
Per questo sedicesimo giorno di ottobre, la challenge richiede di vedere un horror italiano, e io ho pensato di accorpare un po’ di cose, perché è il compleanno di Tenebre, che compie la bellezza di 40 anni a fine mese. Quale occasione migliore della challenge di Halloween per celebrare questo traguardo così importante?
So di passare spesso e volentieri per una a cui Argento sta sul gozzo. Non nascondo che sia, in parte, non del tutto falso, però è raro che un regista riesca ad azzeccare un’infilata di film straordinari come ha fatto lui dal ’75 all’85 circa. Che poi non ne abbia imbroccata più nemmeno una è un dato di fatto, e per un sacco di gente risulta quasi impossibile ammetterlo. Non ce la fanno proprio, preferirebbero tagliarsi via la lingua con un rasoio. Ma io in un certo senso lo capisco, dato che sono sempre quella che trova qualcosa di buono in Vampiro a Brooklyn.
Tenebre è un film interessantissimo per il momento in cui arriva: Argento torna infatti al giallo dopo la parentesi di Suspiria e Inferno, ma in questo lasso di tempo è successo qualcosa. Lo slasher è successo. Anzi, sta succedendo proprio in quegli anni. Nel 1982 siamo nel bel mezzo del primo ciclo produttivo, quello che si concluderà con Nightmare, per intenderci, e non è un caso se, lo stesso anno, Argento e Fulci firmano entrambi due film che sono nominalmente gialli, ma risentono dell’influenza dello slasher, due film violentissimi e feroci. De Lo Squartatore di New York abbiamo parlato qualche mese fa. Ora tocca per forza a Tenebre.
Ognuno a modo suo, e con lo stile diametralmente opposto che contraddistingue i due registi, sono film che esasperano così tanto l’estetica del giallo, portano il filone a un’estremizzazione tale da decretarne, in un certo senso, la fine. Sì, sono cosciente che dopo il 1982 sono stati girati altri gialli, e che lo stesso Argento si è reso responsabile di parecchi di essi. Ma è difficile andare oltre Tenebre e Lo Squartatore, alzano troppo l’asticella, mentre lo slasher, dall’altra parte dell’oceano, stava cominciando a rendere il nostro giallo ingessato, superfluo, obsoleto.
Se Fulci non era un tipo da andare tanto per il sottile, il nostro Argento invece ne fa tutta una questione estetica. Mantiene una parvenza di ambientazione e struttura del giallo classico (alta borghesia, interni di lusso, location cittadine, un mistero da risolvere), ma poi fa carta straccia di ogni elemento narrativo, come se avere una vicenda bene o male coerente da raccontare fosse una sorta di pedaggio, di noioso obbligo da espletare per potersi concentrare su ciò che conta davvero: gli omicidi, l’estetica della violenza, il sadico compiacimento nel filmare la morte e il percorso che a essa conduce. L’identità tra assassino e spettatore non è mai stata così completa come in Tenebre. Non c’è soggettiva di Jason che tenga: non esiste niente che possa battere la preparazione dell’assassinio di Tilde e della sua compagna. È voyeurismo eretto a poetica di un intero film; è un Peeping Tom privo di riflessioni e privo di morale. Il che solleva diversi problemi.
Anzi, solleva l’unico vero problema che io ho con Dario Argento: il suo è un cinema disumano, e Tenebre è, tra tutte le sue opere, quella che del concetto di umanità fa proprio a meno. Se poi ci aggiungiamo anche un chilo e mezzo di rivoltante misoginia, che non è dell’assassino, sia chiaro, ma rappresenta l’impianto ideologico del film, allora nessuno si scandalizzerà se preferisco un milione di volte Phenomena a Tenebre e, in generale, il Dario Argento soprannaturale a quello giallo e mistery. O come in questo caso slasher.
Perché Tenebre è esattamente ciò che nasce quando la natura punitiva e bigotta dello slasher americano incontra quella misogina del giallo italiano.
Se si passa sopra a questi dettagli, che non hanno bisogno di essere contestualizzati in quanto dati di fatto, e già discussi all’epoca e all’interno del film stesso, resta l’opera esteticamente più audace di Dario Argento, anche più degli eccessi di Suspiria, Inferno e Phenomena: l’impianto di Tenebre, per quanto di mera facciata, è realistico, e un tale grado di astrazione all’interno di una cornice non fantastica non si era mai visto prima.
Lo scarso interesse per i personaggi, l’ossessione per gli oggetti, le architetture, l’arredamento, per tutto ciò che è, in generale, inanimato e non vivo, la sensazione di stare sfogliando una vecchia rivista di moda, inserti pubblicitari inclusi. Sono caratteristiche applicabili a quasi l’intero spettro del giallo all’italiana con rare eccezioni (il giallo antropologico di Fulci, Reazione a Catena di Bava), solo che qui Argento, con consapevolezza e anche con un intento che non fatico a definire distruttivo, le porta al punto di non ritorno. Dopo Tenebre c’è solo l’autoparodia, e anzi, in alcune sequenze non dedicate a mettere in scena la morte, anche Tenebre somiglia a una parodia del giallo: l’arrivo a Roma di Peter Neal, la scena in cui la figlia del portiere entra nel suo appartamento per accendere lo scaldabagno, quella del furto nei grandi magazzini, quella nel bar con Tilde. In parte è dovuto alla recitazione che, come sempre in Argento, è il reparto più carente, in parte al doppiaggio, in parte a dei dialoghi legnosi come un comò del XIX secolo.
Ma non è solo questo, è che, come abbiamo detto in testa all’articolo, ad Argento interessa pochissimo tutto ciò che non è spiare i personaggi femminili e poi farne a pezzi i corpi. Il resto fa minutaggio.
Con questo, non voglio dire che a me Tenebre non piace: lo rivedo sempre volentieri, credo abbia una delle migliori colonne sonore dell’intera filmografia argentiana, adoro il modo in cui strilla Daria Nicolodi sul finale ed è sempre piacevole assistere a un bell’omicidio.
Se preferisco lo Squartatore di New York? Assolutamente sì, e se volete sapere perché, c’è il post linkato sopra. Ma comunque Tenebre è un tassello fondamentale nella storia del nostro cinema di genere e mostra come si possa fare un grande film facendo tranquillamente a meno di quella roba noiosa chiamata sceneggiatura.
Probabilmente menzionerei La casa dalle finestre che ridono (1976), questo horror il cui realismo fantastico ricorda molto la pittura di Cosmè Tura (e che quest’ultimo sia ferrarese come l’ambientazione del film non credo essere una coincidenza) con, tra i protagonisti, uno degli underrated più incompresi: Gianni Gavina. Potrei nominare, tra i registi, Roberto De Feo, a partire dal suo corto Child K (2014). Di produzione italiana aggiungo un trittico un poco fuori il mainstream ma decisamente più che interessante: L’erede (2011) di Michael Zampino; Fairytale, che io ricordavo col titolo de La fatina dei denti (2012) di Bisceglia e Malgarini; e La stanza delle farfalle (2012) di Jonathan Zarantonello.
I film di Argento (fino a Opera), visti più o meno da adolescente, sono sempre stati una specie di esperienza: mi catapultavano in un incubo e ne uscivo affascinato, spaventato e frastornato: sono davvero molto potenti.
Così è stato anche per Tenebre.
E’ però un regista che in qualche modo ho abbandonato molto tempo fa, con l’eccezione di Phenomena (ma questo distacco c’è stato, nel mio caso, con il cinema italiano in generale).
Il film italiano che condivido (non un horror – ma anche qui c’è un killer – e che forse ha pure qualcosa che lo accumuna e al tempo stesso allontana da Tenebre) è “Caramelle da uno sconosciuto”.
Besos!
anche io non ho fatto follie, quando parlai di Occhiali neri e feci un recap dei film di Argento che avevo visto, Tenebre lo misi tra i meh
a me proprio la rivelazione finale dei killer e che gli omicidi siano proprio apparentemente slegati senza che sia un serial killer come quelli americani
lo Squartatore di New York superiore a Tenebre? Be’, direi proprio di sì: pur essendo ancora in piena zona di sicurezza per quanto riguarda Argento (il peggio era ancora di là da venire, almeno per qualche anno), Fulci mantiene una coerenza interna accompagnata a un crudele, disperato e mai gratuito pessimismo (una sorta di omaggio, in chiave molto meno distaccata nonché ulteriormente esasperata, al Mario Bava di Reazione a Catena) completamente assenti nel film del collega che, a parte i primi anni ’70, si difende effettivamente meglio nel soprannaturale rispetto al resto. A proposito di soprannaturale, poi, l’horror italiano che proporrei di vedere è Zeder, punta di diamante di quel Pupi Avati fantastico/orrorifico che non ha mai avuto l’opportunità di emergere davvero…