
Regia – John Ottman (2000)
L’horror degli anni ’90, quello post Scream, è tutto all’insegna del divertimento consapevole e smaliziato. Ma comunque del divertimento. Si tratta quasi sempre di film che non sono lì per colpirti allo stomaco o per farti mettere in discussione la tua visione del mondo. Al massimo ti fanno mettere in discussione la tua cultura cinematografica quando non riconosci la citazione giusta al momento giusto. Produzioni di intrattenimento, a volte gestite con intelligenza, a volte meno, ma comunque leggere, soprattutto se paragonate all’abisso di disperazione che si spalancherà nel genere a partire più o meno dal 2001.
A fare da ponte tra queste due tendenze del cinema horror c’è un piccolo gruppo di film usciti proprio a cavallo del passaggio di secolo. Me ne vengono in mente due in particolare: Valentine del 2001 e Urban Legends: Final Cut. A breve, lo prometto, approfondiremo proprio questo passaggio e vedremo che esiste una continuità tra l’horror tutto divertimento e strizzate d’occhio degli anni ’90 e il cupissimo torture porn dei 2000. Per ora limitiamoci a dire che Final Cut è uno slasher molto più riuscito di quanto si dica in giro, un sequel di gran lunga superiore all’originale, e persino un film complesso e, ora la sparo grossa, colto.
A dirigere Final Cut troviamo un compositore e un montatore premio Oscar qui al suo esordio. Trattasi di John Ottman, collaboratore fisso di Bryan Singer, che per l’occasione si fa uno e trino: non si limita alla regia ma scrive le musiche e si monta il film da solo. Alla sceneggiatura invece c’è una nostra vecchia conoscenza, Scott Derrickson, che magari ora tutti associate alla Marvel, ma bazzica l’horror da parecchio tempo prima che il MCU esistesse. È una bella squadra per un epigono tardivo di Scream, e infatti, a differenza di Urban Legend (da me sempre amatissimo, ne parlavamo nel Ciclo Zia Tibia dell’anno scorso), Final Cut non è un epigono, ma va oltre Scream, porta il fattore meta alle sue conseguenze più estreme e pittoresche, scegliendo come ambientazione una scuola di cinema, dove gli studenti protagonisti devono girare il film conclusivo del loro percorso di studi e concorrere per il prestigioso Hitchcock Award, che in teoria dovrebbe spalancare al vincitore le porte di Hollywood.
Quello che Final Cut fa, in sintesi, è di portare il fattore meta tra gli addetti ai lavori, non in sala o davanti a un videoregistratore, ma nel luogo cinematografico per eccellenza: il set.
Se ci pensate, lo stesso anno lo fa anche Scream 3: da Woodsboro a Los Angeles per le riprese di Stab 3. Ma il giochino è meno raffinato rispetto a Final Cut e, nonostante la rilevanza acquisita dal capitolo conclusivo della trilogia originale di Craven a causa di circostanze che con lo slasher hanno poco a che spartire, Scream 3 è troppo simile a una parodia per essere davvero efficace.
Final Cut è lontanissimo dalla parodia; non mancano gli elementi di commedia, tutti sulle spalle di Loretta Devine, unico personaggio a ritornare dal film precedente, ed eccezionale come al solito, ma sono tenuti sotto controllo e non diventano mai preponderanti rispetto alla struttura quasi da Giallo all’italiana del film. Nell’estetica e nella messa in scena, Final Cut deve tantissimo a Dario Argento. È il più “anni ’70” degli slasher anni ’90, se si capisce cosa intendo e, a differenza degli altri film della sua stessa stirpe, usa riferimenti un po’ più elevati, sempre appartenenti al cinema di genere, ma non solo legati alla tradizione dei B movie da drive-in cui fa capo la scrittura citazionista di Williamson. Si va dallo scontatissimo Hitchcock, la cui ombra si estende su tutto il film, a partire dal concorso cui partecipano i protagonisti, fino ad arrivare a dei curiosi rimandi a Vertigo, non con una donna che visse due volte, ma con un aspirante regista che visse due volte; c’è Peeping Tom, richiamato direttamente in un omicidio; c’è Blow Out di De Palma; c’è The Twilight Zone e, in particolare, l’episodio Incubo a 6000 metri. L’unica concessione che Ottman e Derrickson fanno allo slasher classico è un gustoso omaggio a Black Christmas. Se vogliamo, c’è anche Tobe Hooper con il suo Funhouse, a completare un quadro di numi tutelari non proprio scontati per un film di questo tipo.
Non dimentichiamo, tuttavia, che ci troviamo nel mondo di Urban Legend, e quindi non si può prescindere dal fare riferimento alle leggende metropolitane. Il film incastra con intelligenza questa componente fondamentale della saga nel contesto della scuola di cinema: la protagonista e final girl (poi ne dovremo, purtroppo, parlare) Amy è in crisi perché non ha idea di che soggetto utilizzare per il suo film. Documentarista per tradizione di famiglia, Amy è a disagio con la fiction, quando le viene un’idea: girare un horror sulle leggende urbane. Peccato solo che la sua troupe venga decimata proprio da un assassino che usa quelle stesse leggende come base per i suoi omicidi creativi. Di conseguenza, il killer sfrutta i set, gli effetti visivi e sonori, le attrezzature e gli oggetti di scena come strumenti per eseguire o camuffare i suoi delitti, rendendo ancora più complicato e ricco di sfaccettature il gioco metacinematografico: si muore letteralmente in scena come Sandra (Jessica Cauffiel), la cui dipartita è trasformata in uno snuff mostrato poi in sala al posto dei giornalieri del film studentesco di Amy; si muore dietro le quinte, allestendo le scenografie di un luna park abbandonato; si muore, infine, mentre i tuoi compagni girano quelli che in gergo si chiamano gli “a vuoto”, ovvero delle urla da inserire a parte e che finiscono per coprire le tue, mentre ti stanno ammazzando sul serio.
E si muore malissimo, in Final Cut. In questo, dicevo prima, fa da ponte per l’horror spietato e crudele del primo decennio del XXI secolo. Lo slasher che fa seguito al successo enorme e inaspettato di Scream non è solo leggero per tematiche e toni, lo è anche per quanto riguarda la messa in scena degli omicidi, sempre abbastanza contenuti. La violenza, nello slasher anni ’90, è addomesticata. Final Cut comincia, anche se solo parzialmente, a invertire questa tendenza.
Il primo omicidio, aggiunto a riprese ultimate perché non c’erano abbastanza morti, quello della leggenda degli organi asportati, è indicativo in tal senso: non voglio fare troppi spoiler, ma tra decapitazioni argentiane e organi interni dati in pasto ai cani, sembra quasi di ritrovarsi in un film di cinque o sei anni dopo, magari per la regia di Eli Roth. Poi le cose si normalizzano un po’ e Final Cut, da questo punto di vista, sembra davvero situarsi a metà tra due mondi, uno che sta tramontando e l’altro in rapida ascesa.
È solo un peccato che, mantenendo comunque una certa coerenza con il primo film, Final Cut abbia una delle final girl più mosce della storia del genere; Jennifer Morrison non è proprio all’altezza della situazione, oltre a essere di un’antipatia conclamata e imbarazzante. Tutti quelli che hanno visto il film sanno chi doveva essere la vera final girl. Eva Mendez, per forza: il suo personaggio, Vanessa, è migliore, le sue battute sono quelle più memorabili, la sua recitazione è molto più vivace. Solo che, per avere una final girl queer (Vanessa è dichiaratamente lesbica) avremmo dovuto aspettare una ventina d’anni o giù di lì. Intanto, tuttavia, in Final Cut l’omosessualità di Vanessa non è usata né come intermezzo comico né come elemento erotico per titillare il pubblico maschile. Anche in quanto a rappresentazione, Final Cut svetta sui suoi contemporanei e dimostra di essere qualche decennio in anticipo sui tempi.
So che si porta dietro una brutta fama, legata di sicuro al fatto che la qualità dell’horror in chiusura di millennio era in continuo calo, e dare credito al sequel di un film come Urban Legend non doveva essere sembrato, ai tempi, una grande idea. Ma sono passati più di vent’anni ormai, e ci si può guardare alle spalle senza per forza doversi dare un tono, ecco. Final Cut è bellissimo. Se non lo avete visto, date un senso a questo inizio d’estate passando una serata in sua compagnia; se lo avete visto tanto tempo fa, è arrivato il momento di dargli una seconda occasione. C’è molto da amare, qui dentro. Non ve ne pentirete.
Final Cut sì. E’ di gran lunga il meglio della serie. Per quel che concerne portare il giochino “meta” al cinema , forse il più smaccato è il Nightmare del ’94 di Craven.
O almeno per quel che mi riguarda molto di quello che Scream ci dice in qualche modo era già stato enunciato lì. Purtroppo per tutti i cineasti passati e futuri nel 1994 Dio Carpenter fa uscire un’altra sua bazzecola, e buonanotte mondo.
Il problema di Nuovo Incubo è che è arrivato troppo in anticipo, quindi non è proprio stato capito. E non ha la paraculaggine estrema di Williamson. Quindi è stato un bel flop commerciale, ma per fortuna col tempo lo hanno rivalutato.
Chiedo venia: mi accorgo che scrivo in un pessimo italiano : ho scritto “il giochino meta” come se ne pensassi con spocchia. Assolutamente no, ed è tutt’altro che un giochino in senso spregiativo.A SAPERLO FARE.
Si, avendolo visto ormai una vita e mezza fa credo sia arrivato il momento di ridargli una chance (che fosse assai superiore all’originale è fuori discussione, comunque)…
Tu dirai che non ci voleva poi moltissimo 😀
Eh, in effetti no 😀
UL2 mi piace molto. E’ uno di quei film “minori” che riguardi sempre volentieri (come, ad esempio, per me, Cry Wolf o My soul to take).
Ho ripensato alle accademie. Io non conosco il mondo del cinema, ma quello del teatro sì. Una scuola può essere un luogo che ti arricchisce umanamente e professionalmente, ma anche problematico dal punto di vista umano. Se ti va male, devi saper imparare quello che ti serve senza farti condizionare da una eventuale disciplina svalutante, che ti mette in competizione con i colleghi e col mondo, che ti insegna a sottometterti. All’inizio del film una attrice non molto brava (ma era tutta colpa sua era diretta pure male?) si becca una minaccia di morte, seppur semiseria. Poi SPOILER l’unico momento in cui sembra convincente (e umana) è quando muore davvero mentre la filmano (le scene coi suoi take sbagliati sono comunque da spisciarsi). Ecco, forse c’è anche una riflessione sui contesti formativi.
La protagonista l’ho apprezzata: acqua e sapone, tranquillona, sceglie di fare uno slasher per un concorso… da sposare! E’ convenzionale (però, dai, neanche tanto e le interazioni con la poliziotta mi piacciono molto), però alla fine, boh: SPOILER sembra quasi che diventi una regista super richiesta facendo degli action non esattamemente esaltanti. Magari il finale è pure un po’ satirico (lei è pure figlia d’arte). Certo, con Eva Mendez come final girl sarebbe stato un altro film.
Il finalone one one in clinica spacca.
Il finalone con il ritorno di chi sappiamo noi è favoloso. Peccato che poi non se ne sia fatto più nulla, perché mi sarebbe piaciuto rivedere quel personaggio.
Ma ora stiamo a vedere che succede, perché il reboot è in arrivo l’anno prossimo, e quindi non si sa mai. Magari Rebecca rispunta da qualche parte.
Allora la vera domanda per gli appassionati sarà: chi vince tra Rebecca e Angela? Do per scontato che ormai i vecchi Michael, Jason, Freddy… hanno fatto il loro tempo…:-). E dopo l’uscita sul concordato, voglio pure Suki Waterhouse che arriva in un convento per prendere il posto di una novizia morta da poco…
Scusatemi, ma lo slasher mi sta prendendo di brutto.