.
Violent Night può essere definito un incrocio tra Die Hard e Home Alone (questo citato più volte nel corso della pellicola): c’è Babbo Natale, quello vero, l’originale, interpretato da David Harbour, stanco, disilluso, alcolizzato e con zero voglia di portare i regali in giro per il mondo sulla slitta; c’è una famiglia ricchissima che si prepara a passare la vigilia; c’è una banda di ladri, capitanata da un John Leguizamo in forma smagliante, intenzionata a prendersi la bellezza di 300 milioni di dollari nella cassaforte della villa e che fa irruzione prendendo in ostaggio tutti i presenti. Non hanno però fatto i conti con Babbo Natale e il suo martello. Ora, io sono una persona dai gusti semplici e anche un po’ volgari, quindi se vedo Babbo Natale che sfascia a martellate le teste dei cattivi, vado in estasi e mi diverto come se avessi 6 anni. Violent Night è un passatempo delizioso e pieno di sangue, ma sotto sotto, dal cuore tenero, che ricalca in pieno il classico film di Natale, con tanto di famiglia sfasciata che ritrova l’amore e l’armonia proprio la notte della vigilia. Certo, qui la ritrovano spaccando il grugno a uno degli invasori con la statua del presepe del bambinello, ma non stiamo a sottilizzare, che alla fine la morale è sempre la stessa. È la forma che qui cambia, e la forma la imprime Wirkola a ogni inquadratura. Pur se fatto evidentemente su commissione, deve essersi divertito come un cretino a girare questo film, e noi che lo vediamo con lui. Harbour è mastodontico, il Babbo Natale che ho sempre sognato, ed è uno spasso vederlo incassare colpi, prendere cazzottoni, sanguinare e ricucirsi le ferite come Rambo, il tutto mentre aggiorna la sua lista magica dei buoni e dei cattivi.
Natale è passato da un po’, ma Violent Night va bene per tutte le stagioni.
Ciao Lucia, buon 2023!
The Harbinger mi ha folgorato, bellissimo. Bisogna stare attenti a beccare quello giusto, visto che nel 2022 ne è uscito un altro col medesimo titolo, a quanto pare molto meno affascinante 😀
Ho trovato adorabile Violent Night, piacevole Significant Other e onestamente irritante The Apology, che offre una bella premessa ma è a corto di fiato già dopo la prima mezz’ora.
Ciao! Buon anno a che a te!
Infatti io ho avuto problemi coi sottotitoli in inglese per The Harbinger, perché esistono soltanto per quell’altro, che secondo me è un film abbastanza dimenticabile. Comunque sì, bellissimo, una vera rivelazione. Mi domando sempre come mai Mitton non riesca a sfondare e non riesca a farsi dare un po’ più di soldi per mettere in scena le sue visioni.
The Harbinger fa parte di quel filone che prende a scusa la pandemia e il lockdown per raccontare altro (penso anche all’interessante Shelter in Place o, come ricordi, al recentissimo Sick: uno slasher invero molto gradevole). The Harbinger per lirismo, malinconia e senso di fine incombente ricorda molto She Dies Tomorrow (la versione intimista di Smile). Confesso che ho guardato The Apology esclusivamente per Anna Gunn (sì, faccio parte di quell’esercito innamorato di BB e che prima di BCS non credeva che ci sarebbe potuto essere niente di meglio): opera molto teatrale (non perfettamente riuscita, al pari del coevo Old Man – a proposito qualcuno ci dica cosa è successo a Lucky McKee che sapeva raccontare il mondo femminile in maniera cosi originale, credibile e mai scontata). Significant Other inizia come Red Dot (la coppia più o meno in crisi che cerca la ricomposizione e la loro ridefinizione dentro il teatro della natura) per poi sbandare in più direzioni: comedy, sci-fi, horror. Confesso che mi sono perso. Violent Night (dove il titolo italiano spiega il gioco di parole inglese) è due ore di ottimo intrattenimento che si regge su buon ritmo, ironia, violenza e la fisicità di Davide Porto; e che ha anche un grande merito: averci regalato, per una volta, una colonna sonora natalizia che mette da parte Mariah Carey e gli Wham!.
Significant Other mi incuriosisce parecchio, quindi penso di dargli la precedenza su tutto il resto. The Harbinger (quello giusto, ovviamente), in particolare, non sono poi così sicuro di aver già voglia di vederlo…