
Regia – Sean King O’Grady (2021)
Sono arrivata alla visione di questo film con addosso una discreta aspettativa: avevo infatti scoperto lo scrittore Max Booth III, e la novella omonima da cui We Need to Do Something è tratto, per caso, ascoltando il podcast Books in the Freezer (fatevi un favore, che è pieno zeppo di consigli di lettura imprescindibili per gli appassionati di narrativa dell’orrore). Ovviamente, nessuna opera di Booth III è disponibile nella nostra lingua, perché a noi la qualità c’ha rotto il cazzo (cit.), ma se poco poco masticate l’inglese, procuratevi questo racconto lungo o romanzo breve e vi assicuro che tornerete qui a ringraziarmi.
Quando ho saputo che la novella sarebbe diventata un film, ho iniziato a saltellare giuliva; quando ho visto che nel cast c’erano Sierra McCormick, Vinessa Shaw e Pat Healy, l’entusiasmo è arrivato alle stelle. Logico che, non appena disponibile, il film abbia fatto una vertiginosa scalata nelle mie priorità di visione. Tutto questo per dirvi che, anche quest’anno, ho trovato la mia cotta cinematografica, il piccolo film che non mi stancherò un solo istante di spacciare a chiunque me lo chieda.
E proprio di piccolo film si tratta, anzi, minuscolo: autofinanziato dal regista, che è qui al suo esordio ma ha una lunga carriera come produttore, e con gli attori che hanno lavorato praticamente gratis in cambio di un credito da produttori esecutivi, We Need to Do Something si svolge quasi tutto nel bagno di un appartamento. Se si escludono dei brevi flashback atti a dare un minimo di retroterra al personaggio della protagonista Mel, entriamo in quel bagno al minuto uno e non ne usciamo più.
C’è un’allerta tornado e Mel e la sua famiglia, formata da papà alcolista, mamma un po’ troppo passiva e fratello minore cagacazzi, si rifugiano nel bagno ad aspettare che passi. La tempesta si rivela più potente del previsto, un albero cade sfondando il tetto della casa e bloccando la porta del bagno, che rimane aperta giusto di una fessura, impossibile da buttare giù con la forza e senza strumenti adeguati.
Per le prime ore, i quattro se ne stanno tranquilli in attesa dei soccorsi, ma mentre il tempo passa, si rendono conto che non ci sono soccorsi in arrivo e che forse, lì fuori, è accaduto qualcosa di molto più grave e sinistro di un semplice tornado.
In parte thriller claustrofobico, in parte dramma su una famiglia disfunzionale, in parte horror apocalittico, We Need to Do Something è un esempio mirabile di economia narrativa e di perfetta gestione di uno spazio limitatissimo grazie a trucchi di regia e montaggio. È anche un saggio su come si dirigono gli attori e su come si utilizzano i dialoghi per raccontare tutto dei personaggi senza incorrere in futili e lunghe spiegazioni.
Che la famiglia al centro della vicenda sia sull’orlo dello sfascio ben prima che il tornado (o quel che è, tanto non lo sapremo mai con certezza) si abbatta sulla loro casa, obbligandoli a condividere per giorni e giorni un ambiente ristretto, è reso evidente dalle posture, dal framing, dal modo in cui gli attori sono disposti all’interno del bagno (il padre isolato rispetto agli altri, la madre in perenne atteggiamento protettivo nei confronti dei due figli, Mel che va subito a mettere tra lei e il resto dei suoi la vasca da bagno come se fosse un muro) e dalle poche parole che i protagonisti si scambiano tra loro e rivelano un mondo di incomprensioni e rancori tenuti a bada a fatica.
È già un bel campionario di nevrosi su cui costruire un film dai confini così rigidi, ma Booth III (autore anche della sceneggiatura) e O’Grady ci aggiungono l’elemento soprannaturale, che può essere soltanto frutto dell’immaginazione di Mel e del suo senso di colpa, entrambi galoppanti grazie alla privazione di stimoli esterni e alla mancanza di nutrimento cui il suo corpo è sottoposto, o può essere l’unica spiegazione alla loro reclusione e a quello che sta succedendo al di là della porta del gabinetto.
Il risultato è un film che diventa più strano, più folle e anche più feroce a ogni minuto, con un paio di sequenze che credo ricorderete a lungo, come quella del cane che mi ha dato incubi nella novella e me li darà anche di più dopo aver visto la sua versione cinematografica.
I nervi saltano, com’è normale in un frangente simile, ma è vero che cose inspiegabili continuano ad accadere, e mietono vittime. Più di tutto, l’orrore scaturisce dal non sapere, dal non avere alcun punto di vista sulle cose, dal poter soltanto fare congetture a partire dai rumori provenienti dall’esterno, molto poco rassicuranti, dal fatto che l’unica finestra sul mondo sia rappresentata da una fessura nella porta, fessura da cui comunque entrerà qualcosa, a un certo punto.
Per certi versi mi ha ricordato lo splendido The Divide di qualche annetto fa, anche se We Need to Do Something è decisamente più confinato rispetto al film di Gens, e almeno lì abbiamo un prologo in cui ci è dato di sapere cosa è accaduto. Qui siamo ciechi come i 4 personaggi, e la parziale giustificazione degli eventi fornita dai flashback di Mel, narratrice tutt’altro che affidabile, semmai ci getta in uno stato di ulteriore confusione.
O’Grady sta bene attento a rendere molto labile il confine tra la realtà e le fantasie di un’adolescente terrorizzata, tanto da arrivare, verso la fine del film, a un vero e proprio delirio allucinatorio con grande sfoggio di effetti speciali pratici e gore potrebbero mettere anche a dura prova lo stomaco di qualcuno.
We Need to Do Something è un film violento, lo è da un punto di vista fisico e lo è in misura maggiore, da un punto di vista psicologico. Mostra con una progressione implacabile come i sentimenti negativi repressi, all’interno del classico nucleo familiare visto in centinaia di film americani, possano arrivare a esplodere e a degenerare in odio puro nel giro di una manciata di ore.
Considerando che il racconto è stato pubblicato nel 2020 e il film è stato girato, in gran segreto, con troupe ridotta, nei mesi di settembre e ottobre dello stesso anno, viene spontaneo il collegamento con la pandemia, con le storie di milioni di famiglie intrappolate in quarantena, donne costrette a vivere in ambienti tossici da cui non si poteva uscire neanche per respirare qualche minuto.
La stesura della novella e la sceneggiatura del film risalgono al 2019, ma sia il regista sia lo scrittore hanno dichiarato in diverse circostante che l’atmosfera in cui si sono svolte le riprese ha per forza di cose influito su una storia che già di per sé, anche se casualmente, parlava di isolamento involontario, di rapporti che deflagrano e di violenza domestica.
Credo che pochi altri film recenti (forse soltanto Vivarium, ma per motivi diversi) siano stati in grado di ritrarre la bizzarra nuova normalità che stiamo vivendo con questa precisione, e con questa cattiveria.
In molti hanno criticato e criticheranno il finale, che per la sottoscritta è perfetto, e alla luce di tutto quello che ho scritto, coerentissimo. Se però siete tra quelli desiderosi di spiegazioni esaustive, non cominciate neppure a guardarlo perché non ne avrete.
Tenete d’occhio i titoli di coda per scoprire un insospettabile cammeo “sonoro”.
Lo potremmo definire un classico questo tipo di narrazzione,tutto in un’unica stanza e lavorando per sottrazzione! Anche una cosa apparentemente banale e sufficiente a gettare il caos,gli attriti tenuti nascosti che vengono lentamente a galla,avendo purtroppo esaurito ogni altro modo possibile per passare il tempo pacificamente durante un periodo di isolamento forzato! Di film tutti ambientati in una stanza ne ho visti abbastanza e tutti differenti nel plot,nell’attesa di vedermi anche questo,vorrei chiederti Lucia se per caso hai visto il film francese “Malefique” di Eric Valette,per me e un filmone passato un po in sordina durante il periodo splatter dell’horror transalpino che andrebbe riscoperto! Un salutone!😁
Sì, era un buon film Malefique, peccato che Valette sia poi sparito dopo il remake di One Missed Call.
Quando ci ripenso a volte sarei quasi tentato di fare il complottista di turno nei confronti dei cineasti horror francesi trapiantati in America! I produttori yankee che erano rimasti molto colpiti(forse,dico forse anche con una punta di invidia)dal lavoro dei francesi,in pratica li avevano assimilati per poi farli sparire negandogli la direzione di soggetti originali! Alexander Aja sembra essere l’unico rimasto negli stati uniti ad essere riuscito ultimamente a riprendersi,molti altri francesi o sono spariti dai radar dirigendo film poco pubblicizzati,oppure semplicemente si sono allontanati dall’America per poter di nuovo lavorare!
Sembra estremamente interessante!
Cara Lucia, avevo recuperato il film qualche giorno fa ma mi sono deciso a vederlo dopo avere visto che gli avevi dedicato un post. Ti devo confessare che la delusione è stata cocentissima; l’intento è chiaro (trattare in maniera allegorica la pandemia, il patriarcato, la crisi della famiglia e l’apocalisse prossima ventura) e gli interpreti sono bravi, ma l’insieme non regge, procede in maniera sghemba, è soporifero e sin dalla premessa sfida qualsiasi tipo di razionalità: ok, c’è un’allerta tornado e tu dove ti rifugi con tutta la tua famiglia, nel bagno esterno alla casa, con un’unica porta e nessuna finestra? E senza viveri? Poi chi è che ha ancora il bagno esterno alla casa? Altro che sospensione dell’incredulità…
Quando ho scritto l’articolo, io ero seriamente consapevole che questo era un film di quelli che piacciono solo a me. Sugli appunti che fai (a parte la cosa dei viveri, che secondo me non hanno alcuna ragione di portarsi dietro perché sono convinti sia un evento della durata di poche ore), non posso dirti niente. Io non mi sono annoiata, entriamo nel campo della soggettività pura.
Però quello non è un bagno esterno alla casa: l’albero sfonda il tetto ed entra nel soggiorno, bloccando la porta del bagno. Non sono all’esterno, sono all’interno.
Ammetto candidamente di non averla capita la cosa dell’albero che sfonda il tetto, pensavo la porta desse sull’esterno e che per questo i protagonisti cercavano tracce di altri esseri umani da quell’apertura. Grazie allora, vado a cambiare quanto scritto nella rece 🙂
E’ vero, molto dipende dal giudiio soggettivo; personalmente non posso negare si tratti di un film coraggioso, ancorchè (o forse proprio perchè) inadatto a tutti i palati.
Forse per me è stata più chiara perché io venivo dalla lettura freschissima del racconto, e quindi l’ho data per scontata!
Sì, coraggioso è coraggioso e comprendo perfettamente che possa non piacere, pure che possa risultare confuso e un po’ noioso.
Film con “chiusi” con un’unica ambientazione o quasi non sono una novità,ed in questo preciso periodo storico che stiamo vivendo certo il tutto viene amplificato(anche Oxygene di Aja gioca la carta un po’ la stessa carta in questo periodo anche se è un film per modi e tematiche molto diverso).Come può accadere in questi film alcune sequenze sembrano un po’ essere messe li per allungare il minutaggio,o meglio gli intenti del film di criticare la famiglia classico-borghese americana,il lockdown forzato che fa esplodere i rapporti del ciclo familiare ci sono;il film ha una sua identità figlio anche di una buonissima messa in scena e gusto estetico che ho apprezzato molto però il susseguirsi delle vicende spesso è allungato da situazioni gestite non in modo eccelso.
Però come appena sopraccennato il formato non so bene se 4:3 o comunque simile amplifica il senso di “stretto” e “chiuso”,le inquadrature hanno un ottimo gusto estetico ed in alcune scene alimentato il senso di esclusione soprattutto riguardante il padre…anche la fotografia l’ho trovata ottima.
Senza dubbio non è un film “per tutti” non si interessa neanche di fornire molte spiegazioni e questo alimenta anche il senso di mistero…dunque in conclusione seppur con i suoi difetti l’ho apprezzato ed O’Grady si aggiunge ai registi emergenti da tenere d’occhio.
Film con un’unica ambientazione o quasi non sono una novità,certamente in questo preciso periodo storico il tutto è enfatizzato(anche Oxygene di Aja gioca un po’ la stessa carta anche se il film ha temi e modalità totalmenti diversi).
Il film fa una critica della famiglia classico-borghese americana e di come un lockdown forzato possa far esplodere i rapporti familialiari,il problema è che come può accadere in film con un’unica ambientazione il come sono gestite alcune situazioni sembrano avere lo scopo di allungare il minutaggio seppur la narrazione avanza progressivamente.
We need to do something ha comunque una sia identità precisa,l’estetica mi è piaciuta molto,il formato 4:3 o simile da ancora più la sensazione di “stretto” che enfatizza la convivenza forzata della famiglia,inoltre le inquadrature hanno buon gusto ed alcune amplificano proprio l’estraneità di alcuni membri familiari(il padre su tutti),da evidenziare anche l’ottima fotografia.
Certo non è un film “per tutti” non punta proprio a fornire spiegazioni a mostrarci di preciso cosa accade all’esterno e questo alimenta il senso di mistero…in conclusione seppur con i suoi difetti l’ho apprezzato ed O’Grady si aggiunge alla cerchia dei registi emergenti da tenere d’occhi.
P.S.
Questo blog che ho scoperto solo di recente è bellissimo,qui in Italia è difficilissimo trovare pareri,recensioni sugli horror diciamo non “mainstream” complimentoni davvero!
Grazie! Sempre contentissima quando arriva un nuovo lettore!
The Divide mi era piaciuto assai, ai tempi! E il film di O’Grady, facendo le debite proporzioni, mi dà l’idea di esserne una sua versione (in piccolo) ancor più tesa e claustrofobica, con una sapiente spruzzata di atmosfere lovecraftiane che ben si sposano con il cupo mistero di ciò che può essere accaduto all’esterno (crescente minaccia nei confronti di un nucleo famigliare confinato in spazi ristretti e in progressiva/inevitabile disintegrazione)…
Ogni volta grazie a questo blog scopro dei film che mai avrei potuto conoscere e questo sembra essere uno di quelli più interessanti per i miei gusti.
Sono qui apposta e sono contenta di fare scoprire film a chi mi legge 😘