Tanti Auguri: 20 Anni di The Gift

Regia – Sam Raimi (2000)

L’ultimo compleanno eccellente del 2020 è quello di un sottovalutatissimo Raimi in modalità southern gothic, che non ho mai capito per quale motivo il pubblico lo abbia apprezzato così poco, mentre quella pacchianata (divertente, per carità) di Zemeckis dello stesso anno è molto più vivida nel ricordo degli spettatori appassionati e di quelli “normali”. Forse perché The Gift, come il precedente A Simple Plan, sembra così poco in linea con lo stile di Raimi, da risultare ostico e poco appetibile per chi è convinto che si debba sempre restare uguali a se stessi. Insomma, per il 90% dei “veri fan” dell’horror, che vorrebbero rimanere in una perpetua ripetizione degli anni ’80 e sarebbero felici così.
In realtà, il buon Raimi, che è sempre stato e sempre resterà un funambolo, sa anche girare in maniera meno appariscente rispetto ai suoi standard, soprattutto quando si trova per le mani una storia da raccontare con dei tempi dilatati e un respiro maggiore. E questo è proprio il caso di The Gift, sceneggiatura gotica scritta da Billy Bob Thornton, che Raimi lo ha conosciuto sul set di A Simple Plan, con un cast impressionante, un considerevole numero di personaggi e un intreccio abbastanza complesso da avere bisogno di una messa in scena chiara e, soprattutto, improntata alla narrazione piuttosto che alla spettacolarizzazione.

Dato che voi The Gift non ve lo ricordate, e io stessa erano esattamente 20 anni che non lo rivedevo, cercherò di agevolarvi quel minimo di trama: nel solito sputo di paesuncolo nel culo di Bifolcolandia (questa volta in Georgia in mezzo alle paludi), vive una cartomante vedova, Annie, interpretata da Cate Blachett. Annie non è una ciarlatana, possiede davvero il dono del titolo e lo usa per aiutare i suoi compaesani che, in cambio, le danno di che mantenere i suoi tre figli dopo la morte del marito. Non se la passa benissimo, ma almeno riesce a mettere insieme il pranzo con la cena ed è, in generale, benvoluta, anche se c’è Keanu Reeves versione redneck a cui non va giù che lei legga le carte a sua moglie (Hilary Swank) e le consigli a più riprese di lasciarlo, se non vuole finire all’ospedale o, peggio, all’obitorio a forza di botte.
Un bel giorno, la fidanzata del preside della scuola locale sparisce nel nulla, a poche settimane dalle nozze; la polizia non sa che pesci prendere e, come extrema ratio, si rivolge ad Annie, che finirà per scoprire, nel corso delle indagini, una serie di cose molto spiacevoli.

L’impianto di The Gift è quello del mistery classico: c’è una persona scomparsa, c’è un cadavere, si cerca il colpevole, c’è persino il processo. Raimi è estremamente contenuto nel filmare l’intera sezione, chiamiamola così, procedurale del film. Tiene a bada tutta la sua furiosa creatività allo scopo di rendere scorrevoli i passaggi di uno script un po’ macchinoso e si appoggia parecchio su una protagonista in forma smagliante. Credo che The Gift sia una delle migliori interpretazioni della prima parte della carriera di Blanchett, forse addirittura la migliore. Di sicuro io sono di parte, eppure se non dovesse reggere l’attrice principale, cederebbe il collante che amalgama il film. In parte perché passiamo un bel po’ di tempo, soprattutto nella prima metà, ad assistere alla vita quotidiana di Annie, in parte perché a lei dobbiamo il risvolto soprannaturale e, di conseguenza, ciò che trascina The Gift in territori a noi consoni, quelli dell’horror.

Dove, al contrario, Raimi fa il Raimi, è in tutte le sequenze dedicate alle visioni di Annie, la migliore delle quali è di sicuro quella ambientata all’alba, e conclusa con nientemeno che Danny Elfman intento a suonare il violino in mezzo alla palude in cui sarà poi rinvenuto il corpo. Piccola nota a latere: Elfman non è il compositore di The Gift: aveva lavorato con Raimi in Darkman e in A Simple Plan, e sarebbe tornato a scrivere le musiche per lui nei due Spider-Man. Qui la colonna sonora, splendida, è di Christopher Young, che poi Raimi si sarebbe portato dietro nel suo ultimo horror propriamente detto, ovvero Drag Me to Hell. Ma, oltre a Elfman, ci sono altri pezzettini sparsi di Spider-Man, in The Gift, come J.K. Simmons e Rosemary Harris, nota ai più col nome di Zia May, a sottolineare una dimensione sempre artigianale del cinema di Raimi, anche quando gira un blockbuster: si ha sempre l’impressione di trovarsi in mezzo a una festicciola di vecchi amici.

Ma dicevamo delle visioni di Annie, e qui va messa in risalto l’enorme differenza tra Raimi e Zemeckis quando si occupano di storie di fantasmi: il secondo infila un jump scare dietro l’altro, mentre il primo costruisce con la macchina da presa e il suo continuo muoversi intorno agli attori la tensione che finisce per sfociare nello spavento. È un approccio alla classica scena horror molto raffinato e di complessa realizzazione. Prendiamo, per fare un altro esempio, l’apparizione di Katie Holmes annegata nel giardino di casa di Annie: l’intera scena è basata sull’imprevedibilità; si parte da una situazione quotidiana, quasi triviale (Annie che dà un bicchiere di latte al cane) e poi si scivola, senza avere il tempo di rendersene conto, nella dimensione onirica, per cui i cadaveri fluttuano sugli alberi. Lo spavento non te lo citofona mezz’ora prima, e il soprannaturale si insinua nel reale come una sua propaggine, non come un’intrusione violenta.

Nonostante racconti di fatti terribili (mariti che picchiano le mogli, abusi sui minori, femminicidi), The Gift è un film morbido, è pieno di calore, arriva persino a essere commovente grazie al personaggio di Giovanni Ribisi e al suo rapporto con Annie; credo che la sua tematica principale sia la nostra imperfezione e fallibilità, anche di chi possiede delle facoltà che vanno oltre il normale. The Gift è un film sull’errore insito nella nostra percezione: Annie sbaglia di continuo, sbaglia a individuare il colpevole, sbaglia la premonizione della sua stessa morte, sbaglia l’approccio con il povero Buddy, e questo perché noi scegliamo sempre cosa vedere, anche quando la nostra visione si estende al di là della mera realtà materiale.
Il dono di Annie è un dono fallato, come del resto lei stessa cerca di spiegare in tribunale all’avvocato difensore di Reeves: non è grazie a esso che Annie riesce a salvarsi la pelle, ma è grazie alla sua umanità e alla sua compassione, qualità di cui difettano (sarà un caso?) tutte le figure maschili del paese dove si svolge il film tranne Buddy, anche lui fallato e compromesso per sempre.
È, insomma, un Raimi molto diverso da quello cui siamo abituati, non solo per stile, ma anche per temi: non ci sono il cinismo di A Simple Plan o la crudeltà assoluta di Drag Me to Hell. The Gift è la piccola storia di una sensitiva il cui vero dono è essere una brava persona; è un film a tratti sonnacchioso, riflessivo, col ritmo lento del Sud in cui è ambientato, ed è gotico nel senso più pieno del termine. Un’anomalia, forse, ma comunque una magnifica anomalia.

7 commenti

  1. valeria · ·

    credo sia uno dei film più ingiustamente sottovalutati di sempre (il motivo resta ignoto anche a me). gli hai reso giustizia con questa recensione che non solo spiega perfettamente perchè questo film mi piaccia così tanto, ma mi ha anche fatto venire voglia di vederlo per l’ennesima volta (l’ultima visione risale all’anno scorso) 😀 non sarà molto natalizio, ma quest’anno di natalizio c’è ben poco, quindi ne approfitto.

    1. Ma in realtà è profondamente natalizio, perché è una ghost story, dopotutto, e in UK la notte di Natale ci si raccontano le storie di fantasmi, quindi…

      1. valeria · ·

        argomento inattaccabile! 😀 farò un double feature con “the woman in black”, giusto per non farmi mancare nulla 😀

  2. Un bel film che, stranamente, pochi si sono filati e avrebbe meritato più apprezzamenti

  3. Giuseppe · ·

    Un Raimi anomalo nel senso migliore, anche se incompreso dai più… non da noi, sia chiaro (come dimostra ampiamente la tua recensione)

    1. Giuseppe · ·

      Ottima, ci tengo a puntualizzare 😉

    2. No no, noi stiamo avanti!

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