Jason Blum non è stato il primo a compiere l’operazione di far tornare Laurie Strode a confrontarsi con la sua nemesi, come non è stato neanche il primo ad azzerare la timeline della saga: correva l’anno 1998, Scream era stato un successo, la Dimension Film dei Weinstein (ahia) impazzava, lo slasher era all’improvviso tornato in auge dopo anni di stenti, e Halloween compiva 20 anni. Non c’era occasione migliore per rivitalizzare una serie di film ormai avviata verso un indecoroso oblio. È il produttore storico del primo Halloween, Moustapha Akkad, ad avere l’idea di riportare Jamie Lee Curtis in pista, insieme a John Carpenter alla regia. La sceneggiatura venne, ovviamente, affidata a Kevin Williamson, nonostante non appaia tra i titoli di testa in mezzo agli autori, ma come produttore del film. Williamson è responsabile della prima stesura, e anche di quell’infelicissima trovata che avrebbe poi giustificato il seguito Resurrection. Una cosa per cui non smetterò mai di maledirlo.
Come mai, a dirigere il film ci è finito Steve Miner? Per la cifra esorbitante chiesta da Carpenter, che voleva “vendicarsi” della miseria guadagnata ai tempi di Halloween. Akkad gli scoppia a ridere in faccia e si chiama il tappabuchi Miner, che dove lo metti sta.
In H20 ritroviamo Laurie Strode, scomparsa dalla saga a partire dal secondo capitolo, che si è finta morta e ha cambiato nome. Ora dirige una scuola privata in California, ha un figlio, è un’alcolista funzionale, si imbottisce di psicofarmaci e, a ogni fine Ottobre è tormentata da incubi riguardanti MIchael, che in questa timeline è suo fratello.
Il film comincia in Illinois, dove rivediamo un’altra vecchia conoscenza e dove il nostro assassino mascherato preferito fa la sua prima, gloriosa apparizione. e poi ci si trasferisce in California a conoscere il cast di adolescenti atto a fornire carne fresca al coltello di Michael, e anche a dare un senso al genere di appartenenza di H20, perché uno slasher senza giovani gaudenti non ha molto senso di esistere.
Si nota che, nel lasso di tempo (piuttosto scarso, appena 3 anni) che intercorre tra Halloween 6 e Halloween H20 è passato il ciclone Scream, perché sembrano due film girati in due diverse ere geologiche. Eppure, l’era Miramax/Dimension Film per Halloween comincia proprio con il sesto capitolo, l’ultimo in cui appare Donald Pleasance, morto proprio nel ’95, e il primo in cui ci mettono lo zampino i Weinstein, passaggio di consegne reso evidente dal massacro perpetrato dai due fratellini produttori ai danni del film, ma non divaghiamo.
Dicevo, l’intervento di Williamson dà una bella riverniciatura alla ventennale carriera di Michael e pone tutta la questione sotto una lente citazionista e autoreferenziale, come nella migliore tradizione facente capo a Scream; abbiamo quindi Janet Leigh che interpreta un personaggio chiamato Norma e chiede a Laurie se può permettersi di essere “materna” nei suoi confronti; abbondano, tanto per cambiare, battutite, ammiccamenti, riferimenti più o meno velati ad altri film dell’orrore; intere sequenze dei primi due Halloween vengono riproposte con opportune modifiche, tali da essere riconoscibili per lo spettatore smaliziato, ma non così tanto da gridare al plagio.
Soprattutto, in Halloween H20 i personaggi si comportano come se sapessero di essere in un film dell’orrore e conoscessero in anticipo i rispettivi ruoli. È uno degli slasher più consapevoli di tutta l’ondata post Scream, persino più consapevole del mio guilty pleasure preferito (che probabilmente vi infliggerò ad agosto e di cui non rivelo il titolo).
Il progetto legato ad H20 era quello di lanciare Halloween in una nuova era, con seguiti a non finire; per questo la prima scena di Resurrection è stata girata l’ultimo giorno di riprese di H20: tutti erano convinti che si sarebbe trattato di un nuovo inizio, di quello che oggi chiameremmo un integrale reboot della serie, che è poi l’operazione di Blum e Gordon Green.
E, chi lo sa, magari se Resurrection fosse stato un film non dico bello, ma almeno un film, ecco, forse la storia di Michael Myers sarebbe stata molto diversa. Forse ci saremmo addirittura risparmiati Rob Zombie e il suo remake che, lo ricordo di sfuggita, fu un’idea dei Weinstein per riesumare nuovamente la saga per il suo trentennale.
Il progetto Blumhouse è di sicuro molto più organico e strutturato rispetto al caos e alla casualità disorganizzata della Dimension Film che, ha sempre proceduto alla come capitava e a seconda degli eventi. Però, sulle prime, non si può negare che ci avessero azzeccato: l’iniezione di modernità somministrata da Williamson funziona e H20 è il capitolo con l’incasso più alto dell’intera serie di film, capostipite compreso.
Io non ho mai nascosto l’adorazione per H20, che nella mia classifica personale della saga si trova ancora al secondo posto, subito dopo l’originale di Carpenter, e credo che gran parte della sua riuscita sia dovuta a due fattori principali: il personaggio di Laurie, mai stato così complesso e approfondito, e la regia di Miner che, da vecchia volpe del genere (è comunque tra chi lo stile slasher se lo è inventato), capisce, come già aveva capito Craven, che le tendenze superficiali e gli ammiccamenti post e meta di Williamson vanno in parte disinnescati: se ci sono battaglie perse in partenza, tipo quella sul personaggio di LL Cool J, quando si tratta di mettere in azione la macchina di morte di Michael, l’unica strada percorribile è quella di fare tremendamente sul serio e seguire le orme del Maestro.
Fare di Laurie un personaggio segnato e definito dall’incontro con Michael non è uno spunto originale dell’Halloween uscito nel 2018. Ci avevano già pensato vent’anni prima, con la differenza sostanziale che la Laurie del XXI secolo è rimasta ad Haddonfield ad aspettare il ritorno di Michael per ucciderlo una volta per tutte; la Laurie del 1998 è invece scappata in California, si nasconde sotto falso nome e, nel corso del film, è obbligata dalle circostanze a evolversi, a smettere di essere una creatura terrorizzata e ad abbracciare la sua missione di nemesi di Michael. Se la Laurie del film di Gordon Green rimane più o meno sempre identica a se stessa e la sceneggiatura del film ruota intorno alla necessità di validare la sua posizione, dimostrare che aveva ragione, la Laurie di Steve Miner ha un percorso più problematico e, a mio avviso, più interessante, perché implica un cambiamento, non del mondo intorno a lei, ma del personaggio stesso, che deve accettare il ruolo che la storia del cinema le ha imposto. Jamie Lee Curtis è straordinaria in entrambe le circostanze, ma è qui che ritorna all’horror dopo averlo abbandonato per anni. In pratica, la nostra Jamie Lee, in H20, è un trattato di metacinema ambulante.
Dal canto suo, Miner coglie in pieno il linguaggio adatto per questa storia e anche in circostanze non favorevoli (sostituisce Carpenter all’ultimo istante, un’eredità non facile, diciamo) si dimostra un professionista impeccabile e un regista di grande mestiere, che sa sempre quello di cui il film ha bisogno. Questo si nota soprattutto nella sequenza d’apertura e nella lunghissima scena d’inseguimento finale tra Michael e Laurie nell’istituto deserto, in particolare quando il killer mascherato cerca di stanare Laurie nascosta sotto i tavoli della mensa scolastica. Miner si studia Carpenter, in parte lo replica, in parte lo scimmiotta, ma quello che gli riesce meglio è comprendere l’essenza di un personaggio vuoto come Michael e tradurla in immagini, cosa che pochi registi sono riusciti a fare, tentando quasi tutti, chi più chi meno, di conferire a Myers delle minime connotazioni umane, un background, delle motivazioni, che non può e non deve avere.
Prima di Jason Blum e Gordon Green, ci si era messo Miner a far tornare Michael Myers a essere The Shape, e pure con successo. Ovvio che, con l’azzeramento totale della timeline della saga, oggi di H20 si parli sempre meno, ma io credo che sia giusto recuperarlo, metterlo nella giusta prospettiva e volergli un po’ di bene. O almeno riconoscergli i suoi meriti, che non sono affatto pochi.
Interessante l’analisi che fai del personaggio di Laurie nel film, se non altro perchè regali spessore a un film che di spessore altrimenti non ne avrebbe tantissimo. Io lo vidi al cinema e mi divertii molto, era esattamente quello che mi aspettavo: un Halloween destinato a coloro che avevano appena apprezzato Scream.
Ma questo H20 è il film di Laurie, o almeno, io l’ho sempre visto così. Fenomeno Scream a parte, è davvero tutto strutturato intorno a lei e al suo personaggio.
E’ il film di Laurie, ma anche dei ragazzetti e persino di quel cogli#ne della guardia al cancello, sicuramente non il film di Michael Myers, che sembra più un macguffin che un villain iconico. Miner ha l’accortezza di non soccombere ai tratti più “williamsoniani” (ovvero le scaramucce tra adolescenti e gli eccessi citazionisti) della sceneggiatura, però si adatta a “prolungare” innaturalmente le scene di tensione per cercare di dare pane ai denti degli spettatori di Scream ormai scafati sui meccaniscmi classici della suspence.
La guardia che vuol fare lo scrittore grida vendetta.
Però i ragazzini, una volta che Laurie prende il controllo della situazione, spariscono velocemente dalla scena.
Sinceramente, mi ricordavo che avessero più minutaggio di quello che in realtà hanno.
Perfetta la conclusione dell’articolo: è doveroso recuperare il film ed è giusto riconoscerne i meriti.
Io l’ho sempre apprezzato, sia per la sua aria scanzonata e ancora molto “ventesimo secolo”, sia soprattutto per il personaggio di Laurie, mai così profondo e interessante. Consentitemi di dire che preferisco questa Laurie a quella del 2018 (che pure ho apprezzato).