
Regia – Arch Nicholson (1987)
Nel corso degli anni ’80, l’eco-horror è un filone che va gradualmente a morire, tranne che in un paese, l’Australia: ci torneremo spesso da quelle parti, parlando di horror a sfondo ecologicista e, dato che non stiamo procedendo in ordine cronologico, ma andiamo a sentimento, eccoci proprio verso la fine degli anni ’80 con un film che conoscono in pochi e non conoscevo nemmeno io, almeno fino a qualche settimana fa: ascoltavo il podcast ufficiale di Fangoria e i due conduttori lo hanno tirato in ballo parlando dei migliori film horror con i coccodrilli, ma specificando che si tratta di un qualcosa di più complesso rispetto al classico filmaccio con il rettile sovradimensionato. E in effetti, devo ammettere che Dark Age mi ha davvero stupita, perché per quasi tutta la durata del film, non avevo idea di dove sarebbe andato a parare. Non se vi ricordate di quando abbiamo cominciato questa rubrica e abbiamo fatto la distinzione tra semplice animal attack (che comunque abbiamo trattato e tratteremo) ed eco-horror vero e proprio; ecco, Dark Age è un eco-horror che si maschera da animal attack.
Innanzitutto, vi farà piacere sapere che John Jarratt è stato giovane, smilzo e pure discretamente figo: insieme al mitico Gulpilil e a quell’altra istituzione di Burnham Burnham. è il protagonista positivo (sì, ve lo giuro) del film. Interpreta un ranger che si occupa della preservazione dei coccodrilli nel Queensland: li cataloga, li pesa, li misura, li protegge da bracconieri che lo odiano e lo chiamano croc lover, ed è invece in ottimi rapporti con gli aborigeni che gli danno una mano spesso e volentieri. Considerando che si tratta di un film del 1987, l’idea che siano loro ad aiutare lui e non il contrario, è molto interessante e anche abbastanza desueta. Poi sì, è comunque un film datato ed è comunque interamente costruito sulla figura del ranger Steve, mentre gli altri due personaggi gli fanno da spalla, ma credo che, per l’epoca, il tipo di relazione proposta fosse decisamente all’avanguardia.
A mettere i bastoni tra le ruote al lavoro di protezione degli animali compiuto da Steve, arriva un enorme e misterioso coccodrillo, noto agli aborigeni come Numunwari. Ora, il problema è che per loro l’animale è sacro, per i bianchi è soltanto un guaio di proporzioni inaudite perché non soltanto si è pappato un paio di bracconieri, ma è arrivato fino alla spiaggia, ha ucciso un bambino e, soprattutto, minaccia gli investimenti di una compagnia che vorrebbe costruire lì una specie di villaggio vacanze. Il coccodrillo va, di conseguenza, eliminato il prima possibile.
All’inizio, Steve sembra voler seguire, anche se non proprio con gioia, gli ordini dei suoi superiori: il ricatto è chiudere il programma di protezione dei coccodrilli e lasciare il campo libero ai bracconieri per fare una strage; poi sono proprio i due personaggi interpretati da Gulpilil e Burnham Burnham a dargli l’idea. Catturare il bestione e portarlo in una zona isolata e priva di umana presenza, che insomma, non è poi così difficile da reperire nel Queensland.
Io non vorrei farvelo notare senza un’adeguata preparazione psicologica, ma Dark Age è Free Willy con un coccodrillo che si divora un bambino staccandogli la testa. Terra meravigliosa, l’Australia, e patria di un horror raramente addomesticato, che vive proprio sul conflitto tra una civilizzazione percepita come fragile, fittizia e precaria, e l’anima selvaggia di luoghi ancora carichi di mistero.
Dark Age, più che di una caccia al coccodrillo assassino (che poi è sempre il solito coccodrillo estuarino di parecchi film ambientati in Australia), parla di questo, di scegliere se andare dietro alle necessità materiali di un consesso sociale evidentemente edificato su fondamenta non proprio stabili, e quindi optare per la violenza, per l’annientamento dell’elemento che non rientra nel disegno, o seguire una strada capace di mantenere, se non altro, una parvenza di armonia con l’ambiente che ti circonda. Perché il nucleo del cinema australiano, e non soltanto della serie B, della Ozploitation, ma anche di quello più rispettabile, sta proprio nella relazione con un ambiente splendido ma ostile. A seconda del film, del grado di consapevolezza di sceneggiatore e regista, o anche degli obiettivi che la storia si pone, l’ostilità può essere dovuta a tante cose, persino a una cattiveria intrinseca ai luoghi e di origini quasi sovrannaturali; in questo caso, l’ostilità deriva principalmente dall’esistenza di un substrato magico che rigetta la presenza di chi non ne fa parte. Per essere il più chiari possibili, il territorio è ostile nei confronti dei bianchi, gli estranei, non degli aborigeni.
O, ancora meglio, è un fatto di percezione, di posti e paesaggi il cui significato si modifica a seconda dell’osservatore e del suo atteggiamento. In Dark Ages c’è proprio uno sguardo differente sulle cose da parte di chi vede il fiume e le creature che lo abitano come un oggetto da predare e da parte di chi invece ci vive dentro. Steve sta un po’ nel mezzo, più che altro perché, nel corso degli anni ha imparato a non entrare in conflitto con chi era lì prima di lui, e non pretende di capire tutto. Si trova tuttavia schiacciato da un lato dai bifolchi cacciatori illegali di coccodrilli che se ne vanno in giro ad abbatterli a fucilate, e le esigenze del suo dipartimento dall’altro, che lo minaccia costantemente di mettere fine a un programma di protezione degli animali con pochissimo consenso da parte degli australiani: per loro è soltanto un “contentino” dato agli aborigeni, e il bracconaggio è tollerato senza che si faccia davvero qualcosa per fermarlo.
In questa situazione, il minimo che può capitare è che un coccodrillo sacro si faccia rodere il culo e cominci a mangiarseli uno dietro l’altro, ai bracconieri. Io, al suo posto, farei la stessa cosa.
Per questo all’inizio ho scritto che Dark Age non può essere considerato un animal attack convenzionale, tipo Jaws o Anaconda. C’è qualcosa di più profondo che si agita sotto la superficie di serie B del coccodrillone assassino, una ricerca spirituale prima di tutto e poi, magari in maniera goffa e non del tutto centrata (parliamo sempre di exploitation) anche un tentativo di venire a patti con la mentalità colonialista e provare a dar voce a un punto di vista un po’ diverso dal solito. Non so, magari è una cosa che ho visto soltanto io perché ho le traveggole e tendo a sovrainterpretare i film, ma mi è parso anche che Dark Age cerchi di ribaltare la concezione tipica dell’eco-horror, quella della natura che si ribella a un’umanità che la maltratta. Dato che gli eco-horror sono quasi sempre realizzati da una prospettiva bianca e occidentale, si tende per forze di cose a dare una caratura apocalittica a questa ribellione: la natura si è rotta i coglioni e colpisce in maniera indiscriminata perché gli esseri umani sono tutti colpevoli. La vendetta di Numunwari è assolutamente selettiva e miratissima. E questo, credo, dà parecchio da pensare.
Il coccodrillo sacro che si fa rodere il culo rende perfettamente l’idea 😀
Pur conoscendo la maggior parte degli attori protagonisti (Jarratt compreso, ovviamente, e questo fin dai tempi di Picnic ad Hanging Rock), l’esistenza di questo curioso film aussie era ignota pure al sottoscritto e, a proposito di ribaltamenti del punto di vista, trovo molto interessante il fatto che, una volta tanto, l’eco-horror non venga rappresentato secondo le coordinate del senso di colpa bianco e occidentale (per assurdo è quasi come se, non paghi di devastare la natura, avessimo poi pure la pretesa di dettarle il modo in cui dovrebbe punirci TUTTI) ma segua regole arcane, differenti e più “sagge” nel dispensare il meritato castigo… OK, venduto anche questo 😉
Ma è allucinante come non lo conosca nessuno. Io perché seguo il podcast di Fangoria che è pieno di questi consigli anomali. L’Ozploitation andrebbe esplorata tutta.
Recupero, sembra davvero interessante