
Regia – Ben Wheatley (2021)
Mi mancava un po’ di follia alla Ben Wheatley, ultimamente; considerando che, dopo il bellissimo, ma comunque “normale” Free Fire, del 2016, avevo un po’ perso di vista le sue tracce, e già me lo vedevo a pascolare nei confortevoli campi di Netflix per il resto della sua carriera (Rebecca è incommentabile, con tutto il bene che voglio a Wheatley), sapere che aveva girato un nuovo horror mi ha subito caricata di entusiasmo.
In the Earth è stato girato nell’agosto del 2020 in un paio di settimane, con troupe e cast ridottissimi per ovvi motivi; è il film che riporta Wheatley alle origini del suo rapporto con il cinema di genere, ovvero a quando girava un crime che in realtà era un folk horror, ma nessuno se ne accorgeva fino alla fine, neppure i suoi protagonisti. In the Earth non fa come Kill List, non ti nasconde i folk horror in piena vista, ma lo rende evidente e chiaro sin dalle primissime sequenze: è un folk horror dichiarato, diciamo così. Però è anche un survival horror, un film di fantascienza, la storia di una vita aliena che risiede in una foresta alle porte di Bristol. Si presta, di conseguenza, a molteplici interpretazioni, nessuna delle quali è valida più delle altre.
È anche, come ambientazione, un film pandemico, ma andiamo con ordine.
La vicenda narrata nel film si svolge durante una pandemia, di cui riconosciamo i tratti distintivi in maniera immediata perché ormai siamo abituati a viverli: mascherine, igienizzante per le mani, distanziamento e via così. Eppure la pandemia non è affatto il fulcro di In the Earth; da un lato è un espediente per mostrarci dei personaggi isolati, assuefatti all’isolamento e le loro reazioni nel momento in cui tornano a interagire con i loro simili dopo un periodo di tempo indefinito; dall’altro è un modo per fare una cosa di cui il cinema ha ancora un po’ di timore: mettere in scena una situazione ormai parte integrante della nostra vita quotidiana, senza far finta che non esista e senza renderla lo snodo fondamentale della trama di un film. Riconoscere che intorno a noi è tutto cambiato e fare in modo che ciò si rifletta anche nell’intrattenimento.
In questo modo, la pandemia diventa il contesto di storie che, come dimostra In the Earth, possono essere anche molto diversificate tra loro e mirare da tutt’altra parte, tenendo comunque presenti gli irreversibili mutamenti avvenuti nel corso dell’ultimo anno.
In the Earth racconterebbe di un fungo che rende particolarmente fertile la già menzionata foresta alle porte di Bristol, della dottoressa Wendle (Hayley Squires), impegnata a studiarlo per capire quali effetti potrebbe avere sulle colture, di un ricercatore, Martin, che si offre volontario per collaborare con Wendle, anche se la scienziata non dà sua notizie da parecchi mesi (ma di mezzo c’è stata la quarantena, quindi potrebbe anche essere normale), della ranger Alma, incaricata di accompagnare Martin nei due giorni di cammino che separano la struttura governativa che fa da base agli scienziati dal campo di Wendle, e di un quarto personaggio, Zach, che pare venerare lo spirito della foresta, noto nel folclore locale con il nome di Parnag Fegg.
Ho usato il condizionale perché, in fondo, In the Earth non racconta, non nel senso tradizionale del termine: pone spunti di riflessione, suggestioni varie, ipotesi, quesiti. È un film che prende quattro personaggi e li getta in un ambiente ostile in cui mito e scienza si sovrappongono, si integrano e fanno l’uno da supporto all’altra, un po’ come ne Il Signore del Male di Carpenter. O in qualunque cosa per la BBC abbia mai scritto Nigel Kneale.
C’è sicuramente qualcosa nella foresta, e può essere uno spirito che richiede tributi e sacrifici, o può essere una sorta di rete neurale creata dai funghi che connette tra loro tutte le piante; ma può anche darsi che le spore dei suddetti funghi abbiano intossicato tutti i protagonisti, e che In the Earth racconti soltanto di un brutto trip collettivo, anche se questa possibilità è quella che mi convince meno. Piuttosto, potrebbero essere vere tutte e tre le ipotesi in campo, dato che una non esclude per forza l’altra e uno spirito non è che abbia bisogno di chiedere il permesso per scegliere la forma in cui manifestarsi. Non abbiamo molta voce in capitolo, ecco.
E anche questo, ovvero la reale natura di ciò che abita nella foresta, non è il perno intorno al quale ruota il film. Magari non l’ho capito neanche io molto bene e dovrei rivederlo una terza volta per avere conferme o smentite dell’idea che mi sono fatta, ma credo che il tema centrale di In the Earth sia da cercare nelle differenti reazioni che hanno i quattro protagonisti di fronte al mistero.
In particolare, Zach e la dottoressa Wendle cercano di dare un ordine, una spiegazione, a un qualcosa che ne è privo, mentre la guida Alma accetta che una spiegazione non vi sia e Martin si limita a fare da cassa di risonanza, a ricevere e amplificare quello che si trova tra gli alberi, nelle foglie, tra le spore dei funghi che, da un certo punto in poi, circondano come una fitta nebbia l’accampamento e, addirittura, impediscono ai nostri di uscirne.
C’è, da parte di tutti, Alma esclusa, il tentativo di stabilire una qualche forma di comunicazione con questa entità o rete neurale vegetale o qualunque cosa preferiate che sia: attraverso offerte, creazioni artistiche a essa dedicate, sacrifici umani, oppure tramite un’apparecchiatura in grado di registrare e riprodurre la “voce degli alberi” (in questo, In the Earth ricorda in maniera impressionante The Stone Tape, o ancora, apprendendo da testi molto antichi una via per parlare con quella forza del male che, secondo la frase di lancio del film, è la natura.
Il problema è che scienza, religione, tecnologia e persino il linguaggio in quanto tale, sono strumenti umani, utilizzati a sproposito per carpire il segreto di ciò che umano non è, e agisce su piani a noi del tutto sconosciuti. Torna quindi uno dei concetti fondanti dell’horror come genere: la perdita del controllo su noi stessi e sull’ambiente che ci circonda, derivata dall’entrare in contatto con forze che sono al di là della nostra portata. E qui c’entra anche il contesto pandemico di cui parlavamo prima, perché è impossibile non fare il collegamento tra quattro persone, isolate e alle prese con un elemento naturale che ne compromette il dominio sul mondo, dato fino a quel momento per scontato, e quanto vissuto dall’intera umanità nell’ultimo anno.
In the Earth va quindi a toccare parecchi punti di pressione e parecchie fobie collettive; lo fa adottando uno stile molto minimale, quasi dimesso, un ritmo volutamente spezzato da improvvisi squarci di sgradevolissima psichedelia e violenza brutale. Insiste sulle mutilazioni del corpo quasi alla maniera di un body horror anni ’70 e, sempre per restare nella decade più importante per il nostro genere preferito, ammicca all’eco-vengeance, facendo precipitare i quattro protagonisti in un incubo di alberi, fiori e spore, sempre più minacciosi e ostili mentre ci si avvia verso l’allucinato e niente affatto risolutivo finale.
Wheatley è un regista in grado di cambiare stile, di adattarsi a seconda del genere e delle tematiche affrontate di volta in volta, un vero e proprio camaleonte cinematografico, che capisce subito qual è il linguaggio più consono a ogni storia da lui (e dalla sua collaboratrice fissa Amy Jump) narrata.
In the Earth è la sua ennesima opera straordinaria e noi possiamo soltanto sederci a contemplare, ammirati, la nostra inadeguatezza di fronte a una natura che non è mai stata così feroce e ostile nei nostri confronti.
Adoro Ben Wheatley e sono contento che sia tornato ai suoi livelli..Se il flop con Rebecca lo ha allontanato dal mainstream meglio cosi’!
Allora, proprio lontano dal mainstream no, perché dirigerà il seguito di The Meg l’anno prossimo, ma comunque la cosa mi fa piacere, perché sono molto interessata a vedere cosa combinerà uno come lui con uno squalo gigante.
Film impalpabile e sfuggente..a suo modo geniale,il suo enigma è anche il suo fascino e punto di forza.. assolutamente d’accordo sul parallelismo con the Stone Tape e con l’horror ecologico degli anni 70.. ricco di stile e affascinante.
Nigel Kneale ci sta sorridendo da lassù 🙂
Oltre a Kneale e l’horror ecologico anni ’70 mi viene in mente anche una suggestiva serie tv britannica del 1975, Sky, andata in onda un’unica volta in Rai nei primissimi ’80 (Davide se la ricorderà di certo), dove la natura reagiva in modo ostile all’estranea presenza di un giovane umanoide alieno proveniente da un diverso spazio/tempo, in cerca di quelle antiche energie terrestri che gli avrebbero permesso di tornare a casa… ad ogni modo, Wheatley dimostra di essere andato a lezione dai migliori 😉http://www.clivebanks.co.uk/Sky/Sky.htm
Rebecca non l’ho volutamente visto, ma lui lo adoro, quindi credo che da come ne scrivi questo film accrescerà la mia stima nel regista.