King al Cinema: Ep 14 – The Stand

Regia – Mick Garris (1994)

E finalmente siamo arrivati al mastodonte pandemico, la trasposizione di uno dei più amati romanzi di King, nonché del più lungo, almeno nell’edizione integrale pubblicata nel 1990, quando lo scrittore poté reintegrare tutto il materiale stralciato nella prima edizione del ’78: ai tempi, la saggia Doublebay lo obbligò a tagliare circa 400 pagine perché far uscire un volume delle dimensioni del testo originale sarebbe stato troppo dispendioso. Ovvio che il signor King, nel 1990, poteva far uscire anche un libro grande quanto una lavatrice e nessuno mai si sarebbe azzardato a contraddirlo. E così vi beccate il mastodonte di cui non sono di certo una grande fan, soprattutto dopo averlo riletto di recente e averlo trovato orrendamente datato sotto moltissimi aspetti, di cui, temo, dovremo discutere.
Ora, la miniserie diretta da Garris, scritta da King stesso, e andata in onda sulla solita ABC nel 1994 è fedele al romanzo quasi fino all’autolesionismo, segna il momento preciso in cui Garris diventa l’accomodante esecutore della volontà di King, pagando un debito di gratitudine nei suoi confronti che ancora oggi sta finendo di scontare. Doveva essere De Palma a curare la regia dei quattro episodi tratti da The Stand, ma King si impose e scelse Garris, dandogli così la possibilità di lavorare, per la prima volta nella sua carriera, con un budget considerevole e su un progetto di alto profilo.

Il motivo per cui King volle a tutti i costi Garris è che si trattava di un regista “medio”,  e quindi la sua personalità non si sarebbe imposta sul testo, un rischio che, dopo Shining, il Re non era poi molto disposto a correre, non con uno dei suoi romanzi più importanti, premiati e addirittura accolti favorevolmente dalla critica.
Date le premesse, i risultati cui arriva la miniserie sono più che soddisfacenti.
Non ne avevo un cattivo ricordo: nonostante non la rivedessi da più di vent’anni, avevo impressi bene in mente i magnifici titoli di testa del primo episodio, unico guizzo creativo in oltre sei ore di trasmissione, le prove solide di un cast importante, la buona tenuta narrativa, con qualche lungaggine dell’intero mastodonte. Ma la cosa che più delle altre resta, di The Stand, a distanza di tempo, è che si tratta proprio di un condensato in immagini del romanzo di King, con un paio di aggiustamenti (tipo che il personaggio di Nadine è in realtà la sintesi tra due personaggi), il minimo sindacale per giustificare la parola adattamento, e qualche taglietto, soprattutto nella sezione finale, quando ormai la perfida Las Vegas è stata rasa al suolo e nel romanzo ci dobbiamo sciroppare una quantità considerevole di pagine in compagnia di Stu e Tom Cullen, alternate a Fran che ha le paturnie, mentre aspetta il suo uomo tutto d’un pezzo a Boulder. Due. Palle. Così.

In realtà, The Stand ha tenuto bene il peso degli anni, è ancora una visione, in parte, godibile. Il primo episodio fila che è una bellezza, nei due episodi centrali cala il ritmo di parecchio (ma era così anche nel romanzo), ci si riprende verso la fine del terzo con l’attentato dinamitardo compiuto da Nadine e Harold, e si arriva all’ultimo confronto a Las Vegas senza che cali troppo l’attenzione. Poi c’è, anche qui, un’inutile coda finale, ma Garris ha il buon gusto di farla breve, e finisce tutto in maniera abbastanza indolore. Non indimenticabile, ma neppure esecrabile come IT, per esempio.
Certo, gli effetti speciali di matrice televisiva sono come tanti spilloni negli occhi, l’apparizione della mano di Dio prima dell’esplosione mi fa venire voglia di chiudere il blog e dedicarmi al giardinaggio, mentre il povero Randal Flagg è minaccioso quanto la vostra affezionatissima col pigiamone felpato a gennaio. La colpa non è del pur bravo Jamey Sheridan, ma del fatto che Flagg è un personaggio tremendamente difficile da portare su schermo, il trucco mostruoso applicato sulla faccia dell’attore quando deve far paura è risibile, mentre gli effettacci di morphing anni ’90 per tramutarlo in demonio sono un qualcosa di cui vergognarsi in eterni.
Credo tuttavia che per i fan del romanzo sia impossibile uscire contrariati da una trasposizione del genere, anche se sono sempre stata dell’opinione che, se devo vedere una fotocopia per immagini, mi rileggo il libro e faccio prima, a maggior ragione se non viene fatto alcuno sforzo per eliminare, o almeno limare i difetti del testo, che qui vengono addirittura ingigantiti.

Rileggendo The Stand sono stata infatti colpita da due aspetti in particolare: il primo è che l’America sopravvissuta di Stephen King è quasi esclusivamente bianca, con la sola eccezione di Mother Abigail, che ha sì un ruolo chiave, ma è una vecchia ultracentenaria con una visione religiosa orripilante per qualunque essere umano dotato di raziocinio, ed esiste soltanto come catalizzatore per i protagonisti; il secondo è il manicheismo estremo, per cui viene a mancare qualunque sfumatura e non vi è, di conseguenza, un vero coinvolgimento nelle sorti di personaggi la cui principale caratteristica è essere mediocri. Anzi, la mediocrità è un concetto che King esalta ogni volta in cui se ne presenta l’occasione, con Stu a portare in giro per questa bianchissima landa decimata dalla superinfluenza, la bandiera dell’uomo qualunque, senza alcuna qualità, l’uomo che diventa un leader perché sa fare le cose, non perché abbia una mente particolarmente acuta o un qualche talento. Anzi, chi possiede, a differenza di Stu delle peculiarità intellettuali o, peggio mi sento, artistiche, è destinato ad abbandonarle per abbracciare l’umiltà, o a passare tra le fila dei cattivi e a morire malissimo a un angolo di strada (sì, Harold, sto parlando di te: la tua morte griderà sempre vendetta). Ci sarebbero anche dei personaggi interessanti, in The Stand: Larry prima maniera è interessante, ma poi si pente di tutti i suoi peccati e si cessa di sopportarlo; Nadine è interessante, ma si capisce sin da subito che per lei non può esserci redenzione, anche perché sta sul cazzo ad Abigail e quindi è una donna di malaffare; Harold, infine, è il più interessante di tutti, ma dato che è brutto, non ha i pettorali di Stu e, orrore, è uno che in vita sua ha letto qualcosina in più del retro di una confezione di schiuma da barba, deve per forza essere un individuo spregevole e invidioso della virilità altrui, ovvero di Stu.

Il Dio di The Stand è spietato, vendicativo, crudele, non esista a sterminare metà dei sopravvissuti al virus, più qualcuno dei suoi, solo perché gli gira storto. In alcuni momenti sembra di leggere il testo di uno di quei gruppi evangelici e conservatori che tanti danni fanno in USA, e non vi è alcuna distanza critica da questa visione della religione e della divinità in generale, no. King la abbraccia come la abbraccia Abigail e come, prima o poi, la abbracciano tutti quelli che non vengono inceneriti. Roba che tifare Randall Flagg è una reazione naturale a tutto questo bigottismo d’accatto spalmato su un mastodonte letterario. Roba che L’Esorcista sembra scritto da un ateo con una visione positivista del mondo. E mi stupisce moltissimo, considerando come King ha sempre trattato i bigotti di vario genere nelle sue storie, partendo proprio dalla mamma di Carrie, fino ad arrivare alla megera di The Mist, che è soltanto una versione bianca di Abigail, se ci pensate bene. Ma forse dovrei smettere di interrogarmi sugli anni in cui King si faceva di qualunque cosa in circolazione e proseguire oltre, non lo so.
Non sto dicendo che The Stand non abbia delle pagine bellissime, e non sono così stupida da non aver capito che si tratta di un romanzo basato proprio sulla contrapposizione frontale tra bene e male. Ma se il bene è quello rappresentato da Stu e compagni, preferisco il male, un milione di volte.

Giustizia per voi due

Anche perché chi ci fa la figura peggiore sono i personaggi femminili, tutti quanti (pochi), che esistono solo in relazione degli uomini protagonisti e non hanno mai una vera voce in capitolo. Considerando la fedeltà assoluta al testo e ai suoi temi principali adottata da Garris, è logico che ciò si rifletta pienamente nella miniserie, senza tuttavia la capacità kinghiana di infondere vita anche nei personaggi di contorno, persino in quelli che appaiono per poche pagine per poi scomparire, persino in un cattivo macchietta come Pattumiera, che nel romanzo ha forse i momenti più perturbanti, mentre qui è solo un pazzo piromane. Ma è normale, dopotutto: difficile, anche in sei ore, restituire certi dettagli, anche e soprattutto perché il format televisivo degli anni ’90 impedisce di inserire alcuni elementi scabrosi.
Garris sta a King come Mother Abigail sta a Dio: entrambi obbediscono senza fare domande e portano a casa il risultato voluto dal potere superiore.

Nonostante tutto, ritengo The Stand la più riuscita tra le miniserie kinghiane degli anni ’90. Che voi direte: non ci vuole molto e non è poi questo grande primato, ed è vero, ma se analizzate i titoli di cui abbiamo parlato da dopo Misery a oggi, vi accorgerete che The Stand è davvero il meglio cui si possa aspirare.
È un’operazione fatta su misura per i lettori, per far riconoscere loro in immagini quello che hanno immaginato su carta. E se è vero che l’immaginazione sarà sempre una ventina di passi avanti rispetto a qualunque regista, anche al più bravo, bisogna dare atto a Garris di essere andato molto vicino a una traduzione letterale filmica di un romanzo.
Può bastare? Ovvio che no, ma dopo IT e Tommyknockers, The Stand è una specie di benedizione.
Chi, come me, ha delle enormi perplessità sul libro, le ritroverà pari pari nella miniserie, chi invece con esso ha un rapporto meno conflittuale, ha davvero poco di cui lamentarsi.
Adesso vediamo cosa combinano con la serie in arrivo a dicembre. Magari qualcuno sarà così magnanimo da rendere giustizia a Nadine e Harold. Ci spero poco, ma non si sa mai.

11 commenti

  1. Ho letto il romanzo molto ma molto tempo fa (e dovrei rileggerlo) ma non ho mai visto la serie televisiva. Adesso ho comprato il Dvd insieme a quello dei Langolieri (quest’ultimo è stato il primo racconto in assoluto che abbia mai letto di King e ci sk o affezionato). Vorrei vederla perché appunti in molti dicono che sia uno degli adattamenti di King di quegli anni che vale la pena di vedere e anche uno dei più decorsi. Certo i suoi punti di forza e i suoi tanti punti deboli li hai elencati davvero bene.
    Ottima recensione.

    1. Ahia, se sei particolarmente legato a I Langolieri, aspettati di ricevere una mazzata enorme dalla trasposizione. Mamma mia, quanto dolore…

      1. Mi hanno già avvertito. Spero solo di essere veramente pronto a livello psicologico.

  2. valeria · ·

    questo è, stranamente, uno dei pochi libri di king che ancora non ho letto. volevo iniziarlo qualche mese fa ma il tema pandemico mi ha fatto passare la voglia. ho però visto la miniserie e mi trovo assolutamente d’accordo con le tue impressioni; ha tutti (ma proprio tutti) i difetti delle miniserie anni ’90, ma certi pezzi lasciano ancora il segno (ad esempio l’inizio). poi va beh, evito di commentare il trash di alcune scene o scelte attoriali perchè mi sembrerebbe di sparare sulla croce rossa XD comunque, tutto sommato, è uno dei pochi adattamenti kinghiani che rivedrei senza lamentarmi troppo.

    1. Guarda, in realtà la pandemia è protagonista soltanto nella prima parte del romanzo, come anche nella miniserie. Ma se hai visto questa, conosci quasi tutta la trama del romanzo, che è occupata dall’epica battaglia tra bene e male che però, dopo un po’, zzzzzzzzzzzzzzz

  3. enricotruffi · ·

    Per me è un mistero che il libro sia tenuto in così alta considerazione (se non per la solita motivazione inconscia “è lungo, dev’essere bello per forza” di molti lettori), e lo dico da fan di King; l’inizio è straordinario e realmente spaventoso, ma poi iniziano a comparire personaggi su personaggi, la storia si allunga in maniera inverosimile e finisce in una maniera completamente implausibile e narrativamente insoddisfacente (la missione di salvataggio dei nostri eroi non ha nessuna funzione, il loro sacrificio inutile). Della miniserie ricordo solo le parti brutte, ma vero è che non avevo ancora aggiustato le mie aspettative sugli adattamenti televisivi kinghiani anni ’90; secondo quei parametri, probabilmente spicca come un gioiello di raffinata fattura

    1. Con The Stand, appena cominci a farti domande, crolla tutto, però in realtà, se la prendi come tutta una faccenda di predestinazione, torna tutto, tanto era il loro destino che dovesse andare così.
      E non so se la cosa peggiori o migliori la situazione…

  4. Pattumiera è un personaggio interessantissimo anche perchè è il solo verso cui Randall Flagg mostra un minimo (molto minimo) di pietà.

    Harold Lauder è un incel ante litteram, non accetta che il suo oggetto del desiderio preferisca un altro a lui, perciò passa al Male, e merita totalmente la fine che fa. Non ho pietà per lui, ne ho molta per Nadine

    Gli altri difetti che segnali ci sono tutti, ma per quanto sia invecchiato male, per quanto il cristianesimo del libro sia più intriso di vecchio testamento che di nuovo resta un romanzo godibile

  5. Stefano69 · ·

    Non ho mai visto la serie, ma per quanto riguarda il romanzo anch’io mi sono sempre chiesto perché venga tenuto in così alta considerazione, tanto da essere addirittura considerato da molti il capolavoro di King. Sono molte le pagine avvincenti, ma qui, oltre ai difetti ottimamente evidenziati nel tuo articolo, sembra davvero che il Re abbia allungato troppo il brodo: forse aveva visto giusto la Doubleday all’inizio, ed anche lo stesso King, nella prefazione all’edizione ampliata, pare quasi giustificarsi con una excusatio non petita che non è da lui.
    Detto questo, se la serie televisiva è la fotocopia in immagini del libro, direi che mi posso risparmiare la fatica di vederla… Quindi grazie per la recensione 🙂

  6. Luca Bardovagni · ·

    “nel romanzo ci dobbiamo sciroppare una quantità considerevole di pagine in compagnia di Stu e Tom Cullen, alternate a Fran che ha le paturnie, mentre aspetta il suo uomo tutto d’un pezzo a Boulder. Due. Palle. Così.”
    SPOSAMI (in un universo parallelo in cui io sono Rhona Mitra, of course).
    Sul romanzo: hai ragionissima, sul fatto che King sia manicheo…lo è anche nelle sue pagine più riuscite… sul fatto che sia un’America prevalentemente WASP (bhe, più che prevalentemente..) bho, forse è quello che King conosce…Non ha fatto una piega, mi pare, a vedere Roland nella “Torre nera” interpretato da un nero. (film che non ho visto).
    Sul romanzo che invecchia male nulla da dire (infatti le pagine migliori-poche-sono dedicate al vecchio R.F.).
    Però io un po’ di empatia dell’autore verso Nadine e Harold la vedo..
    Ah, alla fine Nadine è l’unica che “frega” R.F. con una propria AZIONE ,seppur autodistruttiva. Gli altri umani, Mother A. compresa, mica ce la fanno… Mano di dio is the way…
    Infine, una delucidazione: sostieni che la versione “uncut” sia il suo libro più lungo ..nei miei vecchi Sperling & Kupfer economici rimane IT. Almeno a numero di pagine.

  7. Giuseppe · ·

    Il romanzo non credo di averlo mai letto, mentre la miniserie l’ho vista e me la ricordo ancora piuttosto bene: un prodotto ancora discreto dopo parecchi anni, se si riesce a passar sopra a un manicheismo perennemente sopra il livello di guardia con gli ulteriori bonus di 1) personaggi “buoni” tagliati con l’accetta della mediocrità (intesa, non si sa bene perché, come principale caratteristica del bene) e personaggi “cattivi” destinati senza speranza ad esserlo solo perché un tantino più interessanti e sfaccettati (Nadine e Harold, sì) rispetto alla concorrenza e 2) manifestazioni del soprannaturale tra il poco efficace (un Randall Flagg fra occhiacci rossi e trasformazioni non poi così demoniache) e il ridicolo conclamato (quella manona divina nel finale, che più che “grazia benedetta” io l’avrei chiamata “maledetta cazzata”)…

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